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Briga #3

Torino, Palazzo di Giustizia, 31 gennaio 1958

GIUSEPPE Faletto se ne stava abbarbicato alla balaustra di legno, nello spazio riservato agli imputati. Dietro ai denti digrignanti si aggrovigliavano afone parole d’odio. Mescolata tra gli spettatori, scorse sua moglie Giuseppina. Gli occhi sporgenti, da rana, piangevano in continuazione inondando il fazzoletto, e lo fissavano. Gli parve piccola e sgualcita, più vecchia di dieci anni. Distolse lo sguardo per non farle del male.

Giulio Carron Ceva, il presidente della Corte, un piccoletto unto, pelato, col baffo alla Hitler, sedeva al bancone e brandiva un martelletto talmente minuscolo che sembrava un giocattolo.

Atmosfera irreale. La grande aula era gremita, ma nessuno si permetteva di fiatare. I giudici popolari occupavano le panche laterali e si scambiavano occhiate. Quando il testimone smetteva di parlare, nel silenzio generale, si udiva soltanto il raspio delle stilografiche sui taccuini dei giornalisti.

Carron Ceva riprese l’interrogatorio: «Allora, signor Leone, lei fece delle dichiarazioni ben precise durante l’istruttoria: disse che nel periodo partigiano correvano delle voci terribili sul Faletto. Immagino vorrà confermare».

«Non è così che si conduce un interrogatorio, signor presidente!» insorse l’avvocato Baravalle, uno dei due legali di Faletto. Era un uomo sulla settantina, senza capelli, ma con una curatissima e lunghissima barba, due occhialetti sul naso. «Così lei indica al teste quale debba essere la risposta. E io allora che ci sto a fare qui? Io abbandono la toga e me ne vado», minacciò, facendo il gesto di svestirsi.

«Mi associo alle rimostranze del collega», disse il secondo avvocato di Briga, Armando De Marchi, un omaccione calvo con la faccia onesta.

«E ditemelo voi dunque come deve essere condotto un interrogatorio.»

«In questo modo: ‘Signor Leone, cos’ha da riferire al riguardo dell’imputato per quanto concerne il periodo della guerra di Liberazione?’ Non era poi così difficile, signor presidente», recitò Baravalle.

Il giudice Carron Ceva placò con le mani l’aula che rumoreggiava e ripeté la domanda imitando il tono di voce dell’avvocato. Tutti si misero a ridere; tutti tranne Faletto.

«Quando che mi avete interrogato io ci avevo detto al magistrato che il Briga era uno che era pronto a uccidere chiunque…» fece Leone, guardando Carron Ceva dal basso in alto.

«E dunque conferma questa versione?»

Il testimone si volse verso Faletto e lo trovò sempre lì, impettito dietro alla paratia come un capitano di vascello. I suoi occhi di ghiaccio lo costrinsero a guardare nuovamente davanti a sé, verso il giudice.

«Ecco, sgnòr presidente… io devo dire che si diceva che spaventava la gente, allora. Però non è che a me mi ha mai fatto niente. Solo una volta venne lì alla bottega, a San Gillio, e sparò un colpo sopra la mia testa, ma così… per scherzare… ecco…»

Il pubblico ministero, che aveva taciuto sino a quel momento, sorrise a Carron Ceva e poi al testimone. «Comprendo perché parla così e non le posso dare tutti i torti: ha paura del Faletto. Anche adesso la prudenza non è mai troppa.»

Guglielmo Gillio, l’avvocato di Elena Piaseski, ridacchiò all’indirizzo del testimone. Era un uomo dal viso scavato e tagliente, solo gli zigomi sporgevano in fuori, lucidi come pomelli.

