42
DALMASSO aveva stretto amicizia con Giuseppe Averardi nei primissimi Sessanta, quando lui scriveva ancora per La Destra. Averardi era un ex transfuga del PCI, uno di quelli che avevano lasciato il partito dopo l’Ungheria. Ed era un grande amico di Eugenio Reale. All’epoca del loro primo incontro, Averardi dirigeva Corrispondenza socialista, in sostanza il foglio di coloro che dal PCI erano passati al PSDI.
Era da molto che non si sentivano, ma era sicuro che il vecchio parlamentare socialdemocratico lo avrebbe riconosciuto. Incastrò la cornetta nell’incavo del collo, così da avere le mani libere di accendere una Davidoff. Il suono del libero fece da inadeguato sottofondo allo spettacolo di Casa Galimberti, oltre la finestra.
Appena udito il suo nome, Averardi esplose in un caloroso: «Come stai, vecchio reazionario?»
«Discretamente, grazie. E cocciutamente sempre più reazionario. Non certo come te, che esci dal PCI per fermarti a mezza strada…» scherzò l’avvocato, mentre il fumo gli fuggiva dalle narici.
«E a cosa debbo il raro piacere di una tua telefonata?»
«Ti faccio notare che anche le tue telefonate sono state alquanto rare negli ultimi anni. Comunque… ti chiamo per parlare di un tuo amico che ormai non c’è più, Eugenio Reale. Gli sei stato molto vicino, mi pare.»
«Altroché! Ero uno dei collaboratori più stretti di Gegè.»
«Se quello che mi hanno detto alcuni amici è esatto, Reale dal 1951 non ricoprì più incarichi nel PCI e non fece politica attiva sino al 1956, quando si dimise dal partito e passò al PSDI.»
Averardi sospirò nel ricevitore. Lo stava costringendo a rivivere eventi molto lontani. «Apparentemente è così, ma solo apparentemente. In verità Reale non si era mai ritirato dalla politica attiva di partito. Fra il ’48 e il ’56, gli anni in cui sembrava essere rimasto tagliato fuori da tutto, aveva ricoperto un incarico della massima responsabilità e segretezza.»
«Ovvero?»
«È molto semplice, amico mio: trovare fonti autonome di finanziamento per il PCI. Senza di esse il partito non avrebbe retto la lunga guerra di posizione che lo attendeva e non avrebbe potuto emanciparsi dalla tutela sovietica. Niente fonti autonome, niente via italiana al socialismo.»
«Interessante, ma perché uscire dagli organi dirigenti?»
«Proprio a causa di quel suo delicatissimo ruolo. Il partito non doveva essere coinvolto.»
«Ti ha mai detto di che si trattava?»
«Mai esplicitamente. Me ne feci un’idea nel tempo, mettendo insieme singole frasi e informazioni che mi vennero non solo da Reale ma anche da altri compagni, come Spartaco Vannoni, il braccio destro di Gegè. Era un traffico di metalli strategici con i Paesi dell’Est, all’epoca sottoposti a embargo.»
«Come sei arrivato a scoprirlo?»
«Partendo da alcune lettere di Togliatti che Gegè mi mostrò. Ancora nel gennaio del ’56 il rapporto fra i due era cordialissimo. Si avverte un deterioramento solo nel luglio di quell’anno, quando, con una nuova lettera, Togliatti gli rifiuta un incontro.»
L’avvocato richiamò alla mente la Grande Storia; i fatti d’Ungheria risalivano all’ottobre del 1956. «Luglio… quindi ben prima della crisi ungherese che sarà il motivo ufficiale della rottura.»
«Certo. Come ti dicevo, Reale voleva parlare con Togliatti che, al contrario, non aveva alcuna intenzione di vederlo.»
«E Reale come reagì?»
«Malissimo, e lo si può ben capire, con quello che stava passando…»
«A cosa ti riferisci?»
