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«SÌ, anch’io ho letto quel documento, oggi pomeriggio», disse l’avvocato Dalmasso.

Caterina si grattò vigorosamente la testa. «Scusatemi un attimo. Voi mi state dicendo che solo pochi giorni dopo l’arresto la Procura di Torino sapeva benissimo che Faletto era innocente?»

Donna Leonora annuì. «Così pare, Caterina.»

«E allora tutto il processo?»

«Avevano un sospettato e c’era una confessione registrata, furono obbligati al rinvio a giudizio.»

«Dal documento emerge chiaramente anche un altro fondamentale elemento», ragionò Dalmasso. «I magistrati non si fidavano dei carabinieri.»

Fìlice batté le mani esagitato, sembrava quasi si sentisse tradito. «E lo si può ben capire, cribbio! Se davvero le cose stanno come dite, i carabinieri non avrebbero seguito la procedura regolamentare!»

Il dottor Villa accese uno dei suoi mastodontici sigari cubani. «Diciamo piuttosto che avrebbero ideato una vera e propria messinscena, contattando dei delatori di professione, organizzando delle cene per ubriacare Faletto e farlo confessare, e proponendogli dei soldi per uccidere Valletta.»

«E poi resta da capire cosa ci facessero due carabinieri che formalmente prestavano servizio lontano da Torino a indagare, proprio a Torino, sul caso Codecà», disse Leonora.

Anche Fìlice era d’accordo: «Giustissimo, Leonora! Cuoca preziosa e donna di fine ingegno! Che ci facevano a Torino, che non era zona di loro competenza?!»

«Ma voi siete così sicuri che Noto e Scursatone fossero carabinieri?»

La voce di Cannavacciuolo attrasse l’orecchio di tutti.

«Che intendi dire, Liborio?»

«Vi chiedo se siete sicuri che fossero carabinieri normali

«Perché? Ci sono anche dei carabinieri anormali?!» domandò Fìlice in uno sghignazzo che si disperse senza effetti tra i volti contratti degli astanti, al pari di un venticello tra querce secolari.

«Il professore vuole dire che questi due carabinieri non erano ciò che sembravano.»

L’intero gruppo si volse verso Andrea. Era immobile sulla poltrona, sigillato nella sua altezzosità, le labbra di pietra. Il disinteresse dipinto sul viso faceva dubitare che fosse stato proprio lui a parlare. Caterina, che non lo poteva sopportare, immaginò che fossero stati gli scaffali dei libri di donna Leonora a proferir verbo.

«Nel ’44 Scursatone aveva indagato su un caso di spionaggio internazionale, l’omicidio di un maggiore dell’OSS, un certo Holohan», continuò Cannavacciuolo.

«E questo che c’entra con Codecà?»

«Con Codecà niente, in effetti. Però ci dimostra che Scursatone doveva aver avuto un ruolo rilevante nelle indagini se fu chiamato a testimoniare davanti alla commissione d’inchiesta a Washington.»

Fìlice incurvò la bocca, come a dire: Embè?! «Liborio caro, continuo a non capire.»

«Liborio vuole significare che se Scursatone era stato coinvolto in un’indagine così delicata probabilmente non era un semplice carabiniere, ma un uomo dei Servizi», lo soccorse Dalmasso, però senza guardarlo. Non staccava gli occhi di dosso a Cannavacciuolo, come se osservarlo gli permettesse di penetrarne i pensieri.

«Un uomo dei Servizi, o perlomeno vicino ai Servizi», puntualizzò il professore.

«Quindi Noto e Scursatone furono mandati apposta a Torino? E perché i Servizi avrebbero dovuto interessarsi a Faletto?»

Le parole di Fìlice rimasero sospese per aria; ciascuno ragionava per conto suo.

«Io di domanda ne ho un’altra», fece donna Leonora. «Cosa ci faceva Argenti nell’ufficio del procuratore?»

«Ma certo! Correttissimo! Bravissima, Leonora!» esultò Fìlice simile a un tifoso di calcio. «Mettendo da parte per un attimo la questione dei Servizi, che ci faceva un personaggio equivoco come Filippo Argenti nell’ufficio del procuratore di Torino?»

Dalmasso annuì. «Questo è senz’altro un quesito degno di nota. Il procuratore gli chiese di diffondere il dossier su Giuseppe Mercuri…»

«Ma Mercuri non era quel poveraccio che non c’entrava un caz… che non c’entrava niente?» si corresse Caterina. «Come pure era innocente quel Magnani, il muratore che lavorava in Francia.»

