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LA salma dell’avvocato Brambilla Todeschini giaceva composta all’interno della bara, sull’imbottitura di raso. Corone di fiori profumavano l’aria.
Francesco Fìlice ascoltava il singhiozzo di Domitilla, la figlia del defunto. Era vestita con un tailleur nero e in quel momento la sedia a rotelle sulla quale era obbligata da un vecchio incidente sembrava solo la più distante delle sue sciagure.
«Povero papà, aveva solo me. È morto da solo… Lei era un suo vecchio amico, ha detto? Be’, è arrivato tardi.»
«Mi spiace davvero molto, signora. Suo padre era un uomo di specchiata onestà e un grande legale, se ne deve rallegrare.»
«Signor Fìlice, le spiace accompagnarmi in cortile?» sussurrò la donna. «Voglio fumare una sigaretta.»
Fìlice la condusse nel giardino della casa, una grande villa appena fuori Milano. Trattenne a fatica la sedia a rotelle mentre scendevano lungo lo scivolo.
«Papà…»
«Ebbi modo di conoscere suo padre molti anni fa. Io ero pubblico ministero, quindi eravamo su due sponde opposte, ma ne ho sempre apprezzato l’integrità.»
«Grazie… grazie, signor Fìlice.»
Il magistrato si riscosse. Non doveva perdere di vista il motivo della sua visita. «Non si può dire lo stesso di Ugo Palermo, quel suo vecchio socio.»
La signora Brambilla Todeschini faticò a scollare la sigaretta dalle labbra. «Ugo Palermo?»
«Lo ricorda?»
«Vagamente, ero una ragazzina all’epoca. Poverino… si suicidò…» E riprese a piangere, come se la lontana disgrazia avesse riattizzato i suoi dolori.
«Lei sa che Palermo aveva avuto dei guai giudiziari.»
«Mio padre mi disse qualcosa una volta… ci fu un processo. Ciò che so di per certo è che rimasero in affari anche dopo. Papà era molto affezionato a Ugo e volle dargli fiducia, nonostante avesse il vizio del gioco.»
«E di un certo Filippo Argenti ha mai sentito parlare?»
«No, mai», rispose con un filo di voce la donna. Si vedeva che con la mente era altrove.
Prima che Fìlice potesse ripartire alla carica, Domitilla prese la testa tra le mani. «Questa casa è troppo grande per me. Se penso alla quantità di oggetti e di ricordi…»
«Può sempre chiamare una di quelle ditte per gli sgomberi delle cantine, sa, quelle che fanno i traslochi…» fu la sensibilissima frase che Fìlice riuscì a partorire. «Mia moglie una volta voleva sbarazzarsi di una friggitrice. L’avevo comprata perché…»
Domitilla però non lo stava ascoltando. «Qui ci sono tutti i regali che mio padre mi portava da piccola, di ritorno da un viaggio… il quadro per il quale mi fece posare a diciannove anni… il pianoforte che non ho mai voluto imparare a suonare… Ci sono anche le carte del suo archivio, tutte le persone che negli anni ha aiutato ad avere giustizia. C’è persino l’archivio dell’avvocato Palermo. Dopo la sua morte rimase tutto a mio padre e lui non se la sentì di eliminare quei documenti. ‘Ugo era un amico e degli amici bisogna avere memoria’, diceva. Che uomo buono!»
Mentre la signora Brambilla Todeschini scoppiava di nuovo in un pianto dirotto, Fìlice fu come attraversato da una scarica elettrica. Sogguardò lo scivolo fischiettando e ne calcolò mentalmente la pendenza. Idea diabolica.
«Signora cara, posso chiederle dov’è il bagno?»
Rientrò in casa quasi di corsa, poi il passo si fece circospetto.
«Avvocato, lei mi perdonerà…» disse transitando davanti alla camera ardente.
Ispezionò tutte le stanze. L’ultima si rivelò quella giusta. Un grande armadio a muro alla veneziana celava almeno due quintali di documenti.
«Mò i’ duv’ cominc’?!»
Cacciò le mani tra le colonne di carte e con una mossa maldestra si rovesciò addosso un metro cubo di documenti. Cadde a terra in un frastuono infernale e fu sommerso.
«Ma vaffa’mmocca!»
«Signor Fìlice… signor Fìlice, tutto bene?» sentì attraverso il vetro.
«Benissimo, signora, non si preoccupi», riuscì a starnazzare smanacciando via i fogli dalla faccia.