«Nel marzo del ’56, la polizia tributaria di Milano aveva denunciato ventiquattro persone implicate in operazioni di contrabbando. Gli accusati si occupavano di smistamento di metalli come il cobalto e il nichelio, indispensabili per le leghe di acciaio speciale. Casi del genere erano già capitati in precedenza, ma quella volta tra i fermati c’erano un certo Norberto D’Alessandri e Spartaco Vannoni, il collaboratore di Reale di cui ti ho già detto. La polizia italiana era venuta in possesso dei quaderni privati di D’Alessandri, dai quali risultava che molte operazioni erano state organizzate dalla società Terbita. Indovina chi era l’unico azionista di questa società?»
«Eugenio Reale.»
«Esatto. Dalle indagini risultò che l’organizzazione aveva esportato oltrecortina tonnellate e tonnellate di cobalto, ottone, vanadio, molibdeno. Il valore delle esportazioni era di circa 1 miliardo e mezzo di lire del tempo.»
«Insomma, Reale e i suoi fungevano da intermediari in questi traffici.»
«La percentuale per i mediatori era l’1%, che diventava il 2% per i materiali che non passavano per l’Italia. E stiamo parlando di miliardi di lire del tempo che devi rivalutare nell’ordine, più o meno, di 1 a 25. Una percentuale che talvolta non finiva al partito. Pensa che il solo Spartaco Vannoni, in un modo o nell’altro, raggranellò abbastanza denaro da metter su un elegante albergo nel centro di Roma, l’Hotel Raphaël.»
«Raphaël? Il buen retiro romano di Craxi, quello del lancio delle monetine?»
«Proprio quello.»
«Chiariscimi un’altra curiosità. Un mio amico professore mi ha parlato dei fantasmatici taccuini di Reale, quelli che teneva da parte come arma di ricatto verso gli ex compagni. Esistevano davvero?»
«Come no, i taccuini sono esistiti davvero, Reale me li mostrò nel 1959 nella sua casa di via Mangili. Poi non so: nel 1962 furono trafugati. Ma, stranamente, Gegè appariva piuttosto tranquillo. Secondo me ne aveva delle copie al sicuro da qualche parte.»
«Torniamo al rapporto Reale-Togliatti che credo si sia tramutato da grande amore in odio furibondo: perché?»
«Be’, i grandi amori quando finiscono male diventano grandi odi. Il legame di Gegè con Togliatti era molto forte. Al suo fianco Reale svolgeva un ruolo politicamente straordinario. Poi, è vero, quell’amicizia divenne odio feroce. Gegè è sempre stato un uomo mansueto, perdeva le staffe solo quando si toccava il tasto Togliatti. Allora scopriva un carattere collerico, irascibile. Ricordo che spesso ripeteva questa frase: ‘Io sono più colpevole di tutti, perché più di tutti ho contribuito a mettere in piedi il termitaio comunista in Italia; la mia infatuazione per Togliatti è stata imperdonabile e assurda’.»
«Non c’è che dire. Parole forti per un uomo che era stato dirigente di primissimo livello del PCI.»
«Ho sempre pensato che non fosse un atteggiamento spiegabile solo sul piano della razionalità politica. Dopo quel luglio del ’56, Gegè cominciò a odiare il comunismo. Lo dimostra il fatto che non risparmiò accuse a La Malfa, Malagodi, Scelba, Saragat… per lui facevano il gioco del PCI.»
«E non stiamo parlando propriamente di bolscevichi», sorrise Dalmasso.
«Vedi, Marcello, c’era qualcosa di profondamente personale: Reale si sentiva tradito da Togliatti, che, ora che le cose si mettevano male, gli rifiutava anche solo un incontro.»
E così, ponderò Dalmasso, aveva avuto la giusta intuizione. Il mediatore del traffico era il PCI. L’aristocratico uomo di destra che era in lui non poté trattenere un fremito di soddisfazione.