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CANNAVACCIUOLO era stato molto chiaro: «Vieni a tuo rischio e pericolo».

Armando Panzaleone si era presentato puntuale a mezzogiorno. Piccolo, spelacchiato e claudicante, nel corridoio di libri aveva un incedere sicuro, come fosse in casa sua.

«Ma figuriamoci se ho paura della cucina di Vesna!» aveva esclamato davanti al piatto di minestra, che alla fine la ragazza aveva «corretto» con la panna acida.

«Io ne ho terrore.»

«La cucina della compagna Korciaghinova è ottima!»

Vesna aveva alzato le spalle sbuffando all’indirizzo del professore, e poi aveva sorriso complice a Panzaleone che, nonostante l’aspetto ripugnante, riusciva sempre ad avere un certo ascendente sulle donne, forse per quella sua risolutezza nei modi e nelle parole.

Il reporter fece piazza pulita delle scodelle e aprì una rivista davanti a Cannavacciuolo. «Liborio, bando alle ciance, non sono venuto qui per chiacchierare e mangiare. Stamattina, quando al telefono mi hai parlato di Raimondo Lanza di Trabia e Clare Boothe Luce, mi è suonato un campanello. Ho pensato: questi due nomi li ho sentiti a proposito di qualcosa… Poi mi è venuto in mente. Si tratta di un fatto di qualche mese fa.»

«E cioè?» chiese il vecchio insegnante dopo aver prosciugato un intero bicchiere d’acqua nel vano tentativo di lavare dalla lingua il sapore della panna acida.

«Nel settembre del ’98 scoppiò uno scandalo.»

«Che genere di scandalo?»

«Uno storico ritrovò delle lettere di Indro Montanelli indirizzate a Clare Boothe Luce, delle lettere del 1954. Furono pubblicate su una rivista accademica. Questa», spiegò Panzaleone indicando col naso il periodico sulla tavola.

Cannavacciuolo ebbe un attimo di smarrimento. «Perché mai Montanelli doveva scrivere alla Boothe Luce? Lui era un giornalista, lei l’ambasciatrice americana in Italia, una vipera anticomunista da far impallidire persino il senatore McCarthy.»

«Il tema centrale non è solo a chi scrisse Montanelli, ma cosa scrisse in quelle lettere. Come sai, non era proprio un onesto repubblicano osservante. Col suo amichetto Longanesi si definivano apoti, quelli che non se la bevono, quelli che hanno la libertà intellettuale di poter fustigare a destra e a manca, perché non hanno padroni. In realtà poi fustigavano sempre dalla stessa parte, cioè a sinistra. Inoltre Montanelli aveva un passato fascista, e forse, nel ’54, quel passato non era poi così passato…»

«Che vuoi dire?»

«Come molti di questi personaggi ambigui a metà tra passioni nostalgiche e pensiero libero esibizionista, aveva un odio feroce per i comunisti. In merito elaborò un progetto particolare, che poi espose nero su bianco alla Luce… È meglio se lo leggi da solo.»

«Ma che m’interessa a me di Montanelli!» si lamentò Cannavacciuolo.

Inforcò le lenti. Mentre con le dita lisciava le pagine della rivista, con gli occhi dardeggiava su Panzaleone, come a dirgli: «Ma guarda tu!»

Le prime parole gli si srotolarono davanti agli occhi nella prosa elegante di Montanelli.

Roma, 6 maggio 1954

Cara signora,

di ritorno a Roma da un lungo giro in Piemonte e Lombardia, desidero metterLa al corrente di alcuni colloqui avuti con alti esponenti dell’Industria e della Finanza.

E che ci faceva Montanelli tra industriali e finanzieri?

Nel Nord Italia, che è poi l’Italia che conta, si sta facendo strada una convinzione, che io mi sono guardato bene dal contraddire perché la ritengo esatta: e cioè che dal punto di vista elettorale, il Paese è entrato ormai in una fase pre-agonica, e che a salvarlo nessun giuoco di partiti può bastare.

Secondo Montanelli c’erano alcuni grandi industriali che a lui in persona avevano confidato di essere preoccupati. In quel 1954, temevano l’avanzata dei comunisti in Italia, ed erano convinti che nessun allargamento della maggioranza politica, a destra o a sinistra, sarebbe bastato ad arginarla. Tra di loro: Alighiero De Micheli, Angelo Costa, Furio Cicogna. Tutti futuri o ex presidenti della Confindustria. C’era anche Giovanni Falck, quello che a Milano chiamavano «il padrone delle ferriere». E c’era Gianni Agnelli, ma di lui Montanelli parlava male.

