9

«SINIÒR Liborio, ma perché non ti pettini?»

Il professor Cannavacciuolo passò una mano tra i resti dei capelli, sconvolti come un paesello dopo un tifone. «Vesna, nun m’ scuccia’! Già li ho pettinati stamattina.»

«Siniòr Liborio…» mormorò Vesna col dito alzato in segno di rimprovero, «adesso sono sette di sera.»

«Sono le sette di sera. Voi russi gli articoli non ce li avete, ma visto che stiamo parlando in italiano, parla un italiano corretto!»

«Guarda, siniòr Liborio, che io non sono una di tuoi studiènti, quando lavoravi in scòla.»

«E io ti correggo lo stesso, pensa un po’! Quando insegnavo a Milano al prestigioso…»

«Liceo Berchet… ‘Liceo classico statale, e sottolineo statale, Giovanni Berchet’.»

«Eh sì, al Berchet! Quando insegnavo latino e greco, correggere era il mio mestiere, non è che adesso arrivi tu e mi…»

«‘Impedisci di rendere dritte le cose storte. Perché le cose dritte si sa dove vanno a finire, e il fine ultimo è importante nella vita di un uomo’», recitò ancora Vesna, ripercorrendo le frasi che aveva sentito centinaia di volte.

«Maronn’, comm’ me fai ’ncazza’ quann’ mi fernisc’ chillo che sto dicenn’!»

Poi il professor Cannavacciuolo guardò la ragazza benevolmente. Vesna gli sorrise e dispose il braccio sul fianco, come una P. Il professore ci si aggrappò. Controllò che la gardenia che aveva appena reciso dal vaso sul balcone fosse ben infilata nell’occhiello. La mano destra si avvinghiò al pomello del bastone di legno che suo padre aveva intagliato per lui ormai quasi cinquant’anni prima.

«Andiamo, ché Leonora ci sta aspettando. Le fotocopie le hai prese?»

«Sì, ho prese», assentì Vesna agitando una busta che traboccava di fogli di carta. «Iàmm, siniòr Liborio.»

Percorsero con difficoltà l’impervio corridoio, un tunnel stretto e lastricato di volumi. Pile di libri fiorivano anche dal pavimento. Raggiunsero avventurosamente la porta e uscirono di casa.

La villa di Leonora non era molto distante. Tutti i passanti che affollavano il lungolago si voltavano a guardare Vesna. Il che era, prima che comprensibile, umano: Vesna Korciaghinova era bellissima.

Trent’anni, un metro e ottanta di pelle candida che esplodeva, sulla cima, in una fontana di capelli biondissimi, labbra di rubino, lineamenti esili e movenze sinuose. Le gambe guizzavano dalla minigonna, e Vesna camminava come se volesse infiggere i lunghissimi tacchi nel cemento. Di fianco a lei il professore sembrava un nano da circo sovrappeso. Per le occasioni ufficiali, al contrario di quanto faceva nella vita di tutti i giorni, Vesna si vestiva in maniera un po’ discinta, aggettivo che talvolta il professore, nei suoi dies irae, sostituiva con termini ben più coloriti. Che fosse laureata in ingegneria a pieni voti pochi potevano immaginarlo. Nessuno invece, tranne Cannavacciuolo, immaginava quali dolori l’avessero portata via dalla Russia. Dolori che a volte le stendevano un velo di tristezza sul volto, ed era in quei momenti che Vesna metteva un cancello tra sé e il resto del mondo.

Il professore le voleva molto bene.

Quando furono alle viste della villa di Leonora, gli occhi di Vesna si fecero d’improvviso due spilli.

«Ma quello è dottore Villa?»

Cannavacciuolo scorse il vecchio amico scendere dalla sua Alfa 8C da corsa insieme a una bella signora sulla quarantina. Un bacio fugace sulle labbra, poi la signora montò su una monovolume e sgusciò via. Villa si guardava attorno con fare circospetto, come se si aspettasse di essere aggredito da un momento all’altro.

«Ma quella non è mòlie di dottore.»

