11
IL buio della notte aveva ormai completamente fagocitato il lago, al di là della finestra. In quel momento la villa avrebbe potuto essere ovunque, immersa nelle profondità dell’universo, alla deriva tra le galassie. In un globo cereo di luce i cinque amici, più Vesna, sembravano un gruppo di svogliati carbonari. Dopo le diatribe sulla politica, la discussione era naturalmente scivolata verso pallide amenità, per riprendere fiato.
L’avvocato Dalmasso osservava in silenzio Leonora, superba e informale come al solito, una delle poche donne a cui si fosse mai sinceramente affezionato in vita sua.
Leonora. Una vita di avventure in giro per il mondo dietro a Saverio Gentileschi Mignanelli, il più famoso archeologo italiano del Novecento. Solo suo marito, per lei. Sempre in viaggio, sempre alla ricerca di nuovi tesori archeologici, nuovi scavi, nuove civiltà, in una gara contro la Storia, un’estenuante competizione con se stessi, che aveva portato Saverio e Leonora a dimenticarsi di tutta l’altra parte della vita, quella che si deve fare da fermi. Non avevano avuto figli, non ne avevano avuto il tempo.
Solo la malattia aveva fermato Saverio. Era cominciata con dei mal di testa. Prima si era preso qualche mese di riposo nella bella villa sul lago, comprata apposta, poi, appena i sintomi si erano alleviati, ancora un viaggio, l’ultimo. Partì per il Brasile senza Leonora. Morì il 13 settembre 1984 tra persone che parlavano un portoghese strano, sotto una tenda incerata battuta dalla pioggia, dalle parti del lago Manacapuru, vicino a Manaus.
Leonora era rimasta sola con una villa e una promessa. Far conoscere al mondo le scoperte di suo marito, che per lei erano anche i pezzi di un amore. La villa, oltre che una casa, era diventata un museo, era nata la Fondazione Gentileschi Mignanelli, e Leonora se n’era occupata a tempo pieno. Poi però era arrivato un uomo sbagliato, un amministratore che aveva fatto sparire i soldi di Leonora e della fondazione. In quel momento, nella storia era entrato Dalmasso: Leonora l’aveva assunto come legale. Il processo però non aveva concluso nulla e l’amministratore si godeva il denaro di Leonora e di suo marito a Santo Domingo. In spregio a Dalmasso e alla sua feroce professionalità.
Obbligata a quella promessa e a quella villa, Leonora passava le giornate a cercare finanziamenti e sponsorizzazioni per un museo che, in tutta onestà, non interessava a nessuno, eccezion fatta per qualche scolaresca della provincia. Una donna colta, che aveva girato tanto il mondo da poter quasi dire di averci capito qualcosa, ora altro non era che una creatura ibrida, a metà tra una segretaria e una bigliettaia.
L’avvocato accese una delle sue Davidoff e sorrise con affetto a Leonora, che, intenta in un discorso, si interruppe e ricambiò con un cenno interlocutorio. «Cosa?»
«Niente», disse sereno Dalmasso.
La donna si scosse, batté le mani. «Basta divagare!»
«Giusto», la tallonò il professor Cannavacciuolo. «Di che parliamo adesso?»
«Forse sarebbe il caso di approfondire un po’ la figura di questo ingegner Codecà.»
L’avvocato Dalmasso parve illuminarsi. Si sporse verso Cannavacciuolo. «A proposito… Liborio, non è che ti saresti ricordato di…»
«Sì», lo anticipò il professore. «Il necrologio te l’ho fotocopiato, anche se trovo la cosa un po’ macabra.»
Dalmasso allargò le braccia. «Forse hai ragione, ma da quello che i vivi scrivono dei morti si può capire molto.»
«Dei morti nihilli nisus bonus», sentenziò Fìlice. Amava guarnire le sue esternazioni con erudite citazioni latine, le cui desinenze erano sempre piuttosto allegre.
Cannavacciuolo, reprimendo i suoi istinti omicidi, sorvolò sulla bestialità appena declamata dal magistrato. «Bah, insomma…» mormorò per niente convinto all’indirizzo di Dalmasso, mentre la mano furtivamente sfregava il basamento in ferro del divano.
Passò il foglio all’avvocato, che prese subito a leggere l’annuncio funebre. Le parole gli si muovevano mute sulle labbra.
Con infinita angoscia la famiglia
dell’ing. ERIO CODECÀ di Ferrara
ne annuncia la improvvisa tragica morte.
Lo piangono, inconsolabili, la moglie Elena
con la bimba Maria Gabriella;
la mamma Elvira Romanini ved. Codecà;
le sorelle Elena e Fiorina;
i fratelli Cesare e Giovanni con la famiglia; i cognati…
«Codecà di Ferrara…» sussurrò impercettibilmente Dalmasso. Poi esclamò: «Codecà era nobile!»
Il dottor Villa gli si avvicinò e lesse anche lui quelle poche righe. «In effetti l’indicazione della città di appartenenza è cosa da nobili.»
