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Menu della «questione meridionale»
BURRATINE CON PESTO DI POMODORI SECCHI
(Falanghina del Sannio; Sonata in re maggiore per tromba e archi in continuo di Telemann)
PARMIGIANA DI MELANZANE, ZUCCHINE E CARCIOFI
(Cappello di Prete; «Di sì felice innesto» dal Barbiere di Siviglia di Rossini)
«CALLARIELLO» DI PECORA AL FINOCCHIETTO SELVATICO
(Castel del Monte Rosso; «Ouverture» da Iphigénie di Piccinni)
CRESPELLA FLAMBÉ, FARCITA AL GELATO
(Passito di Pantelleria; «Dies Irae» dal Requiem di Mozart)
La lunga nota iniziale della sonata in re maggiore per tromba e archi in continuo di Georg Philipp Telemann dette il segnale della cena. Fìlice proruppe in una trionfante esibizione di cultura musicale: «È De André. Non mi piaceva, ma lo conosco». Freddo silenzio degli astanti. Lieve sorriso bastardo di Andrea. Costernazione di Dalmasso. Il giudice colse solo quest’ultima, che attribuì al suo mancato gradimento di De André. Poi, a mano a mano che il pezzo proseguiva, si accorse che no, forse, non era De André. Ma questo non gli guastò l’appetito.
«Che poesia! Che poesia!»
Il magistrato assaporava la parmigiana con voluttà. Sentiva le melanzane, la mozzarella, le zucchine, la mortadella, i carciofi, le polpettine, il ragù di pomodoro e le fettine di uova sode sciogliersi e mescolarsi in un abbraccio morbido.
«Leonora, questa parmigiana è una vera poesia, e tutti ce ne dobbiamo rallegrare», ripeté agitando la forchetta in aria, come dovesse dirigere quella sinfonia di sapori.
Nella testa, non poté fare a meno di dedicare a sua moglie Assunta e alla sua orrenda cucina un liberatorio E vafangùlo!
«Davvero, Leonora! Buonissima!» confermò Villa.
Vesna si dimenticò addirittura di parlare in italiano: «Očen’ karašò!»
Dal perimetro della tavola si alzò un coro di muggiti e mugolii soddisfatti. Persino Andrea Balliani, il giovane amico di Dalmasso, insolito a riconoscimenti, dovette complimentarsi. Caterina, ingorda come al solito, provò a parlare con la bocca piena schizzando lapilli di parmigiana ai quattro punti cardinali.
Donna Leonora Lopez de’ Fonseca si schermì placando l’entusiasmo dei commensali con i palmi tesi sopra la tovaglia.
Fìlice: «Ma non capisco che ci fa un piatto di Parma in un menu dedicato al Sud».
«Parma non c’entra niente», intervenne la nobildonna. « Forse un qualche piatto a base di melanzane fritte fu originariamente preparato nel ducato di Parma e poi, via via, acquisito da altri; ma l’attuale piatto basato su questi ingredienti è cosa tutta meridionale: come dimostrano l’uso del pomodoro e della mozzarella, ingredienti tipici del Sud. Le origini ce le contendiamo fra napoletani – che hanno dalla loro il parere di Artusi e di Cavalcanti, e dicono che la mozzarella è roba loro – siciliani – che sottolineano il grande uso della melanzana nella loro cucina – e i baresi. Sembra che, nel 1518, il menu del pranzo di nozze di Sigismondo Jagellone di Polonia con Bona Sforza, regina di Polonia e duchessa sovrana di Bari – che sarebbe stato preparato da un cuoco barese al suo seguito – includesse anche il piatto in questione. Ma vai a sapere quanto è leggendaria questa origine barese del cuoco. Anche perché il 1518 mi sembra un po’ presto per l’arrivo del pomodoro in Europa. Insomma: è un piatto del Regno del Sud e su questo non ci piove.»
«Qual è il tuo segreto per questa parmigiana perfetta, Leonora?» chiese Villa.
«Semplicissimo, se si vuole un perfetto amalgama dei sapori e che non ci sia troppa acqua, occorre che le verdure siano tagliate tutte con spessore fra i 4 e i 5 millimetri. Comunque, sono cose d’altri tempi e, anche a tavola, l’Italia non è più la stessa.»