Gianni Agnelli a cui ho apertamente rimproverato l’atteggiamento ambiguo del suo giornale, La Stampa, mi ha invece espresso la sua fiducia nel distacco di Nenni da Togliatti. Ciò dicendo, egli ha parlato con la propria bocca, ma ha pensato col cervello del Prof. Valletta, col cuore di Giulio Debenedetti e con gl’interessi della FIAT.

«Dunque il partito della FIAT non stava con i falchi della Confindustria», mormorò Cannavacciuolo.

Al suo fianco anche Panzaleone era talmente immerso nella lettura di quelle pagine, che pure doveva già avere lette e rilette, al punto da non badare più al professore. Avrebbe potuto essere da solo nel suo malandato ufficetto del giornale, che puzzava da sempre di sigaretta e sudore.

Montanelli ne era sicuro: al di là di Valletta e Agnelli, c’era un nucleo di industriali valorosi, pronti a «impegnare i loro miliardi in una lotta a oltranza» contro i rossi. Un battaglione di banconote, sorrisi di plastica, villette nella nebbia e Jaguar. Montanelli li aveva incontrati in quel suo tour di Lombardia e Piemonte. Montanelli aveva a lungo parlato con loro. Montanelli diceva che: «Noi non possiamo fondare un nuovo partito. Esso farebbe soltanto della concorrenza ai partiti anticomunisti già esistenti e non risolverebbe niente».

Ma Montanelli, alla signora Luce, non si limitava a dire quello che non andava fatto. Montanelli aveva un piano.

Noi dobbiamo creare una forza. Quale? Non si può sbagliare, guardando la storia del nostro Paese, che è quella di un sopruso imposto da una minoranza di centomila bastonatori. Le maggioranze in Italia non hanno mai contato: sono sempre state al rimorchio di questo pugno di uomini che hanno fatto tutto con la violenza: l’Unità d’Italia, le sue guerre e le sue rivoluzioni. Questa minoranza esiste ancora e non è comunista. È l’unica nostra fortuna. Bisogna ricercarla individuo per individuo, darle una bandiera, una organizzazione terroristica e segreta, e un capo… Propongo il maresciallo Messe, uno dei pochissimi generali usciti dalla guerra con onore. È vecchio e non molto intelligente. Ma è il soldato che vinse in Russia e fu l’ultimo a cedere in Africa. Gli forniremmo noi le idee che egli non ha…

Era quello ciò che scriveva il giornalista Montanelli alla bella e bionda ambasciatrice americana Luce?

I comunisti non dovevano vincere le elezioni. Non dovevano poter vincere le elezioni.

Cannavacciuolo scuoteva il capo, incredulo. «Centomila manganellatori fascistoidi agli ordini di un utile idiota, sotto la regia occulta di ricchissimi industriali e un raffinato editorialista toscano…»

«E non è tutto», ribatté Panzaleone. «Montanelli propose di collegare in maniera occulta queste squadracce a certi reparti ‘amici’ dei carabinieri, in modo che potessero entrare in azione in maniera congiunta al momento del golpe, quando il PCI e le sinistre avessero avuto la maggioranza dei voti.» Poi aggiunse ironico: «Certo, l’organizzazione avrebbe aspettato sino all’ultimo a intervenire. Erano dei sinceri democratici…»

Solo dinanzi al cadavere della democrazia, tenteremmo di impadronirci della sua eredità per sottrarla ai comunisti: o aiutando un colpo di Stato, se si troverà un uomo, fra quelli attualmente al potere, disposto a tentarlo; o facendolo per conto nostro: pronti, in quest’ultimo caso, a scatenare la guerra civile con tutte le sue inevitabili conseguenze, allo scopo fondamentale e basilare d’inchiodare l’Italia nell’Alleanza Atlantica.

Dopo lunga discussione, i miei ascoltatori hanno riconosciuto che, allo stato attuale delle cose, questo è l’unico serio programma d’azione che possa essere tentato. Ma solo a un patto: che l’America lo approvi, e non solo platonicamente: cioè che sia pronta a aiutarlo non col denaro, ma con le sue armi, la sua aviazione e la sua flotta.

Ciak. Il palmo di Cannavacciuolo schioccò sulla fronte. «Colpo di Stato, guerra civile, l’intervento armato degli Stati Uniti…»

«Ovvero la Terza guerra mondiale», ringhiò Panzaleone.