«Aspettate un attimo», disse Leonora.
Si alzò e ispezionò una parete della sua libreria. Scorreva l’indice sulle coste dei volumi. Ne estrasse uno che pareva piuttosto vecchio.
Subito un orgasmo da bibliofilo accese il volto di Cannavacciuolo. Studiò il libro a distanza: «Tardi anni Venti?»
«1928, per la precisione.»
Leonora dispose il volume sul tavolino di cristallo e lo aprì. I presenti le si fecero addosso come ferraglia su una calamita.
«Cos’è?» chiese Fìlice.
«Uno dei pezzi più pregiati della mia collezione di araldica. L’Enciclopedia storico-nobiliare italiana del marchese Vittorio Spreti. Dietro la copertina c’è la firma dell’autore.» La donna sfogliò le pagine ancora in ottimo stato, poi finalmente esclamò: «Eccolo!»
Le teste dei cinque amici pencolavano sopra al tomo, chi si sporgeva di qua, chi spingeva di là pur di riuscire a vedere bene. Vesna restava in disparte e guardava divertita.
«Quindi è quella l’insegna dei Codecà. ‘D’azzurro alla torre d’argento accompagnata da tre stelle d’oro di sei raggi ordinate nel capo’», lesse Villa osservando lo stemma dei Codecà, appunto un grande torrione grigio su campo azzurro con tre stelle a sei punte disposte orizzontalmente nella fascia superiore.
Fìlice aveva incurvato la bocca e non condivideva per niente il trasporto degli amici. «E allora? Che ci interessa a noi di sapere che Codecà era nobile, o che un suo lontano parente…» allungò il collo per scorgere i piccoli caratteri «…aveva dato alle stampe il Panegirico di San Camillo de Lellis nel 1765?»
«Ci spiega che Codecà veniva da un certo tipo di ambiente», disse Cannavacciuolo tornando a sedersi. «E ci spiega come mai Codecà poté andare a studiare all’Università di Grenoble, nella Francia repubblicana, laurearsi nel 1926, e poi tornare tranquillamente nell’Italia fascista senza avere noie dal regime.»
Anche gli altri ritornarono ai propri posti.
«Sì, è vero, Liborio. Tanto più che poi riuscì a trovare impiego alla FIAT, una delle aziende più importanti del Paese, che col regime fascista aveva per forza di cose rapporti di collaborazione», concordò Dalmasso.
Il dottor Villa stava annuendo. Il suo sigaro era ormai a metà della corsa. «E poi ebbe anche ruoli direttivi di tutto rispetto. Fu mandato alla filiale di Bucarest per farsi le ossa…»
«La FIAT in Romania?!» biascicò incredulo Fìlice.
Dalmasso, stizzito: «Ma certo, Francesco, via! La FIAT era una delle industrie automobilistiche più importanti d’Europa! Aveva sedi dappertutto, la Polski FIAT era leader sul mercato polacco, per esempio».
Leonora bevve un piccolo sorso del suo cognac, che era rimasto dimenticato sul tavolino nell’ultima mezz’ora. «In Romania Codecà aveva anche trovato moglie, Elena Piaseski… anzi, Elena è un’italianizzazione, in realtà si chiamava Helcia.»
«Era già sposata quando si conobbero», osservò malizioso Cannavacciuolo. «Lasciò il marito, un medico, e pare proprio che quello non avesse preso bene il tradimento della moglie. Secondo alcuni pettegolezzi, negli anni Trenta aveva inseguito l’ingegnere, che doveva prendere un treno, sino nella stazione di Bucarest con una rivoltella, ma poi era riuscito a trattenersi.»
«Potrebbe essere stato un delitto passionale allora», abbozzò Fìlice lanciando occhiate allusive all’uditorio.
«Sì, con vent’anni di ritardo…»
Leonora si fece pensierosa, ma si poteva intuire che non era per le parole del magistrato. «Insomma, Codecà soffiò la donna a un altro uomo. Senza dubbio, al di là delle apparenze, non era lo stereotipo dell’ingegnere grigio e noioso.»
«A ogni modo all’epoca la polizia evitò di divulgare quella vecchia storia. Dovettero pensare che non avesse alcuna attinenza con le indagini», osservò Dalmasso.
Un ghigno perfido si impadronì del viso di Cannavacciuolo. «Sempre di grande tatto, la magistratura inquirente di questo Paese.»
«Grandi professionisti, nulla da dire. Sui colleghi davvero nulla da dire», dichiarò Fìlice tronfio, senza cogliere l’ironia del professore.
«Scusa, siniòr Liborio.»
Tutti si volsero verso Vesna.
«Dimmi.»
«C’è anche cosa su fratello di inginière Codecà…»
«Ah sì, bravissima Vesna.»
«Bravissima!» ripeté Fìlice sulla fiducia, sbavando.