«Vesna, fatti i fatti tuoi.»

«Ma siniòra Villa non…»

«Ve’, statte zitt’!»

«Ma tu dici sempre che siniòr Villa è fedele.»

«Come no?! Villa è fedele, fedelissimo… al genere femminile nel suo complesso. Giuro che non si è mai fatto un uomo!»

«Ma…»

«Ve’, tu nun e’ vist’ niente, vabbuo’? E mò fai silenzio.»

Cannavacciuolo abbracciò il dottore. «Ciao, Villa.»

«Ciao, Liborio!» esclamò Villa stirando le mascelle perfettamente rase. Poi salutò educatamente anche Vesna con un sorriso accecante. «Come stai?» chiese al professore.

«Come un signore di settantaquattro anni, mezzo infermo, di discreta cultura, che ha alle spalle più fallimenti che successi.»

«Eddài Liborio, neanche ci siamo salutati che tu già mi scivoli nel melodramma», lo redarguì comprensivo Fausto Villa, mentre un sorriso triste occupava il viso del professore. Poi cambiò discorso: «Il libro di Enrico l’hai ricevuto?»

«Sì, certo. Questa mattina con Vesna siamo anche stati all’emeroteca per fotocopiare qualche articolo sul caso Codecà», spiegò il professore facendo segno alla borsa che Vesna stringeva al fianco.

«Spero che non ci metteremo subito a parlare delle indagini.»

Il professore sventolò le mani per aria, come a dire ‘ma ti pare’. «Di morti si parla dopo il dessert!» sentenziò.

Sopra al cancello d’ingresso della villa campeggiava una scritta: MUSEO ARCHEOLOGICO FONDAZIONE «SAVERIO GENTILESCHI MIGNANELLI». La ruggine cominciava a mangiarsi le lettere; Leonora non poteva permettersi la manutenzione.

Cannavacciuolo conservava un ricordo limpido di Saverio, suo vecchio amico. Rammentava il momento esatto in cui lo aveva presentato a Leonora, a Napoli, negli anni Quaranta, un paio di vite addietro.

Si incamminarono tutti e tre lungo il vialetto di ghiaia. Entrarono nell’edificio, superarono la biglietteria e il cartello con la freccia che diceva: MOSTRA/EXHIBITION. Proseguirono in direzione opposta, verso l’ala della villa che Leonora aveva tenuto per sé e Caterina, la ragazza che in cambio di vitto e alloggio la aiutava nella gestione della casa, del museo e della fondazione. Superarono una grande porta di mogano e percorsero un corridoio alle cui pareti spiccavano fotografie di Leonora e Saverio nei luoghi più impensabili della Terra, dallo Yucatan alla Siberia; mancava solo uno scatto dal leggendario continente di Mu.

Sbucarono direttamente nella sala da pranzo. Leonora, fasciata da un sobrio tailleur, guardava al di là dell’interminabile parete vetrata, a picco sull’acqua. L’autunno faceva rosseggiare le montagne, che si riflettevano nel lago incendiandolo di cento sfumature.

Donna Leonora Lopez de’ Fonseca si volse verso i nuovi entrati e li salutò con un gesto teatrale della mano. Baciò tutti, anche Vesna, poi li invitò ad accomodarsi.

Fìlice e Dalmasso erano già arrivati; sedevano in poltrona coll’aperitivo in mano. Il magistrato abbandonò subito il bicchiere e, avvolto da una nuvola spessa di profumo, si precipitò da Vesna per uno dei suoi «baciamano risucchiati», come li chiamava il professor Cannavacciuolo.

«Signorina Vesna, che piacere! La trovo in ottima forma e me ne rallegro!»

«Grazie, siniòr Fìlice», mormorò Vesna, pulendosi di nascosto il dorso della mano.

Fìlice tornò al proprio posto, soddisfatto. Sedette senza smettere di occhieggiare Vesna, col sorriso largo sotto i baffetti, e il palmo che lucidava la cravatta sulla quale compariva il cranio di un magnifico baio. Il magistrato aveva una grande passione per le cravatte con teste di cavallo, le considerava molto chic. Ne possedeva una collezione intera. Una scuderia.

