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E COSÌ l’avvocato Dalmasso poteva dire di avere una prima risposta: le indagini private della FIAT erano partite da una lettera anonima. 1952, molto prima dell’arresto di Faletto. Deduzione ovvia: prima di Giuseppe Faletto c’erano stati anche altri sospettati.

Sedeva alla scrivania, proprio in faccia al capolavoro di Albrecht Dürer, e per concentrarsi immaginava il respiro sereno e inconsapevole di Andrea. Le venti pagine giallastre del dossier di Argenti e Gandini odoravano di antico.

I due detective erano riusciti a identificare il misterioso Pepino della lettera. Dalmasso lesse le prime righe: Mercuri Giuseppe, detto Pepino, di Francesco e di Zappia Caterina, nato a Gerace Superiore (Reggio Calabria) il 20 gennaio 1904, coniugato e diviso da Nicoletta Angiolina residente in Argentina ove vi è stato pure il Mercuri che attualmente è residente e domiciliato a Torino. Gli investigatori non avevano certo risparmiato dettagli sulla vita privata di Giuseppe Mercuri. La fuga dalla Calabria per cercare lavoro in Argentina, il fallimento del matrimonio e il ritorno in Italia, a Torino; una vita di espedienti, un’occupazione diversa ogni sei mesi, i pochi soldi che svanivano in donne, nessuna dimora fissa, le porte delle case dei compagni di partito che si aprivano per offrire niente più che una brandina nel bagno.

Sì, a quanto scrivevano Costante Gandini e Filippo Argenti, Mercuri era comunista. Però non lo era da sempre. Fino al ’43 era stato un fervente fascista, poi era passato dall’altra parte della barricata durante la Resistenza entrando in una brigata comunista della Val di Lanzo, ed era addirittura diventato commissario politico della sua formazione. Pareva che fosse uno dei più inflessibili, tanto che aveva dato l’ordine di fucilare suo fratello e suo nipote perché fascisti. Dopo il 25 aprile aveva continuato l’attività politica. Comizi incendiari, mobilitazione nelle fabbriche, picchetti. Nel luglio del ’48, dopo l’attentato a Togliatti, aveva coordinato proprio i picchetti operai alla Lancia e alla FIAT.

In quel periodo era diventato, se non ricco, quantomeno benestante. Aveva aperto prima una bottiglieria e poi una falegnameria. Convinto da un amico, le aveva vendute entrambe per partecipare a un affare di commercio d’agrumi dalla Calabria a Torino, ma l’amico tanto amico non si era dimostrato ed era svanito coi suoi soldi. Di nuovo povero, Mercuri era riuscito a farsi assegnare un banco da panettiere al mercato di Porta Palazzo.

Dalmasso notò un cambio di marcia nella relazione sgrammaticata di Argenti e Gandini.

«Mercuri si riforniva di pane da un certo Osvaldo Palazzi, che aveva la bottega di fornaio a Cornigliano… Cornigliano… Ma certo!» esultò compostamente, tra sé e sé, l’avvocato. «Milano, Torino, Cornigliano: questi sono i tre luoghi da cui furono spedite le lettere della corrispondenza che mi ha portato in studio il figlio di Argenti. In quel periodo evidentemente Gandini e Argenti stavano prendendo contatto con Palazzi. Perché, però?»

Si immaginò i fatti, così come li leggeva sulle carte.

Il 20 agosto del ’52 i due investigatori arrivano alla panetteria di via San Giovanni d’Acei, a Cornigliano. Chiedono di Mercuri a Palazzi e quello vuole sapere perché; quando glielo spiegano, Palazzi commenta: «Me l’aspettavo». Conosce Mercuri. Ha cose da dire.

A quel punto il dossier raccontava il secondo tempo della storia. A Dalmasso parve quasi di vedere la scena.

Osvaldo Palazzi accetta di collaborare con Argenti e Gandini e si fa dare appuntamento a Torino. Parte da Genova, scende dal treno a Porta Nuova, Argenti e Gandini lo prelevano, lo caricano in macchina e lo portano all’Albergo dei Marmi, in via Corte d’Appello, il luogo scelto dallo stesso Palazzi. Durante il viaggio in macchina il panettiere chiede: «Ricercate Mercuri per furto o per l’affare Codecà?»

I detective capiscono che è ben disposto a parlare, e infatti nella hall dell’Albergo dei Marmi Osvaldo Palazzi non lesina sui dettagli.

«Siccome lo so che poi lo potete scoprire da soli, allora magari è meglio se ve lo dico, che così le cose sono chiare sin da subito», esordisce Palazzi. «C’ho avuto dei problemi in passato con la legge. Avevo pagato delle cose con un assegno di cinquecentomila lire che due partigiani avevano preso a un ufficiale tedesco. Negli ultimi tempi poi ho prestato dei soldi a della gente poco raccomandabile e adesso questi qua è difficile che me li ridanno indietro.»

«Sono affari tuoi, noi vogliamo sapere di Mercuri», dice Argenti coi suoi lineamenti bestiali induriti dall’attesa.

Gandini fa la parte di quello buono. «Osvaldo, raccontaci di Mercuri.»

«L’ho conosciuto nel ’48, eravamo amici, poi i rapporti ultimamente sono andati un po’ a ramengo perché non mi ha ancora restituito centomila lire che gli avevo prestato… Io ho fatto un errore, l’errore di non capire subito che tipo era. La verità è che è un comunista fanatico. Quando che c’era la Resistenza ha fatto ammazzare il fratello…»

«E il nipote, questo lo sappiamo già.»