«Signor Leone, non la si può biasimare. Lei teme, e a ragion veduta, una rappresaglia dei sodali del Faletto. Sappia che tra queste sacre mura nessuno è in grado di arrecarle danno. Si senta libero di dichiarare al signor Presidente tutto ciò che sa.» Poi il tono si fece aggressivo. «Lei è chiamato a un’opera di trasparenza, è lo stesso popolo italiano a chiederglielo, lo stesso popolo italiano che di fronte a lei si sublima in un supremo afflato di verità!»

«Sgnòr avvocato… non è che io ho capito bene quello che ha detto…»

«Parli, Leone! Dica di quali infami crimini si macchiò il Faletto!»

«Ma questo è uno sproposito, signor Presidente!» insorse De Marchi. «L’avvocato Gillio sta proditoriamente tentando di influenzare il teste!»

«Lasci che sia il giudice a deciderlo. Non spetta a lei porre confini a questo dibattito!»

«Ora basta, silenzio!»

Il pubblico ministero avanzò di alcuni passi. L’avevano già spremuto abbastanza, il testimone. «Presidente, se lei e i colleghi non avete altre domande, passerei al prossimo teste.»

«E sia.»

Si fece avanti un uomo massiccio, coi lineamenti arrotondati dalla mezza età, ma lo sguardo saldo come un mitra. Sedette nel recinto tra il presidente, il cancelliere, gli avvocati e i giudici popolari.

«Giovanni Burlando, ex comandante partigiano, nato a Levone in provincia di Torino il 13 aprile del 1922, professione meccanico, residente a Torino in via Perugia 19», lesse Carron Ceva facendo sobbalzare la pennellata di baffi bruni che gli colorava il labbro superiore, in corrispondenza delle narici.

«Sì», confermò Burlando. La sua voce era ruvida e cavernosa, come due pietre che strisciano una sull’altra.

«Signor Burlando, lei durante la Resistenza ha fatto parte dell’80a Brigata Garibaldi, prima come caposquadra e poi come comandante di brigata.»

«Esatto.»

«Ed ebbe mai alle sue dipendenze il Faletto, o meglio il Briga?»

«No, quella del Faletto era una banda di grassatori, non di partigiani.»

«Come ebbe modo di conoscerlo?»

Burlando strinse il grosso corpo nel cappotto che aveva deciso di non togliere. «A un certo punto cominciarono a piovere al mio Comando denunce contro costoro, contro questi malfattori. Nel giugno del ’44, quando la banda del Briga aveva assaltato a scopo di rapina una banca di Rivarolo, mi fu ordinato di catturare e fucilare Faletto e i suoi uomini. Li rintracciai nel bosco del Malone. Due erano giovani e li lasciai tornare alle loro case. Altri due si offersero di venire nella mia formazione. Non potevo accettarli ed essi si aggregarono a un’altra unità partigiana.»

«E come mai il Faletto non venne fucilato?»

«I miei uomini portarono con sé Briga, ma durante il trasferimento con uno stratagemma riuscì a fuggire.»

«Dopo la Liberazione ti incontrai!»

La voce era giunta da un lato della sala. Faletto si sporgeva oltre lo steccato, le nocche bianche, strette sul legno.

«Nessuno vi ha interpellato!» lo rimproverò il giudice Carron Ceva, con quel voi fascista che per disprezzo riservava solo a Briga.

«Dopo la Liberazione ti incontrai e ti dissi che se non fossi fuggito avresti ucciso un innocente!» continuò noncurante Faletto.

Burlando si avvitò sulla schiena e sparò le pupille contro Briga. Anche lui, come Faletto, aveva imparato a far paura con gli occhi.

«Non è vero, il discorso fu diverso, e fu molto breve. Io ti dissi: ‘Oggi non ho alcuna autorità per farlo, ma allora, se fossi rimasto nelle mie mani ti avrei fucilato senza alcuna esitazione’.» Si interruppe, accarezzò il viso con le mani dure. La vita non passa. Guardò Briga con odio. «E lo farei ancora.»

L'insolita morte di Erio Codecà
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