Al suo cospetto, l’eleganza autentica dell’avvocato Dalmasso risaltava ancor di più. Pur sapendo che avevano frequentato lo stesso corso universitario al tempo degli studi, non si riusciva a capire come due uomini così diversi potessero essere tanto amici. Dalmasso, più che un vestito, indossava la propria raffinatezza. Il solo gesto della mano che ravviava i morbidi capelli valeva più di un intero guardaroba.

Nel frattempo Leonora si stava lamentando col professor Cannavacciuolo, il polso sulla fronte, come a puntellare la stanchezza: «Libbo’, che t’aggia dicere… Oggi Caterina è uscita con gli amici e ho dovuto cucinare da sola. Sto devastata, sto!»

«Leono’, e speriamo perlomeno di evitare la lavanda gastrica», disse Cannavacciuolo calcando il suo accento popolano.

Subito il naso adunco di Leonora ebbe un sussulto. L’impalcatura verticale che reggeva l’acconciatura ondeggiò. «Libbo’, e se non ti piace…» Poi cambiò tono davanti alla risata del professore. «Ma vattinne và!» disse spingendolo dolcemente.

Donna Leonora aveva l’abitudine di annunciare i suoi piatti con brani di musica prevalentemente classica; una piccola mania. E infatti la Sonata pro tabula di Heinrich Ignaz Biber servì a radunare attorno alla tavola i commensali, come gli adepti di un rito misterico. Fu poi il «Mattino» dal Peer Gynt di Grieg a precedere i crostini al burro, acciuga e polpa d’arancia, accompagnati da un Sauvignon La Foa del ’96, molto freddo.

«Sublimi!»

«Meravigliosi!»

«Vabbuo’, sì… diciamo buoni», scherzò Cannavacciuolo, mentre con le mani curava di non farsi scappare l’ultima tartina.

Il Valzer dei fiori di Čajkovskij accompagnò il risotto primavera, un trionfo di riso e verdure variopinte, corroborato da un fresco Anthilia Donna fugata del ’97. Toccò quindi alla «Graduation Walking March» da Pump and Circumstance di Edgar Elgar precedere con solennità il salmone in umido in salsa imperiale, servito con un Pinot grigio strutturato del ’95. Infine fu l’intimo tormento della Valse triste di Sibelius a preparare animi e palati alle note struggenti della mousse di castagne di donna Leonora, che si sposava coll’aroma del Muffato della Sala.

Cannavacciuolo guardò con cupidigia quello spettacolo tempestato di polvere di nocciole. Pareva chiamarlo, come una sirena. Il colpo sulla mano gli arrivò secco.

«No, siniòr Liborio. Tu non puoi!»

«Che dici, Ve’?!»

«Per te ho portato da casa a posta. Questo puoi mangiare», disse la ragazza mettendogli sotto al naso un insipido budino con dolcificante.

Il professore incrociò le braccia. «Ah sì? E allora io sciopero!»

«Liborio, cerca di capire», intervenne Villa, «Vesna ha ragione. Non puoi semp…»

«Silenzio, traditore!»

«Ma Liborio, credimi…»

«Collaborazionista!»

«Siniòr Liborio…»

«Sciopero! Sciopero generale!»

Donna Leonora sbuffò divertita. «Libbo’, ma che stai facenn’?»

«Leono’, non prestarti a questa violazione dei diritti! Se vi mangiate la mousse in faccia a me è un’ingiustizia sociale, ecco cos’è!»

«Libbo’, e nun fa’ a criatura!»

«Leono’, questo è uno dei tuoi migliori dessert. Non potete escludermi!»

«Uno dei migliori? E allora finalmente un complimento me lo fai!»

«In certe cose sono parsimonioso.»

«Dicimm’ ca’ssi proprio tirchio, Libbo’!»

Risero tutti, Cannavacciuolo con meno convinzione: le faccende di cibo le prendeva molto seriamente.

