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Il prence #1
Castello di Trabia (Palermo), gennaio 1953
SE avessi seguito le regole sarei stato per sempre bastardo. Un bastardo.
Camminavo da solo, mettendo i piedi scalzi sopra al leone rampante fatto di tasselli di maiolica. Il simbolo della mia famiglia, il mio simbolo, quello che vidi per la prima volta nel ’27, sugli arazzi di Palazzo Butera, quando nonna Giulia mi abbracciò e mi disse: «Raimonduzzu», come se pronunciare il mio nome potesse guarire le ferite, o riempire d’un tratto anni di esilio.
Cadeva tutto. Tutto.
Il castello era vuoto, spoglio e fatiscente. Avevo cacciato via gli uomini. Manovali, muratori, decoratori, piastrellisti, serramentisti. Anche Giovanni De Simone, l’artista, l’allievo di Picasso, quello che mi doveva restaurare i mosaici. Artisti dei miei coglioni. Se sapeste che cos’è l’arte, l’avreste applicata alla vostra vita. L’avreste ricercata dove davvero sta. Nelle macchine, nelle pistole, nella fica delle donne, nel coraggio, nell’essere uomini. Sareste stati voi, l’opera d’arte. E invece non siete stati capaci.
Io sì.
Ma adesso non so.
Non ero sicuro che quei lavori fossero stati una buona idea. La ristrutturazione del castello, tornare ai vecchi fasti di donna Giulia Florio. Perché? Per dare una casa a Olga e Venturella. Poteva essere una risposta.
Però di risposte non ne voglio più. Voglio solo domande. Le risposte mi seccano le palle. Nella vita degli stronzi non mi ci farete entrare.
Attraversai le stanze sballottato dal whisky, come nella stiva di una nave. Nella testa si scontravano le parole di Now Is the Hour di Gracie Fields. Pezzi di melodia, come chiodi arrugginiti, che mi bucavano il cranio, sfondavano le mura del castello, trafiggevano l’umanità, quelli là fuori.
Le prime cose della vita vennero a bussarmi al cervello. Toc toc. Gli inizi. Ci pensavo spesso. È nelle prime cose della vita che c’è uno slancio genuino, la verità, se così si può chiamarla. Dopo no, dopo arriva il dopo e di verità non ce n’è più. Tutto il mio passato mi sembrava esaltante, un grande affresco di prime cose. Luminose promesse di futuro. E il presente invece no. Solo un elenco di facce esangui, persone che non volevo: il già visto e il già vissuto. Un grande grumo di cose del dopo.
Nonostante l’alcol, salii le scale di corsa, come sempre. In tanti anni Suni non riuscì mai a capire perché lo facessi.
«Ma perché corri?» mi diceva.
«Così finiscono prima.»
Non mi hai capito, Suni. Ma anche io non ti ho capita, perché tu sei una grande donna, e io non sono un cazzo. Se avessi sposato Galvano sarei stato contento. Galvano è meglio di me.
Dov’era la mia stanza da letto? Dove me l’avevano nascosta? E poi questo castello. Grande, troppo. I corridoi che scappavano in avanti, i soffitti che levitavano in cielo per farmi dispetto, le pareti che mi giravano attorno.
Una nebbia gialla mi offuscava la vista. Massaggiai le palpebre. La nebbia, gialla come la polvere delle mie solfatare.
Una volta ho scopato Rita Hayworth.
Durante lunghe telefonate mi ero finto per mesi un produttore cinematografico. «Ho un film per te», le dicevo. Tutte bugie, ma lei ci credeva. Era troppo bella per non tentare. Un giorno andai negli Stati Uniti per conoscerla. Agli Studios. Era la fine del ’47, lei stava già divorziando da Orson Welles, voleva carne, del film nemmeno mi chiese nulla. Mi portò in giro per i locali di Los Angeles. Poi la scopai su un letto rotondo rivestito di seta rossa. Ed era bella, sotto di me, coi seni grandi che scivolavano di lato, il fiato che sapeva di gin. Quando la mattina si svegliò…
Tastavo le pareti di pietra, mi ci puntellavo, ormai cieco per l’ubriacatura. Poi mi mancò l’appoggio e caddi in una stanza che sapeva di muffa. Trovai un divano, a tentoni. Mi ci sdraiai. Frugai le tasche e finalmente individuai la fiala e la siringa.
