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«SÌ, Federico Umberto D’Amato era un personaggio celebre, anche tra noi carabinieri.»
«L’hai mai conosciuto personalmente?» chiese Dalmasso al suo amico Sergio Pastrengo, che sentiva, attraverso il ricevitore, ansioso di riconquistare la sua stima raccontandogli tutto ciò che sapeva.
«No, mai. Diciamo che però la sua reputazione era ben nota.»
«Che intendi dire?»
«D’Amato è stato forse il più importante dirigente della polizia dopo il fascismo. Guidò la squadra politica della Questura romana, poi andò a Firenze.»
«Una degradazione.»
«In quel periodo sembra che D’Amato avesse avuto un contrasto con il ministro Tambroni perché aveva fatto spiare quella che si diceva essere la sua amante: Sylva Koscina. E, lo sai, certe cose non si fanno. Però era una degradazione sino a un certo punto, perché a Firenze aveva la sede centrale l’Ufficio Vigilanza Stranieri che, di fatto, spiava anche il PCI a livello nazionale. Lo capisci da solo, era un ruolo strategico. Per importanza, Firenze veniva subito dopo Roma nell’organigramma del ministero. Dopo la caduta di Tambroni, D’Amato rientrò al Viminale presso la Divisione Affari Riservati, l’UAARR, di cui divenne dopo un po’ il responsabile.»
«E successivamente?»
«Fra i Sessanta e i Settanta, fu il principale organizzatore del coordinamento dei Servizi segreti delle polizie occidentali. Nel 1984 andò in pensione, ma rimase una figura temuta e rispettata.»
«Ovvero?»
«Ti faccio solo un esempio. Circa tre anni fa, nel maggio del 1996, le sinistre vinsero le elezioni e al ministero dell’Interno giunse Giorgio Napolitano. Un ex comunista a capo delle forze dell’ordine… non mi ci far pensare! D’Amato attestò pubblicamente che il nuovo ministro era persona pulita, avendolo spiato per oltre trent’anni. Un messaggio, diciamo. Napolitano ricambiò con una dichiarazione di pochi giorni dopo, nella quale assicurava di non essere arrivato al Viminale per ‘cercare scheletri nell’armadio’, ovvero: D’Amato, stai tranquillo.»
«Il ’96 è anche l’anno della morte di D’Amato, se non sbaglio.»
«Sì, morì poco dopo, all’inizio di agosto.»
«Uomo interessante.»
«E istrionico, aggiungerei», fece col suo tono monocorde Pastrengo. «Era un grande gourmet, pensa che pubblicò addirittura una guida gastronomica. Avrebbe potuto fare a gara con quella tua amica, quella napoletana.»
«Leonora è una nobildonna napoletana e, no, con tutto il rispetto, credo proprio che sia impareggiabile ai fornelli.»
«Le stranezze di D’Amato non finiscono qua», proseguì il vecchio generale dei carabinieri. «Un amico comune mi raccontò che D’Amato, in vecchiaia, si era messo a scrivere la sceneggiatura di un film, mai realizzato.»
«Di cosa trattava?»
«Raccontava la vita di una donna, una certa Madame Zeta, ed era ispirato alla storia di una bella slovena di cui D’Amato era molto amico.»
«Scommetto che di nome faceva Zorana.»
«Esatto, come fai a saperlo?»
«Ho continuamente di queste intuizioni.»
Come tutte le volte Pastrengo non colse l’ironia. «Ovviamente, Marcello. Sei un uomo di grande intuito, l’ho sempre pensato. Ti dicevo: questa Zorana era splendida e astutissima, e D’Amato se ne servì per un certo periodo per scopi dei quali francamente non so dirti nel dettaglio.»
Dalmasso, quegli scopi, li immaginava bene, ma non disse nulla.
«Nella sceneggiatura scrisse che Zorana aveva avuto una relazione con Picasso e che la CIA aveva provato a reclutarla per incastrare quell’imbrattatele comunista in qualche scandalo. La ragazza però non si era prestata.»
«Interessante», si limitò a osservare l’avvocato.
Siccome non proseguiva, Pastrengo riempì il silenzio con voce insicura. «Spero che queste informazioni possano in parte ripagarti del mio silenzio sul camerata Navale.»
«Ma certo, Sergio, certo.»
Dalmasso ripose la cornetta e pensò. Zorana aveva amato Reale. Tramite Reale aveva conosciuto Picasso e, allo stesso modo, l’aveva amato, al punto di rifiutarsi di metterlo nei guai.
Però Zorana era anche amica di Federico Umberto D’Amato, e per lui aveva svolto il ruolo di confidente. Deduzione ovvia: Zorana era nella posizione di passare a D’Amato informazioni su Reale e i suoi affari.
Un brivido gelido percorse la schiena dell’avvocato. Il suo ufficio si fece di colpo minuscolo, come se le pareti volessero stritolarlo. D’Amato sapeva dei traffici tra aziende italiane e Paesi dell’Est per tramite del PCI. Ovvero, i Servizi sapevano.
E nel contrabbando era coinvolto anche Codecà.
Sì, D’Amato, responsabile dell’UAARR, sapeva. D’Amato doveva sapere. Doveva sapere chi aveva ucciso Erio Codecà.