«Ha fatto quei picchetti lì alle fabbriche quando che hanno sparato a Togliatti.»

«Pure questo lo sappiamo già», ringhia Argenti, sempre più minaccioso.

Ora anche Costante Gandini comincia a spazientirsi. «Palazzi, devi dirci quello che non sappiamo.»

Palazzi deglutisce, si guarda attorno, poi abbassa la voce, protende il busto in avanti chiudendosi in un anello invisibile coi due detective. «Ve l’ho detto che Mercuri è un fanatico… è pronto a tutto, è uno che può fare di quelle cose…» Lascia in sospeso i due uomini per alcuni secondi, poi prosegue: «C’è un ex capitano partigiano, un tale Mario, uno con una cicatrice sulla faccia. Mercuri gli obbedisce come un cane. Nel ’48 io avevo bottega qui a Torino e un giorno Mercuri mi ha chiesto se potevo tenere nel magazzino una cassa; era roba di Mario. Quando Mercuri è venuto a riprendersela, l’ha aperta davanti a me…»

«Cosa c’era dentro?»

«Armi. Un mitra, due sten, cinque pistole… una era una Saint Etienne a tamburo… tutta roba calibro 9.»

«Codecà è stato ammazzato da un proiettile calibro 9», dice Argenti osservando il viso concentrato di Gandini, che annuisce.

«E poi dentro c’erano pure delle bombe a mano, mica cose da scherzarci su, neh. Io gli ho chiesto al Mercuri a cos’è che servivano tutte quelle armi lì, e lui mi ha risposto soltanto: ‘A tante cose’.»

«Il delitto Codecà.»

Palazzi allaccia le mani in grembo, una preghiera tardiva. «Quello che so io è che Mercuri era povero in canna, con le pezze al culo, ma a un certo momento, dopo il delitto, è sparito per un po’ e poi è ritornato fuori a giugno tutto ripulito, coi debiti pagati. Tutti i debiti tranne il mio, ’sto figlio d’un cane.»

«Quindi ha preso dei soldi da qualcuno.»

«Io per me dico di sì. Lo hanno pagato per sparare a Codecà.»

Dalmasso massaggiò le palpebre, poi le tempie; un movimento lento e profondo, quasi volesse penetrare l’epidermide.

No, alcune cose non gli tornavano. Perché Palazzi non aveva parlato subito? Avrebbe potuto fare le sue rivelazioni già a Cornigliano, quando Argenti e Gandini erano andati a trovarlo per la prima volta. Perché aveva voluto aspettare? Perché aveva corso il rischio di tornare a Torino?

«Che fai?» disse la voce flebile che conosceva bene. Andrea.

Il ragazzo era in mezzo alla biblioteca, completamente nudo, le forme efebiche, la pelle d’alabastro. Stiracchiò le membra, come fossero le sette di mattina, e invece mancavano meno di due ore alla cena, soprattutto alla cena di Dalmasso, che come tutti i torinesi mangiava molto presto.

L’avvocato lo osservò perdendosi in un istante di autocompiacimento posterotico per aver posseduto ed essere stato posseduto da un corpo così desiderabile. Una capricciosa deviazione; non da lui, invero.

«Te ne ho parlato. Quell’indagine che sto facendo con i miei amici.»

«Ah, già», bofonchiò Andrea senza il minimo interesse.

Dalmasso espose il piano della successiva mezz’ora: «Fammi finire di leggere, poi ne parliamo, ci tengo a sentire la tua opinione».

Lo squillo del telefono mutò l’espressione delusa di Andrea in entusiasmo.

«È per me. Scusami, Marcello, ho dato il tuo numero a un compagno di corso dell’Accademia, spero non ti dispiaccia.»

Dalmasso non fece in tempo a controbattere, che già Andrea sedeva sulla poltrona rocchetto del XVII secolo con la cornetta all’orecchio.

Cercando di non ascoltare la conversazione, l’avvocato si isolò dal mondo esterno e riprese in mano le redini del ragionamento. I fatti erano abbastanza chiari: il 16 aprile del 1952 Codecà era stato ucciso; circa due mesi più tardi Valletta aveva ricevuto la lettera anonima; la FIAT aveva incaricato Costante Gandini e Filippo Argenti di indagare sul caso; tramite la lettera, Gandini e Argenti erano giunti a Mercuri; indagando su di lui avevano conosciuto Osvaldo Palazzi; Palazzi li aveva rimandati su Mercuri, confermando i loro sospetti.

«Sì… anch’io… tanto…» scandiva sommessamente la voce di Andrea.

Ripensò a tutte quelle pedine. Mercuri, Palazzi, Gandini, Argenti.

«Certo… sarei molto contento… adesso?… sì, nessun problema… faccio prima che posso…»

Continuare a pensare: Mercuri, Palazzi, Gandini, Argenti. Quel caso Codecà stava aprendo tante piccole finestre su vite miserabili, intrecciate, aggrovigliate tra loro come un grumo putrescente di vermi. Squarci in una tela che, sino a quel momento, celava solo un grande buio.

Quando si voltò, Andrea era vestito di tutto punto.

«Pensavo che avremmo mangiato insieme», si indispettì Dalmasso. Un sottile filamento di tristezza attraversava le sue parole.

«Oggi no, un’altra volta. Ciao, Marcello.»

«Dove vai?»

«Ciao», ripeté Andrea.

Uscì e lasciò solo Dalmasso. L’appartamento sembrò subito gelido.

L'insolita morte di Erio Codecà
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