L’avvocato volse irritato gli occhi al cielo. «Certo, Caterina. Per il procuratore, Mercuri era solo un diversivo per contrastare mediaticamente le tesi dei carabinieri. Così va il mondo, o meglio così andava negli anni Cinquanta del XX secolo, direbbe qualcuno.»

«Belli disinvolti, i magistrati di allora: si mettevano a manipolare la stampa! Alla faccia della libera informazione e dell’opinione pubblica», commentò divertita la ragazza.

Cannavacciuolo le sorrise: «E ti stupisci, ragazza mia? Ognuno fa il suo gioco, sempre».

«Insomma, si era aperto un conflitto tra Procura e Arma, o i Servizi, o chi per essi», fece Leonora, riprendendo le redini della discussione. «Il procuratore voleva temporeggiare per vederci chiaro, pensò di servirsi del dossier di Argenti e Argenti si prestò, sicuramente in accordo con Costante Gandini.»

«E magari, visto che Gandini non era proprio un boyscout, il procuratore promise di chiudere un occhio e pure quell’altro su qualche vecchia storia», insinuò malizioso Cannavacciuolo.

Dalmasso picchiettò l’indice tra le dita, come se dovesse far aderire un guanto alla mano. Sospirava ritmicamente dando il tempo di vogata ai pensieri. «Ci sono alcuni dettagli che non collimano. L’incontro tra Argenti e il procuratore avvenne nell’agosto del ’55, ma Argenti aveva cominciato a divulgare il dossier ai giornali ben prima.»

«Probabilmente il procuratore voleva assicurarsi che non smettesse proprio allora», notò il professore. «Anzi, voleva che intensificasse l’opera di diffusione.»

Fìlice domandò: «Ma perché andare a spifferare ai quattro venti i risultati delle indagini?»

«Per soldi», sentenziò Caterina, guardandolo come fosse un ingenuo.

«Ma erano già pagati dalla FIAT!»

«Mai sentito parlare di doppio lavoro?» disse Andrea.

Il professor Cannavacciuolo batté una mano sulla spalla del magistrato: «Sai com’è, Fìlice… i soldi ingombrano poco e pesano pochissimo».

«Marcello, mi avevi detto che Argenti e Gandini avevano passato il dossier su Mercuri prevalentemente alle redazioni di giornali destrorsi. Perché, secondo te?» chiese il dottor Villa a Dalmasso.

Fu però Leonora a rispondere: «Costante Gandini era stato fascista. È probabile che dovendo vendere lo scoop si fosse rivolto prima ai vecchi… camerati», disse quasi con ribrezzo.

Dalmasso nel frattempo aveva acceso una Davidoff e camminava compostamente per il salotto. Un passo dopo l’altro, la stoffa dell’elegante spezzato sembrava non piegarsi mai, come avesse ricevuto l’ordine di rimanere impeccabile.

Fìlice sfiorò la sua cravatta tempestata di teste di cavallo. Lui e il suo amico Marcello avrebbero potuto insegnare stile a chiunque in quella stanza, pensò.

«Alcuni degli articoli erano esattamente il riassunto del dossier di Argenti, ma ce n’era uno che era diverso: quello del Tempo», fece l’avvocato.

«Ah, certo», esclamò Villa, «me ne avevi accennato: quello in cui si parlava dello spionaggio industriale e dei due cecoslovacchi.»

Leonora: «Due cecoslovacchi che avrebbero ucciso Codecà perché voleva ritirarsi da certi affari coi Paesi dell’Est».

«Un testimone disse di averli incontrati in Galleria a Milano pochi giorni prima dell’omicidio, e lì gli avrebbero comunicato che erano diretti a Torino per eliminare Codecà», disse Dalmasso.

«Ma a me sembra proprio una gran stronzata!» sbottò Caterina facendo contemporaneamente sbiancare donna Leonora e l’avvocato. «Ma vi pare logico che due killer professionisti incontrano un tizio per caso, lo scambiano per un amico e gli dicono: ‘Oh, noi stiamo andando ad ammazzare uno!’ Ditemi se non è una stronzata questa!»

«La ragazza non ha tutti i torti», osservò Cannavacciuolo trattenendo a malapena le risate. Caterina gli era sempre stata simpatica.

Dalmasso rispose piccato, la bocca chiusa attorno alla Davidoff che si consumava nervosamente. «Non crederete che non ci avessi già pensato, spero. È chiaro che la notizia suona per molti aspetti fasulla, ma l’elemento nuovo è che si fece per la prima volta chiaro riferimento a un affare di spionaggio industriale nel quale Codecà poteva essere coinvolto.»

Fìlice aveva seguito tutta la conversazione come una partita di ping-pong, facendo ciondolare la testa ora di qua e ora di là. «Ma quali sarebbero questi traffici di spionaggio industriale?»

