23.
Il visitatore, girando per la sala n. 2, preme inavvertitamente un pulsante sul pavimento, che aziona la registrazione di una sua intervista a Radio Trieste, dopo il processo per mancati pagamenti e il ventilato sequestro di alcuni pezzi del Museo, fra cui il cannone anticarro.
«No, certo che no, quel cannone, quel PaK 40, non gliel’avrei dato giammai, non glielo do, è un’indecenza, un’ulteriore dimostrazione della plebea ignoranza e insensibilità di questa città di mercanti e trapoleri nei confronti di chi si sacrifica per renderle onore, come il sottoscritto col suo Museo. Se avessi saputo che stavano andando a prelevarlo, l’avrei caricato e li avrei accolti a cannonate. Che si azzardino a toccare la spada del mio trisavolo Conquistador e li infilzo. Che i me sbati a mi in canon, piutosto.»
Da un CD nella sala successiva, giunge una voce che canta in dialetto.
«El Coroneo xè la mia casa – e i Gesuiti xè ’l mio bel giardin...»
Sulla parete, una piccola tabella: I Gesuiti ovvero il loro collegio, allo sbocco dell’antico rione malfamato di Cavana in Città Vecchia, collegio più tardi adibito a prigione, sostituita poi da quella del Coroneo.
In galera si sta bene, diceva, fra gente per bene, i vanzumi de galera xè quasi tuti fora. Come quei de la Risiera. Come certi bei nomi altolocati scritti in quei cessi della Risiera – per quelli, altro che in canon, in inferno, in camera a gas... Niente paura, non faccio nomi, non ancora, ogni cosa a suo tempo. In canon ci si va così, per quasi niente, un po’ di umido per terra e scivoli sulla merda. Poteva succedere a un altro. E anche se scivoli più facilmente perché hai bevuto un po’ nella tampa di fronte... vino rosso fa buon sangue e fa anche scorrere sangue, così, per niente, come del resto le mitragliatrici e l’antiaerea. Un bicchiere di troppo, una parola di troppo, il coltello ribalta il vino e si ficca in una pancia, i bombardieri si alzano in volo e sganciano bombe. In un coltello c’è già tutto il Museo. Anche là sotto, nei cunicoli di Cità Vecia, ho trovato alcuni coltelli, rossi di ruggine, di chissacosa.
«Tuti lo conosemo / se ciama Antonio Freno / e col coltelo in seno / girava la cità.»
La cantavano dallo Sgnanfo, noto per la porzina il Refosco e le vecchie canzoni, loffie ma sempre commoventi perché del tempo che fu. Magari avessi trovato quel coltello, dottoressa Brooks, le aveva detto durante una delle loro interviste, proprio quello finito in pancia alla guardia. Due che si scannano – due eserciti, due smafari avvinazzati, è la stessa cosa. E le guerre, ogni guerra, hanno bisogno di canzoni. Tutte le sere sotto quel fanal... Siam partiti, siam partiti in ventinove solo sette siam tornati qua... Cantava bene, ricordava Luisa, quasi commosso. Senza le canzoni, aggiungeva, la guerra sarebbe il mattatoio e basta. Lo è, naturalmente, però... Perché tante belle canzoni, fraterne umane pietose, che ti fanno amare la vita, nate dal macello? Ci deve essere qualcosa, in quel macello, se fa fiorire tanta umanità, forse domani piangerai ma dopo tu sorriderai... quanti fiori dal letame di sangue. Ma quella di Antonio Freno – ’na guardia de patulia / de posto in via Crosada / xè stada ’ssassinada / de un nostro zitadin – la cantavamo là sotto quando scavavo, con quegli altri due, nei tombini sotto Cità Vecia.
Sì, nella presunta Camera Rossa che avevano scoperta il 14 ottobre 1926, in cui teneva le sue riunioni e processi il tribunale della Santa Inquisizione di Trieste, presieduto da un giudice col cappuccio scarlatto. «La vasca era presumibilmente destinata all’immersione degli imputati nell’acqua gelida e melmosa, finché non confessavano» (dal verbale manoscritto della riunione del 16 ottobre 1926 della Società archeologica triestina).
Una fotografia mostra una specie di caverna buia, circolare, un lungo sedile di pietra e, sul lato opposto, una grande vasca.
La famosa Società archeologica. L’avevano fondata nel 1925, lui, Poldy Wiesenstein e Piero Delconte. Solo loro tre – non vogliamo dilettanti o chiacchieroni che vadano a spifferare le nostre imprese e scoperte, specie adesso che bulldozer, scavatrici e rulli compressori danno l’assalto alla Città Vecchia, la sventrano, la abbattono. Per risanare, dicono. Il Duce vuole Trieste bella e pulita e luminosa. E il podestà Enrico Paolo Salem, circonciso battezzato e fascista antemarcia, ce la mette tutta la sua proverbiale competenza di amministratore di banche e del Comune, per distruggere, sbudellare e fare tutto nuovo. Noi, da lì sotto, quando possiamo sabotiamo la distruzione, chiudiamo un buco che gli operai di sopra hanno appena aperto, Poldy è riuscito pure a danneggiare il grosso pneumatico di un camion. Noi, da là sotto, resistiamo al mondo di sopra...
Già, resistenza... Così aveva detto anche alla Commissione di epurazione, come risultava dal verbale del 15 maggio 1947. «Sissignori, resistenza, è la parola giusta; non sono qui per giustificarmi, ma consapevole di aver ben meritato in quegli anni di fosca dittatura. La camicia nera l’ho indossata, come tutti, perché è stupido offrirsi inutilmente al bersaglio, le armi sono sempre pronte a sparare, guardate il mio Museo, basta aspettare il momento giusto. Mimetizzarsi, la tattica della guerriglia. Sì, è vero, il 30 aprile e il 1° maggio ’45 trattavo con i tedeschi e poi a loro nome con gli jugoslavi e due giorni dopo con gli inglesi e gli americani, ma così ho salvato la città. E poi anche i tedeschi erano galantuomini, con loro era un piacere trattare. Ma andate a chiedere a quegli sloveni di San Pietro del Carso affiliati all’Osvobodilna Fronta, ve l’ho già raccontato, e vi diranno come, facendo l’interprete per i tedeschi che li rastrellavano, ho salvato la pelle di tanti di loro, convincendo i nazi che erano brava gente che non si impicciava di politica. E in fondo, a Trieste, il 2 maggio è a me che il Generalmajor Linkenbach ha capitolato e si è arreso, mi ha anche consegnato la sua giacca, che ogni tanto mi piace indossare quando ricevo qualcuno.»