C’era qualcosa che lo pungeva, doveva essere una graffa. Sfilò una cartelletta da sotto le natiche. Non poté credere ai propri occhi. Sul cartoncino azzurro era scritto: «Ugo 1959». Si accorse che altri involucri simili erano sparsi sul pavimento.
Prese a sfogliare voracemente, leccando il dito ogni quattro documenti.
«1949… 1950… 1953… 1955… 1951… 1958…»
Niente di interessante. Stava per perdere le speranze, quando ritrovò la cartella del 1956.
Pagine e pagine di contratti, atti giudiziari, perizie, nulla che potesse fare al caso suo. Poi scorse un appunto che si distingueva dalla massa, un foglietto consumato e giallognolo. La grafia era la stessa che aveva trovato nelle altre cartelle, quella dell’avvocato Palermo. Era datato 10 novembre 1956.
Botteghe Oscure. Non ne vogliono sapere del dossier di Argenti. Anche Mario dice che non è il caso.
Parlato con vedova Filippo. Intenzionata battere ferro finché caldo. Vuole soldi FIAT. Tanti. Ha accettato di farmi gestire la trattativa in cambio del 50 per cento del guadagno.
E poi un’annotazione di colore diverso, probabilmente aggiunta dopo qualche tempo: «Tutto bene». Fìlice ficcò il biglietto in tasca.
«Argenti in effetti è morto proprio nel 1956… E sua moglie che c’entra? E la FIAT? E ’sto Palermo che sta sempre in mezzo, mannaggia a lui!»
L’avvocato Palermo aveva preso mandato di andare a trattare con la FIAT per conto della vedova di Filippo Argenti. La FIAT doveva avere un debito nei confronti del detective, pensò, o perlomeno delle responsabilità. Qualcosa di grave, senz’altro.
Scosse la testa. Bisognava ancora ragionarci un po’ su, ma la scoperta era di quelle importanti, lo sentiva. Questa volta i suoi amici si sarebbero complimentati e avrebbero senz’altro riconosciuto il suo ormai innegabile primato su quelle indagini. Cos’erano senza di lui?
Doveva essere onesto con se stesso. A quel riguardo l’atteggiamento di Dalmasso spesso lo indispettiva. Era come se il suo caro amico non fosse interessato ad approfondire coi dovuti riguardi le sue intuizioni. Eppure l’avvocato gli doveva voler bene, doveva pur avere una qualche stima nei suoi confronti. Doveva essergli riconoscente, soprattutto.
Finita l’università si erano persi di vista. Anni dopo c’è l’omicidio di un giovanotto, uno di questi fro… un omosessuale. E durante le indagini che nome mi viene fuori? Marcello Dalmasso, rimuginò Fìlice. Se l’era ritrovato seduto davanti in Procura, gli occhi bassi e le spalle curve. Gli aveva fatto impressione. Inutile dire che Dalmasso era persona onorabile e non c’entrava nulla con quella storiaccia, ma si sa che nel giro dei… cioè, in quel giro tutti conoscono tutti e anche un uomo perbene può trovarsi invischiato in certe… E i giornali… «Io lo so come sono i giornali, Marcello, lo so per la mia lunga esperienza…» aveva detto il magistrato a Dalmasso. E aveva fatto in modo che il nome dell’amico sparisse dalle carte. Insomma: un po’ di gratitudine e considerazione, Fìlice pensava di meritarle.
Ma perché rivangare quelle cose? La stanza era un campo di battaglia e dal cortile Domitilla Brambilla Todeschini continuava a chiamarlo.
«Signor Fìlice… signor Fìlice… ma dov’è finito?! Cosa sta facendo?!»
Il magistrato la sbirciava dietro le partite accostate della finestra. Si dimenava aggrappata ai cerchi d’alluminio, avanzava faticosamente solcando la ghiaia con le ruote, ma, preso l’abbrivio, non riusciva a risalire lo scivolo al contrario. Fìlice l’aveva proprio pensata bene.
Uscì trafelato in giardino.
«Signora mia, mi dica tutto.»
«Ma dov’era?»
«Non riuscivo a trovare il bagno.»
«È un quarto d’ora che la chiamo!»
«Mi scusi, mi scusi davvero. L’aiuto io.»
Domitilla guardava davanti a sé con gli occhi gonfi.
Fìlice ne ebbe compassione. «Signora, se avrà bisogno di un sostegno nei prossimi giorni, non si preoccupi: sine qua non. Siamo qua noi!»