«Tutta colpa del Grande Errore!» sentenziò Dalmasso.
I commensali annuirono educatamente, ma chiedendosi: Di quale errore sta parlando?
La conversazione spumeggiò leggera, toccando argomenti come le avanguardie artistiche del Novecento, a proposito delle quali Fìlice osservò: «Ma quelle cose come i tagli ai feltri fatti da Fontana o la plastica bruciata di Burri, le saprei fare anche io. E pensare che c’è gente che se le compra! Che cretini!»
«Giusto, Francesco, ma purtroppo non tutti hanno la nostra sagacia», sibilò Andrea. «E poi parlare male dei cretini non dà soddisfazione. Nel farlo non si corre nessun rischio, perché il cretino è il primo che ti dà ragione senza sapere di esserlo e senza capire che stai parlando di lui.»
Fìlice abboccò subito ridendo sonoramente: «Hai ragione, hai proprio ragione, Andrea».
Nel gelo dei presenti, Andrea incassò con il più innocente dei suoi sorrisi l’occhiataccia di riprovazione dell’avvocato Dalmasso.
Terminato il banchetto, i divani del salotto accolsero tutta la compagnia, e fu donna Leonora, come sempre, ad aprire le danze.
«Perché non parliamo un po’ del processo a Faletto?» esordì, per poi riassumere i fatti così come erano riusciti a ricostruirli.
Quando ebbe terminato, Caterina intervenne: «Insomma… Faletto viene arrestato dai carabinieri grazie alla collaborazione di Camia e Vinardi, due sue vecchie conoscenze. Mentre Vinardi si mette a rilasciare interviste al giornale degli Agnelli, gli investigatori cercano elementi contro Faletto, ma restano con un pugno di mosche. Anche le registrazioni che dovevano incastrarlo sono inascoltabili e durante il processo non si riesce mai a trovare una prova schiacciante. Dal calibro della pistola, al biglietto del maresciallo Carratù: niente».
«È così», fece il dottor Villa, come a chiudere quelle parole.
«E questa è la ragione per cui Faletto non venne condannato.»
Fìlice insorse: «Ma se si fece vent’anni di carcere!»
«Be’, ma che c’entra?!» ribatté Caterina, «Mica li fece per l’omicidio di Codecà.»
«Eh sì, Francesco, Faletto fu condannato esclusivamente per alcuni crimini commessi durante la Resistenza», intervenne Leonora, come sempre dalla parte dei ragazzi.
«Per l’appunto!» insistette Fìlice.
L’avvocato Dalmasso aggrottò le sopracciglia. «Questa volta non ti seguo nemmeno io, Francesco.»
Fìlice guardò gli astanti con occhi di compatimento. «Amici dilettissimi, i colleghi all’epoca presero un abbaglio. È vero che Faletto non fu condannato per l’uccisione di Codecà, ma era la sua stessa indole a identificarlo come assassino. Lì fu l’errore: i giudici non considerarono la sua psicologia di delinquente. Come dico sempre al mio Adelmo, l’attitudine criminale è innata in certi uomini, ce lo dice l’esperienza. Se avessero saputo toccare le corde giuste, Faletto avrebbe confessato anche il delitto Codecà. Sarebbe crollato come la sottoveste di una meretrice!»
Dopo un istante di imbarazzo generale per la sconveniente similitudine del magistrato, fu Caterina a parlare. Il rivoluzionario di turno sulla sua maglietta quella sera era Camilo Cienfuegos. «Pensavo che i processi si facessero sulle prove… non sulle sottovesti», ciancicò a mezza bocca, piena di disprezzo per Fìlice.
Il togato scattò in piedi, come nel mezzo di una prolusione d’accusa, e assunse un tono piagnucolante. «Ma insomma, Faletto fu condannato per sette omicidi, ivi compreso quello di Domenico Nebbia, un innocuo ottuagenario sfidato alla boxe. Senza considerare furti ed estorsioni prima e dopo il 25 aprile. E voi difendete un uomo siffatto?!» Stava per dire «vostro onore», ma riuscì a fermarsi in tempo. «Le prove per l’omicidio di Codecà c’erano senz’altro. E sarebbero saltate fuori, fidatevi di me!»