Prima che chiunque altro potesse parlare, donna Leonora si alzò in piedi. «Traffico di materiale strategico coi Paesi comunisti.»

Camminò fino alla teca del bar e riempì un bicchiere di rhum agricole per il dottor Villa, che stava ancora fumando il sigaro. Gli sguardi di tutti la seguirono.

«Siniòra Leonora, come fa a essere siccùra?» le chiese Vesna.

«Tesoro mio, ce lo disse Marcello l’altro giorno: girava voce che Edgardo Sogno avesse scoperto un giro di traffici tra la FIAT e l’Est Europa», rispose la nobildonna mentre consegnava il bicchiere al medico.

L’avvocato Dalmasso ripensò al suo amico generale dei carabinieri. Se ne figurò il viso di maiolica, i muscoli immobili, gli occhi fermi come due ragni sul muro.

«È verosimile», convenne dopo qualche istante di silenzio.

Fìlice era sempre più confuso, in parte dalle parole degli amici, in parte dal décolleté di Vesna a cui rimaneva avvinghiato con lo sguardo.

«E Codecà come mi entrerebbe in tutto questo pasticcio?»

«Codecà era un esperto di Paesi dell’Est», attaccò Leonora. «Era stato per anni in Romania, era un abile contrattatore, sapeva il fatto suo. Per di più frequentava spesso la Svizzera.»

«La Mecca degli snodi del contrabbando», commentò Villa.

Andrea: «Mi sono perso un pezzo. Perché i Paesi dell’Est dovevano ricorrere al contrabbando?»

Comprensiva come al solito, Leonora gli rispose: «Andrea, tu sei giovane e non lo puoi sapere, ma negli anni Cinquanta c’era un embargo verso l’Unione Sovietica per certe merci».

«Che tipo di merci?»

«Metalli, oppure tecnologia avanzata, o materiale militare», chiarì Dalmasso inserendosi tra i due.

«In pratica chi stava fuori dalla NATO certe cose non le poteva avere. Capito, Andre’?» disse il professor Cannavacciuolo, poi sembrò ricordarsi di qualcosa: «Tra i materiali proibiti c’era anche il rayon, quello che si usa per i collant femminili».

«Collant femminili…» ripeté assorto Fìlice, come se si trattasse di un importante indizio.

Cannavacciuolo continuò ridacchiando: «Al riguardo ricordo anche un aneddoto divertente. Il figlio di Luigi Longo studiava in URSS e ogni volta che lasciava l’Italia si portava dietro una valigia di calze».

«Per farci cosa?» domandò Caterina.

«Diciamo che quelle calze erano molto apprezzate dalle signorine sovietiche, che per via dell’embargo non le potevano avere…»

«Pensavo che quella delle calze fosse una leggenda», rise divertito Fìlice, mentre Vesna lo fulminava con lo sguardo.

«Eh, mica tanto. A ogni modo il giovane Longo fu scoperto alla frontiera e denunciato per contrabbando internazionale… contrabbando di pericolosissime calze strategiche! I Servizi segreti lo ricattarono: ‘Se non fai la spia per noi finisci sotto processo’. Ma il ragazzo non si fece impressionare e disse tutto al padre, che fece un terremoto minacciando uno scandalo; l’ufficiale che aveva preparato la trappola per il giovane Longo ricevette una solenne lavata di testa e tutto finì lì.»

Donna Leonora Lopez de’ Fonseca redarguì l’amico con bonaria indignazione: «Liborio, possibile che devi sempre concentrarti su queste stupidaggini?!» Poi proseguì nel suo ragionamento: «Probabilmente Codecà cadde nella rete degli agenti sovietici per causa della moglie. Elena Piaseski aveva la madre e la sorella ancora in Romania e sperava di portarle in Italia. In cambio di un aiuto per l’estradizione, Codecà si mise al servizio dei sovietici per questi traffici di contrabbando».

Cannavacciuolo abbandonò il divano, come l’avvocato Dalmasso aveva fatto poco prima. Fece segno a Vesna di rimanere seduta, il bastone sarebbe stato sufficiente. Arrancò fino alla parete a vetro e guardò il lago nero, macchiato dalle luci degli abitati sulla sponda opposta.

«Leonora, quello che hai detto è la stessa cosa che ci siamo detti io e Dalmasso, oggi a pranzo. Ma poi ci ho ripensato per un’osservazione di Andrea», disse.

«E quindi?»