Il professore cercò gli occhi di Vesna, come per sondare la sua opinione, ma la ragazza non aveva seguito la lettura, e se ne stava al lavabo a strofinare stoviglie.

«E non hai letto tutto, Liborio. Il nostro Montanelli si era pure premurato di progettare un piano B, nel caso il piano A fosse fallito. Credo che lo troverai molto interessante…»

In caso di fallimento mi sembra che l’America dovrebbe almeno approntare una Formosa per concentrarvi le forze destinate a una riscossa che in Italia sarebbe più facile, o meno difficile, che in Cina. Parlo della Sicilia, naturalmente. In quest’isola che, comunque, non avrà mai una maggioranza comunista, c’è un governo regionale in mano ad anticomunisti, sia pure deboli e irresoluti. Ho pregato il principe Raimondo Lanza di Trabia di porre il quesito all’on. Restivo e ai suoi colleghi: cosa farebbe questo governo, di fronte a una vittoria comunista nel resto del Paese: accetterebbe il fatto compiuto, o proclamerebbe l’indipendenza?

Il principe Lanza di Trabia è un giovane e coraggiosissimo avventuriero che, se invece che principe, fosse nato proletario, si sarebbe chiamato Salvatore Giuliano e come lui sarebbe finito. Ma appunto per questo gode di grande prestigio nell’Isola e soprattutto è in eccellenti rapporti con la Mafia, che laggiù ha un potere decisivo, molto più grande di quello del Governo.

Lanza di Trabia mi ha risposto giustamente: «Se Restivo, o di sua spontanea volontà, o per nostra imposizione, proclama l’indipendenza e chiede la protezione della flotta americana, la flotta americana è disposta a proteggerla?»

«Pazzesco: fare della Sicilia la base d’appoggio della revanche restauratrice con l’aiuto della Mafia e di Franco Restivo, il democristiano presidente della Regione… Ma poi, quale revanche?!… La DC aveva il doppio dei voti del PCI!» sbottò Panzaleone.

«Ed eravamo repressi dappertutto… nelle piazze, nelle fabbriche, sui giornali… È in quegli anni che mi sono beccato la pallottola!»

«I fanatici come Montanelli e la Luce avrebbero visto rosso anche con un PCI al 2%…»

Il principe Lanza proposto a Clare Boothe Luce come ducetto di Sicilia e riscattatore dell’onor perduto d’Italia. Il principe Lanza che organizza una festa a base di cocaina per montare uno scandalo attorno all’ambasciatrice. Come si conciliavano le due cose?

Cannavacciuolo lasciò riposare le sinapsi e si rivolse all’amico: «Arma’, com’è possibile che io di questa storia non sapessi niente? Non fece scandalo quando fu scoperta?»

Il sorriso amaro di Panzaleone stillava sconfitta dagli angoli della bocca. «Vedi, Liborio, se lo scandalo fosse uscito nel ’54 o, che so, negli anni Sessanta, be’, avrebbe fatto un bel botto, questo è certo. Invece è uscito nel ’98, dopo più di quarant’anni, e nessuno se l’è filato. E vuoi sapere perché? Perché nel frattempo era diventato uno scandalo medio.»

«Uno scandalo medio?»

«Il tempo ha mitigato la gravità della notizia, ma si tratta pur sempre di un fatto notevole. Parliamoci chiaro: Montanelli è ancora in pista, ha scritto decine di libri, tra cui molti testi di ‘Storia’. L’ha sempre fatto con i crismi del battitore libero senza macchia e senza paura. E invece si scopre che aveva progettato un golpe fascistoide sotto l’ala degli americani. Il tempo ridimensiona – siamo d’accordo – ma qui lo scandalo è tale da poter essere declassato soltanto da grande a medio, non di più. Ora, Liborio, gli italiani amano due tipi di scandali: quelli grandi e quelli piccoli. L’italiano è portato a idolatrare i potenti, ma lo fa controvoglia: in fondo il potente gli sta in culo; uno scandalo grande gli fa esercitare l’odio sul potente, diciamo una specie di rivincita. Lo scandalo piccolo, invece, l’italiano lo ama perché gli permette di sbeffeggiare il vicino ladro che si è fatto beccare. Ma è un modo per esorcizzare la paura, un meccanismo di ironia. Perché l’italiano sa che la prossima volta potrebbe esserci lui nel ruolo del beccato. A questo punto: perché interessarsi a uno scandalo medio? Lo scandalo medio non ti fa sputare su chi stava sopra, e non ti fa ridere della tribù a cui appartieni. In ultima analisi, a che serve uno scandalo medio?»

