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La libertà di Eleuterio #4

Torino, al Lingotto. Inizio gennaio 1952

«INGEGNEVE, non deve cvedeve che la Juventus sia avvantaggiata pev la pavtita di sabato.»

Gianni Agnelli conduce Codecà a braccetto lungo lo sterminato ufficio amministrativo che si affaccia da un lato su Mirafiori, e dall’altro sui reparti di catena. Le scrivanie vuote creano una via, una sorta di corso principale.

«È puv vevo che il vecupevo di Wilkes e Blason è in fovte dubbio, ma anche se non dovessevo favcela l’Intev continua a esseve una fovmazione temibile.»

«Senz’altro, Avvocato.»

«E poi non dobbiamo favci ingannave. Abbiamo cinque punti in più, ma l’Intev deve vecupevave la pavtita con la Fioventina. Ciò significa che potenzialmente siamo avanti di soli tve punti.»

«Ho sentito dire che Wilkes ha un problema al ginocchio», abbozza Codecà, per nulla interessato. È addirittura rimasto indietro nella conversazione.

L’Avvocato, come se niente fosse: «Pevsonalmente non cvedo che Olivievi si senta di vischiavlo, pevlomeno non dal pvimo minuto. In ogni caso savemo pvonti. Come sempve», conclude cingendo le spalle di Codecà.

L’ingegnere sente addosso il suo sguardo gioviale e colloso, quello che sembra sempre una presa in giro. Il giovane Agnelli non è il tipo di uomo che piace a lui. Però è il capo. Quasi.

«Voglia scusarmi, Avvocato.»

Vittorio Valletta se ne sta in disparte, davanti alla grande parete di vetro che si affaccia sulla catena di montaggio. Dall’alto, osserva gli operai, le mani allacciate dietro la schiena. È piccolo, la pelle di cera, l’attaccatura alta dei capelli, le labbra da negro e gli occhietti cerchiati.

«Professore…»

«Buonasera, ingegner Codecà», ribatte Valletta senza voltarsi, assorto. Indica la massa di uomini e metallo che si muove a scatti, sotto di loro. «La responsabilità di tutto questo è nostra, nostra e di nessun altro.»

Di tanto in tanto il vetro vibra, come se lo stabilimento respirasse. Erio osserva gli operai, il grembiule bianco sopra la tuta blu macchiata di grasso. Ciascuno è chiuso nel recinto del telaio della Millequattro che pende dall’alto, a mezz’aria. Via via che le cinghie del trasportatore scorrono nelle guide, le automobili si completano, dallo stadio più elementare sino a quello finale: motore, semiasse, differenziale, carrozzeria, cerchioni, volante, parabrezza. Codecà può osservare tutti i passaggi della produzione col solo movimento degli occhi, da sinistra a destra, al pari di una fotografia stroboscopica. Come se leggesse la fabbrica su una riga di centinaia di metri, dove le macchine sono parole e gli uomini virgole.

«Siamo soddisfatti dei risultati della S.p.A.», fa d’improvviso Valletta.

«Grazie, Professore.»

«Oh, non è il caso di ringraziare. Lavoro e ringraziamenti non vanno d’accordo.»

«Ha ragione.»

«Perché voleva vedermi?»

«Ecco… i-io…» tartaglia Codecà.

Il suo silenzio fa voltare Valletta. «Ebbene?»

Codecà prende coraggio. «Professore, lei sa bene di quali compiti io sia stato investito negli ultimi anni. Compiti che non hanno esclusivamente a che fare con questioni produttive…»

«Certo, ho capito a cosa allude. Dunque?»

«Gli incontri con i nostri interlocutori in Svizzera diventano ogni giorno più rischiosi. Lei sa bene che non mi sono mai tirato indietro di fronte agli interessi dell’azienda…»

«Di questo gliene do atto, ingegnere.»

«Negli ultimi mesi ho notato strani movimenti a Ginevra e a Berna. Temo che il terreno non sia più pulito come un tempo.»

Valletta studia la sagoma di Agnelli che fuma davanti a una Torino grigia di freddo.

«Ingegnere, intuisco che lei stia avanzando dei dubbi di natura personale circa gli incarichi che le sono stati assegnati.»

«Non mi fraintenda, Professore. Non temo per la mia persona, e d’altronde non ho dubbi che l’azienda sia in grado di tutelarmi adeguatamente. Mi limito a rilevare che in futuro potremmo avere delle noie. Noie gravi.»

«Americani?»

«Potrebbe essere.»

«Certi rischi fanno parte del nostro lavoro», fa duro Valletta, una scudisciata d’occhi. «Chi pensa che il rischio d’impresa si riduca agli investimenti non conosce il mondo. Ma noi il mondo lo conosciamo. Io e lei.»

«Senz’altro, Professore.»

«Lei sa cosa vuol dire essere sequestrato da una banda armata di partigiani. Lo so anch’io. Sa cosa significa trattare ai massimi livelli, spostare incalcolabili quantità di ricchezza da un Paese all’altro. Lo so anch’io, e più di lei. Sappiamo cosa significa votare la propria vita al successo di un’azienda, che non è solo un’azienda, ma un’Idea. Un progetto di vita e di futuro. Questo vorrà dire che ci daranno dei fascisti, dei filonazisti, dei democristiani, dei filoatlantisti, qualcuno addirittura ci chiamerà comunisti, in alcuni frangenti.»

Erio ascolta le parole di Valletta e un rivolo di sudore gli scivola lungo la colonna vertebrale.

«La verità, ingegnere, è che noi non siamo nessuna di quelle cose. Noi siamo tecnici, e in quanto tecnici siamo innocenti. Il popolo è innocente perché è massa; noi lo siamo perché rappresentiamo la parte migliore del popolo, la sua coscienza più limpida. Siamo quella parte della società che deve avere il coraggio di vedere quello che oggi non c’è, di saper guardare sempre avanti. E noi sappiamo come farlo.»

«Innocenti…» mastica Codecà.

«Fascisti, nazisti, americani, democristiani, comunisti. Loro sono passati, oppure passeranno. Noi siamo sempre qua e continueremo a esserci. Stia tranquillo, ingegnere. Seguiti a lavorare.»

Il vetro vibra per l’ennesima volta.

L'insolita morte di Erio Codecà
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