«Questa mattina con Vesna abbiamo trovato un articolo nel quale si dice incidentalmente che un fratello dell’ingegnere era vicedirettore della Banca Commerciale Italo-Romena.»
«Però!» esclamò Villa. «Significa che non solo Codecà era un uomo valido e competente, ma aveva anche entrature di un certo tipo grazie ai suoi legami famigliari. Non doveva essere difficile per lui aprire canali di contatto con le élites economiche di mezza Europa.»
«Insomma, parliamoci chiaro», proruppe l’avvocato Dalmasso. «Non si diventa uno dei massimi dirigenti della Deutsche FIAT Automobil Verkaufs per un casuale accidente.»
«Già, tra il ’35 e il ’43 Codecà fu dirigente del distaccamento FIAT in Germania.»
«Passò otto anni nella Germania nazista», precisò Cannavacciuolo. «Poi, dopo il ’43, fu richiamato in Italia come vicedirettore dell’Ufficio Germania, l’organo che doveva tenere i rapporti con gli occupanti tedeschi. Evidentemente coi tedeschi aveva imparato bene a trattare. Durante la Repubblica Sociale, tra il ’43 e il ’45, dovette mediare tra il generale Hans Leyers, l’ufficiale della Wehrmacht che si occupava degli affari industriali nell’Italia occupata, e il professor Valletta.»
«Sì, il nome di Leyers circolava a Torino durante la guerra», osservò Dalmasso ripercorrendo i ricordi. «Io andavo ancora alle scuole elementari, ma ricordo genitori di amici che ne parlavano. Pare che non fosse esattamente un hitleriano fervente. Tramando con Valletta riuscì a limitare le requisizioni tedesche sulle materie prime e sui macchinari delle fabbriche. Più che un nazista, era un ingegnere civile con addosso la divisa della Wehrmacht. Dopo la guerra, per ricompensa, ottenne un impiego riccamente retribuito alla Deutsche FIAT.»
«Come a dire che l’azienda non si dimentica degli amici.»
«Tutto ciò che avete detto non fa che confermare una cosa», disse Leonora. «Codecà era un dirigente di alto profilo e verosimilmente aveva dovuto mettere le mani in molti affari non proprio limpidissimi.»
«Oh, finalmente!» traboccò il professor Cannavacciuolo. «Abbiamo aspettato tutta la sera per chiarire il quadro, ma adesso possiamo parlarne.»
«Di cosa?» domandò Fìlice, distratto da Vesna che si era chinata a massaggiare le caviglie doloranti per i tacchi.
«Ma come di cosa?! Delle carte cifrate che furono trovate nell’ufficio di Codecà!»
«Aaaaah, le carte…» belò il magistrato mentre i suoi occhi si tuffavano nella scollatura di Vesna.
Cannavacciuolo accatastò le braccia sul voluminoso ventre, un’occhiata a destra e una a sinistra, poi cominciò a parlare: «Perquisendo la scrivania nell’ufficio di Codecà, la polizia trovò delle carte. Nessuno, nemmeno Palmucci, il collega più stretto di Codecà, riuscì a interpretarle. Era chiaro che non riguardavano nessun affare ufficiale della FIAT S.p.A.».
«E queste carte non vennero mai più a galla nel corso delle indagini», disse il dottor Villa.
«Escludiamo il fatto che la polizia non le avesse ritenute interessanti. L’unica spiegazione è che…»
«Che qualcuno dall’interno dell’azienda avesse fatto capire che, anche se la direzione sapeva qualcosa di quei documenti, non avrebbe gradito diffondere la notizia», si inserì Dalmasso concludendo il ragionamento del professore.
Leonora accarezzò delicatamente le guance di Vesna che, annoiata dai loro discorsi, era scappata lontano con gli occhi e con i pensieri. Poi si volse verso il suo vecchio amico quasi napoletano, quasi concittadino. «Alla base di tutto ci sarebbero dei segreti industriali?»
Cannavacciuolo si fece serio serio, nell’enfasi della risposta si aggrappò a un bracciolo fino a sbiancare le unghie. «Può darsi, Leonora. Quello che è sicuro è che la FIAT voleva insabbiare tutto, e alla svelta. Per rendersene conto basta leggere La Stampa, il giornale degli Agnelli. Che una delle piste potesse essere quella dello spionaggio industriale ne parlò solo una volta, appena dopo l’omicidio, poi più nulla.»
Villa sbuffò a lungo dopo il ragionamento dell’amico. «A Milano diciamo: un bel rebelòt.»
«Se voi avete in mente tutte queste fantasiose ipotesi, io me ne rallegro, me ne rallegro sinceramente», commentò Fìlice. «Ma qui state parlando come se il colpevole del delitto non sia mai stato arrestato!»
Leonora alzò la mano come una vigilessa. «Alt! Di questo parliamo la prossima volta. Io e Vesna siamo molto stanche», disse facendo l’occhiolino alla ragazza, che stava coprendo uno sbadiglio con la mano.