Rimasto solo, Cannavacciuolo indossò un soprabito e si affacciò al balcone per sorbire le ultime lacrime della stagione bella. Era di pessimo umore in quel momento. La storia lontana di Montanelli, Lanza di Trabia e della Luce gli aveva acceso dentro vecchi rancori e delusioni che le parole non spiegavano. Era quel proiettile, quello che viveva vicino al cuore, a bruciargli dentro, adesso.

«Calmati», disse al piombo, mentre gli occhi ispezionavano la linea del lago.

Le ho scritto tutto questo perché Lei possa riflettervi quanto più a lungo vuole. Non lo avrei mai fatto, se Lei fosse stata un ambasciatore di carriera. Lei è qualcosa di più. Lei è venuta qui a svolgere una missione, non a esercitare un mestiere e a guadagnare uno stipendio. Molti italiani non se ne sono accorti, ma io sì ed è per questo che confido di trovarLa pronta ad assumere anche rischi e responsabilità che qualunque altro diplomatico rifiuterebbe con orrore.

Suo, sinceramente,

Indro Montanelli

Il professore pensò alle parole di Panzaleone, sull’uscio: «Liborio, secondo te cosa rispose l’ambasciatrice?»

D’improvviso il paesaggio di fronte a lui si popolò di vecchi fantasmi. Il Gigante Americano e il Gigante Sovietico battagliavano sopra l’Europa, e la loro ombra oscurava tutto il continente. Aveva detto bene Villa: una guerra per procura. Una guerra talmente fredda da diventare ustionante, come il ghiaccio sulla pelle.

Riavvolgere il nastro.

Ripensò alle decine di compagni allontanati dalle fabbriche. L’onorevole Togni che sbraita in Parlamento. Grida, strilli. «Assassini!» Gli anni che aveva vissuto, i suoi anni. Gli anni che avevano deciso la sua vita. Gli anni di Clare Boothe Luce, Eisenhower e Scelba. Gli anni in cui Montanelli aveva potuto concepire la follia di quelle lettere. Gli anni in cui era stato assassinato l’ingegner Codecà.

Riavvolgere il nastro.

Ripensò all’affare del contrabbando. Dall’America arrivano le merci, che finiscono dove non dovrebbero finire perché uomini come Codecà fanno quello che non dovrebbero fare. Perché uomini come Codecà incontrano uomini come Magura, al buio, tra le pieghe della Storia. E gli uomini come Magura sono pericolosi.

Riavvolgere il nastro.

La FIAT gioca su più tavoli. Edgardo Sogno lo scopre, e finisce male, obbligato a un lungo esilio. Anche la FIAT sa essere pericolosa. Ripensò alle ridicole indagini di Argenti e Gandini – due pesci piccoli in un mare troppo grande – e a come avevano coinvolto un poveraccio come Mercuri in una faccenda così sporca. Ripensò a Roberto Navale e al suo incontro con Camerana, il vicepresidente della FIAT; Navale portava una proposta di «aiuto», Camerana la rifiutava. Tutti avevano cercato di trarre vantaggio dalle difficoltà dell’azienda. Era bastato un filamento di sangue per attirare gli squali.

Riavvolgere il nastro.

Ripensò a Faletto, ai suoi occhi glaciali e al suo fegato infeltrito dall’alcol. Processato per un crimine che non aveva commesso, si era fatto quasi vent’anni di galera per un passato cattivo che era tornato a galla. In fondo Camia e Vinardi, prestandosi al gioco dei due carabinieri Scursatone e Noto, erano riusciti a ottenere il loro obiettivo: rovinarlo.

Liborio per un attimo sentì mancare l’aria, circondato da tutti quei volti. Poi, d’improvviso, sembrarono svanire nella foschia dell’immenso paesaggio storico che gli si parava di fronte, come i dettagli di un quadro vedutista, avrebbe detto il suo amico Fausto Villa. C’era quasi da dubitare che fossero mai esistiti.

Riavvolse il nastro, fino in fondo. Fino a che rimase solo il corpo di Codecà sul selciato di via Villa della Regina. Il sangue si insinuava a fatica tra i sampietrini e colava verso il basso, verso la chiesa della Gran Madre di Dio.

Il professor Cannavacciuolo distolse lo sguardo da quello spettacolo che gli sembrava così vivido, come se potesse allungare la mano e accarezzare il viso di Codecà.

La rabbia era andata, il proiettile si era quietato. Restava solo un gran senso di vuoto.

L'insolita morte di Erio Codecà
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