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Stomias Boa Ferox #1

Roma, gennaio 1953

LA Cecoslovacca mi trasmette un senso di inquietudine. Come tutte le donne belle che parlano poco e bene.

Si sporge dalla balaustra del mio terrazzo sui Parioli, osserva via Mangili, quieta e immobile nel freddo dolce della città eterna. Vedo i suoi occhi scappare verso il Pincio e Villa Borghese, un cumulo di vegetazione e mirabili opere dell’uomo. Fuma dal bocchino e accarezza macchinalmente la stola: un gesto d’attrice.

E poi vi è anche un’altra sua peculiarità che mi stranisce – e non dovrei stranirmi, perché per certi rispetti posso dire d’aver visto i molti colori dell’umanità – ma, sì, mi stranisco: la Cecoslovacca veste sempre abiti maschili, ai quali ogni tanto aggiunge la stola.

«Non ha freddo a starsene fuori?» commenta Jacob Magura, squadrandola oltre la vetrata.

«Che faccia come meglio l’aggrada», rispondo.

«Ben detto, Eugenio. Sei sempre aperto alla comprensione. Si vede che sei stato un diplomatico.»

«E tu, allora? Non sei un diplomatico anche tu?»

Jacob Magura sorride di un sorriso assassino. «Io non sono così comprensivo nelle cose della mia vita. E poi non sono mai stato ambasciatore.»

Ridacchia come un bambino, scopertamente e senza compromessi d’etichetta. Spazza prima le ghette immacolate che gli coprono le scarpe di vernicetta, e poi i sottilissimi baffi. Torna a guardarmi.

«Eugenio, per il viaggio di febbraio è tutto pronto.»

«Voglio sperarlo», lo freddo con un tono secco.

«Sbagli ad arrabbiarti. L’ultimo carico è stato un caso.»

«Un caso? Hanno intercettato sette tonnellate di cobalto e tu lo chiami caso?!»

«Sai meglio di me che i nostri fanno sempre in modo che nessuno controlli niente. L’ultima volta ci si è messo di mezzo un doganiere appena trasferito. Hanno pesato i convogli e si sono accorti che il peso era superiore alla tara.»

«E poi hanno scoperto il doppiofondo.»

«Era inevitabile.»

«Non si deve più ripetere.»

Magura per scherzo porta la mano sulla fronte, di taglio. «Tranquillo, capitano.» Poi si fa truce: «Eugenio, io rischio molto più di te».

«Permettimi di dubitarne.»

«Cosa puoi perdere tu? Una poltrona nel partito? L’onorabilità? Io quello che posso perdere lo porto sopra al collo», ribatte Magura tracciando con l’indice una linea orizzontale lungo la gola.

Lo invito a sedersi in poltrona, nel mezzo del mio salotto che esplode di libri e quadri. Dietro le sue spalle, in una cornice d’ottone, è imprigionato un disegno a carboncino, un vecchio regalo di Pablo.

«Come hai organizzato l’operazione?»

«Al solito. I nostri amici di Milano hanno preparato le bolle. Il materiale arriva in Stazione Centrale, lo facciamo deviare in Svizzera, e passa a Chiasso, dove siamo garantiti dal nostro amico Adolfo D’Aujourdhui. Poi dritto ad Anversa via Bettembourg. Al porto c’è la Piast ad aspettarlo: i ragazzi caricano e prendono il largo.»

«Navigheranno in acque internazionali?»

«In un braccio di mare così stretto, andarsi a infilare apposta nelle acque internazionali equivale a un’ammissione di colpevolezza.»

«E quindi?»

«Acque belghe, olandesi, poi ci tuffiamo nel Baltico: acque danesi e polacche. Sbarchiamo a Gdynia. Tutto sereno.»

«Le quantità?»

«Restano quelle che avevamo detto. Quindici fusti di leghe, diciassette di ferro molibdeno: cinque tonnellate e mezzo.»

«E il nickel?»

«C’è anche quello. Settantasei sacchi e sette fusti, totale 5304 chili.»

«Mi auguro che questa volta non ci saranno intoppi di sorta.»

«E se anche ci fossero?»

È la Cecoslovacca che ha parlato. Rientra dal balcone con un passo morbido, quasi strascicato, il bacino che punta in avanti, come una promessa di lussuria. Il bocchino d’ebano culmina in una sigaretta fumata per tre quarti. Serpi di fumo le scivolano fuori dal naso e scappano verso il soffitto. Sembra che abbia seguito tutta la discussione per filo e per segno, tanto appare determinata davanti a noi che la ammiriamo ancheggiare tra i divani foderati di raso.

«Se anche ci fossero problemi?» ripete. «Vorresti interrompere tutto?»

«Non ho detto questo», insorgo, ma solo a parole; nessuna emozione mi esce dal viso.

«Non è forse il nostro carbone ciò che gli italiani vogliono?»

Touché, in fondo ha ragione lei.

La Cecoslovacca è abbacinante. La bocca le si schiude su una chiostra di denti luminosi, e, dietro d’essa, un’angusta spelonca in cui ciascuno di noi vorrebbe inchiavardare la propria anima. Eppure continuo a pensare che Zorana sia più bella.

Vorrei che fossi qui, Zorana. Vorrei la meraviglia della tua pelle, delle tue labbra…

«La pianificazione dei prossimi mesi è già stilata. In Cecoslovacchia aspettiamo 3 tonnellate di ferro molibdeno, 5 di ferroleghe, 11 di nickel, 7 di cobalto, cadmio e tungsteno, 21 di germanium. In Polonia, 13 di nickel e 5 di cadmio.»

«Ricordo bene le cifre», rispondo col mio solito sorriso gioviale.

La Cecoslovacca ride. «Abbiamo creato il vero Libero Mercato, Eugenio. Non sei contento? Contro l’arroganza di quei beccamorti degli americani. Ciò che era della NATO lo facciamo diventare nostro e lo usiamo per la grandezza delle nostre nazioni.»

«Siamo noi quelli che fregano gli agenti del capitalismo internazionale», chiosa Jacob Magura, gli occhi accesi di un divertimento febbrile.

L'insolita morte di Erio Codecà
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