«Codecà era un uomo abituato a un certo tipo di affari ben prima degli anni Cinquanta. Lo ricordavi tu poco fa: in Romania era molto conosciuto e conosceva tutti, in Germania trattava coi ministri, durante la Repubblica di Salò teneva i rapporti con la Wehrmacht. Spostandosi dalla Romania alla Germania, poi all’Italia ha sempre mantenuto i contatti con quella donna… Come si chiamava?… Ecco, sì, Angela Negri… l’istitutrice svizzera… che probabilmente più che istitutrice era una spia. Un uomo come Codecà in questi impicci non ci si caccia per le bizze nostalgiche di una moglie. Ed è significativo che il contatto con quelli dell’Est avvenisse tramite agenti romeni. La Romania era un Paese che Codecà conosceva bene da molto prima.»

Fìlice era sempre più stanco e assonnato, il discorso del professore l’aveva seguito solo a sprazzi, distratto com’era dai capezzoli ipnotici di Vesna che bucavano il cotone della camicetta e gli balzavano in bocca, mentre la voce dolce della bella russa gli diceva: «Tira, tira, piccolo mio».

«Ma soprattutto», insistette Cannavacciuolo, senza rispetto per i miraggi del magistrato, «se Codecà ebbe qualche ruolo in affari del genere, non lo ebbe in maniera autonoma. Non sono cose che si fanno da soli, come una passeggiata al parco.»

«Sarebbe a dire?» lo incalzò il dottor Villa.

«È la testa che muove il braccio. Possiamo ipotizzare che se Codecà eseguiva era perché qualcuno ordinava. Valletta, per esempio.»

Il nome del Professore rimbalzò tra le pareti, respinto dalle coste dei libri, e fischiò tra i convitati come un proiettile impazzito.

«Valletta», ripeté pensosa Leonora.

«Il ragionamento potrebbe avere un suo fondamento», considerò infine l’avvocato Dalmasso. «Lo voglio portare a estreme conseguenze, come già avevo provato a fare oggi a pranzo proprio con Liborio.» Rivolto a Cannavacciuolo: «Liborio, diciamo pure che c’è una grande azienda e, dall’altra parte, ci sono dei Paesi interessati ad avere scambi commerciali con questa azienda. Ora, tra il Paese di quest’azienda e i Paesi che vogliono commerciare non scorre buon sangue: fanno parte di schieramenti diversi. Supponiamo però che nel Paese di questa grande azienda esista un partito politico che per motivi ideologici ha contatti e agganci in quei Paesi interessati al commercio. A livello puramente ipotetico, non potrebbe, questo partito politico, svolgere una funzione di… chiamiamola mediazione?»

«Il PCI! I comunisti! I comunisti!» berciò Fìlice, saltando in piedi.

Cannavacciuolo sentì addosso lo sguardo amichevole e crudele di Dalmasso; immaginò il suo sorrisetto smaltato di sarcasmo. Un getto di luce gelida si sprigionava dagli occhi dell’avvocato e lo colpiva in pieno viso. Mentre gli amici ponderavano la sottile osservazione di Dalmasso, Vesna giunse per aiutare Cannavacciuolo a tornare al divano.

Chiuso in se stesso, abbarbicato a Vesna da un lato, aggrappato al bastone dall’altro, i pensieri in mondi e tempi lontani, il professore disse sottovoce: «Eugenio Reale. Non pensavo che ti avrei incontrato di nuovo».

«Cosa hai detto, siniòr Liborio? Devi parlarlo più forte.»

Cannavacciuolo cinse gli astanti con lo sguardo. Vesna era stata l’unica ad averlo sentito.

La cena era finita. Fìlice aveva approfittato di un passaggio di Dalmasso, erano andati via anche Villa e Andrea; Caterina si era ritirata in stanza a dormire. Liborio e Vesna, invece, erano rimasti un attimo per due chiacchiere finali con Leonora.

«E così teneva ragione Andrea, o guaglion’! Aveva capito quello che non avevamo capito noi», disse Cannavacciuolo, che aveva, pur a fatica, ripreso il piglio allegro di sempre.

Leonora assentì. «È un ragazzo davvero intelligente.»

«No: è ’nu figli’e ’ndrocchia!»

«Signor professore, pe’ tte tutt’e guagliune so’ figli’e ’ndrocchia!»

«Noooo, chill’è speciale. Prendi stasera come ha combinato chillu pover’omme ’e Fìlice. Lo ha tirato al laccio e quello ci è caduto con tutte due ’e piedi.»

«Ma no, Andrea non ha fatto a posta, è puro come bambini», disse Vesna.

«Ve’, il tuo bambino è ’na vipera ca ce mette tutti quante dint’ ’a sacca e poi dice che ci siamo entrati noi a sua insaputa!»

L'insolita morte di Erio Codecà
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