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IL viceispettore Santino Cammareri saliva di corsa le scale del Palazzo di Giustizia, il respiro soffocato dal suo cronico raffreddore e le giunture cigolanti. Quasi inciampò nell’ultimo gradino e fu costretto a reggersi al corrimano.
«Mannaggia a Fìlice, mannaggia!»
Al secondo piano, come al solito, si perse nel dedalo di corridoi tutti uguali, sui quali sbucavano gli uffici dei magistrati in servizio. Qualche carabiniere passeggiava svogliato, intento più che altro, o almeno così parve al viceispettore, a studiare la fantasia geometrica delle mattonelle.
Dopo un quarto d’ora di peregrinazioni, finalmente Cammareri riuscì a scovare l’ufficio di Fìlice. Bussò delicatamente, temendo che dei colpi troppo decisi sarebbero stati interpretati da Fìlice come un attentato alla sua autorità, e gli sarebbero valsi una dose aggiuntiva di rimbrotti. L’ufficio però era vuoto.
Proseguì lungo il corridoio e svoltò l’angolo. Scorse Fìlice in lontananza. Vicino a lui c’era una ragazza carina, una giovane praticante di uno studio legale, abbracciata a una pila di fogli così voluminosa da piegarle le ginocchia.
«Ma certo, signorina! La cancelleria! Sarò ben lieto di accompagnarla, anche se, come immaginerà bene, sono oberato di lavoro», le diceva Fìlice con occhio lubrico.
«Grazie», mormorò la ragazza.
Si avviarono nella stessa direzione dalla quale stava arrivando Cammareri. Il viceispettore non poteva sentire il dialogo: Fìlice, adesso, parlava a bassa voce. La ragazza però non doveva essere molto entusiasta delle attenzioni del magistrato, perché, quando incrociarono Cammareri, quasi gli si gettò addosso.
«Mi scusi, dov’è la cancelleria?» chiese al viceispettore, nel disperato tentativo di liberarsi di Fìlice.
Cammareri dovette limitarsi a rispondere che non lo sapeva; un po’ perché non lo sapeva veramente, un po’ per non essere accusato dal magistrato di avergli, sebbene involontariamente, sottratto una preda così prelibata.
«Pazienza, la cercherò da sola», concluse la ragazza. Poi lanciò uno sguardo disgustato a Fìlice e fuggì via facendo ticchettare i tacchi sul pavimento.
«Cammareri! Lei è sempre inopportuno!»
«Mi scusi, dottor Fìlice… avrei portato il fascicolo Codecà…» farfugliò il viceispettore indicando il plico che stringeva tra le mani.
«E me ne rallegro, ma me lo porta adesso?! Lo aspettavo almeno un quarto d’ora fa!»
«È che questa mattina ho trovato la Panda bloccata dalle ganasce e ho dovuto prendere il treno regionale per venire da Milano… sa come sono i trasporti locali…»
«Ma santo cielo, Cammareri! Ma perché si ostina ad abitare a Milano se presta servizio al commissariato sul lago?»
Santino Cammareri inarcò le sopracciglia, afflitto. «Da quando ci siamo separati, mia moglie si è trasferita a Milano con i bambini e non me li vuole far vedere. Sono stato obbligato a trasferirmi anche io, così la mattina prima di venire a lavorare posso andare davanti alla scuola per vederli.»
«Ah, le mogli!» si lamentò Fìlice pensando ad Assunta, la sua informe consorte. Anche lui avrebbe smosso le montagne per il suo Adelmo. Per un attimo ebbe un moto di solidarietà verso Cammareri, poi si fece di nuovo severo e lo invitò a seguirlo in ufficio: «Bando alle ciance, Cammareri, venga!»
Sedette dietro la scrivania, decorata, qua e là, dai cerchi appiccicosi lasciati dalle tazzine di caffè.
«Mi dia, mi dia questo fascicolo», ordinò tendendo la mano verso Cammareri.
Il viceispettore gli consegnò l’incartamento e poi si mise in disparte. Fìlice aprì il faldone a caso e si mise a leggere.
«Il verbale del processo a Faletto… il comandante Burlando?! E chi diamine è?»