«Ma queste prove non emersero», tagliò corto l’avvocato Dalmasso, ridimensionando in un attimo lo sproloquio di Fìlice. Di tanto in tanto lasciava fuggire lo sguardo verso Andrea, temendo che potesse di nuovo prender di mira il magistrato. Ma Andrea si era messo un po’ in disparte, sembrava disinteressarsi della realtà.
Il professor Cannavacciuolo sino ad allora era rimasto in silenzio, nascosto dietro alla collina adiposa, le mani allacciate. Gli occhi degli amici chiedevano un suo intervento.
Una volta che si fu sistemato meglio sui cuscini, parlò: «Dopo la Liberazione molti partigiani furono epurati dai corpi di polizia, altri furono ingiustamente condannati per le loro azioni in tempo di guerra da una magistratura in larga parte ancora monarchica, reazionaria e mai ripulita. In buona sostanza ci fu una falciata restauratrice. Un boccone molto amaro per chi aveva combattuto armi alla mano i nazi-fascisti».
«Adesso non vorrai dirmi che Faletto era una vittima e che il giudice Carron Ceva era un nostalgico del regime!» intervenne indispettito Fìlice.
«Faletto non era un’educanda, non ci sono dubbi. Certo, uccise molti fascisti, gente che lo meritava, ma uccise anche degli innocenti. Tra i tanti casi di ex partigiani inquisiti, il suo probabilmente non è il più ingiusto, d’altro canto non tocca certo a me difenderlo. E non lo difesero nemmeno i partigiani, tant’è vero che lo condannarono a morte.»
«Il comandante Burlando lo disprezzava, però leggendo i verbali del processo ho visto che ci fu anche qualche ex garibaldino che lo difese», osservò Villa.
Leonora annuì: «In effetti Faletto non fu mai giustiziato dal tribunale partigiano. Probabilmente nelle brigate c’era qualcuno che lo stimava, almeno come combattente, e che quindi lo proteggeva».
«Qualcuno che, diciamo, chiudeva un occhio su certe cose, o che lo avvisava quando il cerchio si stava chiudendo attorno a lui.»
Cannavacciuolo si rabbuiò. Stava per rispondere, ma fu anticipato da Dalmasso: «Via, Liborio, non dirmi che non avevi considerato questa eventualità. Dopo che Faletto riuscì a sfuggire ai partigiani, avrebbero potuto cercarlo ancora, arrestarlo, giustiziarlo. Tuttavia non avvenne nulla di simile».
Il professore diede un vago segno d’assenso. «Probabilmente Faletto era una buona pistola e può anche essere che qualcuno pensasse che poteva tornare comodo. Peccato che durante il dibattimento usarono i suoi crimini per fare un processo alla Resistenza e per screditare gli ex partigiani comunisti.» Cannavacciuolo continuò rincorrendo le parole: «La verità è che la Resistenza è stata l’unico vero fenomeno popolare di massa della storia d’Italia che abbia mai attraversato classi e generazioni diverse. Centocinquantamila combattenti e altre centinaia di migliaia di persone che li fiancheggiavano, tutta gente che metteva in conto di poter morire da un momento all’altro: non è uno scherzo, credetemi». I suoi occhi si accesero di una rabbia antica. «Molti compagni speravano in qualcos’altro, alla fine. Un ultimo atto differente. E invece furono costretti a ingoiare amaro per responsabilità, umiliati a guardare le mirabolanti evoluzioni di questa bella democrazia d’Italia», disse sarcastico sfiorando l’aria davanti a sé come stesse accarezzando tutto il Paese e la sua intera storia, bestie sopite e indolenti.
Fìlice si riscosse: «Che c’entrano queste cose adesso!? Parlavamo di Codecà… e io appunto sostengo e ripeto che, nonostante l’assoluzione, Faletto resta il sospettato principale».
Cannavacciuolo spalancò il viso in un sorriso diabolico. «Allora voi non avete letto bene un certo documento», fece col tono che una volta riservava ai suoi studenti.
«Credi di essere l’unico bravo, qui dentro?» lo affrontò bonariamente Leonora.
Cannavacciuolo la squadrò con attenzione. Poi le abbrancò con affetto l’avambraccio e prese a ridere, il capo reclinato all’indietro. La risacca del suo riso trascinò tutti.
Quando il brusio si fu sopito, Fìlice con un’espressione interdetta chiese: «Ma quale documento?»