Feci tutto anche al buio. Nessun problema, signore e signori. Un paio di colpi d’unghia alla siringa, le dita che schiaffeggiano la coscia.
E vado. Nelle braccia di Morfina.
La verità. La verità è che se mio padre non fosse morto di malaria, se non avesse liberato la casella, sarei rimasto per sempre un bastardo. Un bastardo.
Mi svegliai di soprassalto. La luce debole che filtrava tra gli scuri poteva essere quella del tramonto o dell’alba, indifferentemente. Sfilai dalla vena indurita l’ago, che si portò appresso un filamento di sangue.
Il telefono, da qualche parte, negli abissi del castello. O del cervello?
Mi tolsi tutti i vestiti. Barcollai nudo fuori dalla stanza. La nebbia gialla era sparita. Scesi la scalinata centrale, fino all’ingresso, fino al leone rampante sul pavimento, una bestia rosa dal tempo e dalla muffa. L’atrio era completamente sgombro, il telefono era lì a terra sulle tessere di maiolica, solo. Dall’apparecchio si dipartiva un filo interminabile che spariva nel salone, sulla destra.
Risposi.
«Vaimondo, gvan pezzo di mevda!»
La voce di Gianni mi mise subito di buonumore. «Oh, l’industriale!»
«Ti distuvbo?»
«Niente affatto. Ero qui sfaccendato. Mi sono preso qualche giorno di riposo al castello.»
«Anch’io sto viposandomi, sono a Beaulieu.»
«Ti tratti male. Suni come se la passa?»
«Mi tvatto sempve meglio di te. Suni sta bene, è a Covtina. Olga e Ventuvella come stanno?»
«Olga è in touvnée con la compagnia», dissi imitandolo. Poi tornai serio, quasi triste. Con chi mi conosceva davvero non riuscivo più a scherzare come un tempo. «Venturella è con la bambinaia.»
Gianni capì che c’era qualcosa fuori posto. «Cos’hai, Vaimondo? Questioni di soldi? Se avete bisogno di un pvestito pev le solfatave, un assegno a te e Galvano lo posso sempve staccave, sai che non è un pvoblema, l’ho già fatto in passato.»
«Non è quello.» Galvano. Già, Galvano. E Guarrasi. Vito, quel contasoldi del cazzo. «Galvano fa discorsi strani. Dice che dobbiamo rilanciare le solfatare della Tallarita, dice che ne ha parlato con l’avvocato Guarrasi, ma a me lo zolfo non interessa più. Il futuro è altrove.»
«Che pvogetti hai?»
Mal di testa. Nemmeno la Morfina bastava a placarlo. Accesi una sigaretta, la buttai dopo tre tiri.
«Un mucchio di idee, Gianni, un mucchio di idee. Nessuna buona e tutte geniali. Ho pensato di far conciare la pelle dei tonni. Almeno troverei uno scopo alle mie tonnare. Ma non mi basta. Ho sentito Reza Pahlevi. Io so che in Sicilia c’è il petrolio, me lo sento, bisogna solo trovarlo. Lui non si fida, non vuole metterci i soldi… come se non ne avesse, quello stronzo di Scià», spiegai con voce arrochita.
«Hai pvovato a chiedeve a qualcun altvo?»
«Ho chiesto a Onassis.»
«E che dice Avistotele?»
Accesi un’altra sigaretta. «Ci sta pensando, sai com’è fatto lui: pensa molto. Piuttosto… potresti darmeli tu i soldi per le trivelle e la raffineria!»
«Vaimondo cavo, le chiavi della cassafovte non le ho io. Siamo ancova schiavi del Pvofessove.»
«Quando ti liberi di Valletta?»
«Fosse pev me, mai. Mi piace la vita che faccio, se di cevte cose si occupa lui mi va anche bene. Diciamo che pev adesso pvendo tempo. Ma il momento avvivevà a bveve, tva poco avvò quavant’anni. Ci sono cose che a un cevto punto bisogna fave.»
Parlai senza accorgermene: «Sì, è arrivato il momento di cambiare. Giocare non basta più».
Gianni stette in silenzio per una decina di secondi. Quando riprese a parlare la sua voce si era fatta dura: «Vaimondo, ti ho chiamato pev un motivo pveciso».
«Dimmi, Gianni.»
«Ho bisogno di un favove.»
«Ci conosciamo da una vita, per te tutto.»
«Vedi, in famiglia ci siamo convinti di avev subito un tovto, un tovto gvave…»