Terminato il dolce, e sopitesi le proteste del professor Cannavacciuolo, gli amici si trasferirono in salotto, il grande locale rivestito da scaffali stracolmi di tomi. Diversi erano gli «aldini» del XVI secolo. Leonora era riuscita a impossessarsene grazie all’interessamento di Enrico Turati, il libraio, col quale poi aveva stretto una profonda amicizia, come tutti i suoi ospiti del resto.

Qua e là, sui lembi di parete libera, l’intonaco più chiaro disegnava i fantasmi squadrati dei dipinti che Leonora aveva dovuto vendere nei momenti di più grave ristrettezza economica.

Si distribuirono in ordine sparso sull’arcipelago di divani che circondava un minuscolo tavolino di cristallo. Fìlice cercò un posto adeguato dal quale poter ammirare in santa pace le cosce accavallate di Vesna.

«Allora», esordì donna Leonora con la sua voce squillante, «il libro che ci ha mandato Enrico l’avete letto tutti, credo. Vi siete fatti un’idea di questo delitto Codecà?»

«Be’, direi di procedere scientificamente. Partiamo dalla dinamica dell’omicidio», fece il dottor Villa.

Cannavacciuolo si schiarì la voce, poi attaccò a parlare: «Mi sembra che le cose siano abbastanza chiare a questo riguardo, Villa. L’ingegnere uscì di casa dopo cena, verso le nove e un quarto, per portare a spasso il cane e fu freddato alle spalle».

«Da dove era arrivato l’assassino?» mormorò Fìlice trasognato, colle orecchie alla discussione e gli occhi devoti solo a Vesna.

«La cosa più verosimile è che si sia nascosto nel 26/bis, il palazzo diroccato a fianco della villetta di Codecà. Alcuni testimoni dichiararono di averne trovato il cancello semiaperto, mentre invece di solito era chiuso.»

L’avvocato Dalmasso trasse dalla tasca interna della giacca il preziosissimo portasigarette d’avorio intarsiato in stile Liberty. Prese una Davidoff nuda e candida e l’accese. Espirò silenziosamente il fumo verso l’alto. «L’ingegnere fu ucciso da un solo colpo, un calibro 9…»

«È calibro grosso», osservò Vesna, che non aveva timore di inserirsi nella discussione, di tanto in tanto, anche se non faceva esattamente parte del gruppo.

L’avvocato non amava essere interrotto; represse la stizza. «Sì, infatti una delle ipotesi fu che il colpo fosse partito da un fucile sten, un’arma da guerra.»

«Ecco, Marcello, io però stavo pensando una cosa…» Leonora aveva aggrottato le sopracciglia. Leonora poteva interromperlo. «Ma non è un po’ poco uno sparo solo?»

«Cioè?»

«Ma insomma, se qualcuno vuole essere sicuro di uccidere una persona spara un colpo solo? Io ne sparerei quattro o cinque.»

«Femmine dal grilletto facile, voi giacobine del Vomero», scherzò Cannavacciuolo.

Donna Leonora rise: «Libbo’, generazione di ferro!»

«Può essere che l’arma si fosse inceppata», disse l’avvocato.

Guardarono tutti il dottor Villa accavallare le gambe e distendere i lombi contro lo schienale. Il suo corpo massiccio e tonico li dominava, ma di un dominio discreto e liberale, che sapeva non imporre se stesso. Inspirò prima di parlare. «Leonora, ti assicuro che uno sparo di quel calibro fu più che sufficiente.»

«Ah sì?»

«Ma certo. In un primo momento i giornali scrissero che Codecà era stato freddato con un colpo alla nuca. In realtà la ferita alla testa era conseguenza della caduta a terra. Il proiettile era entrato dal fianco destro, con un’inclinazione dal basso verso l’alto. Capite bene che, seguendo quella traiettoria, aveva perforato fegato, polmoni e cuore. Non c’era possibilità che l’ingegnere sopravvivesse. Se volete la mia opinione, chi sparò sapeva benissimo come si uccide un uomo.»

Fìlice finalmente sembrava essersi fatto un po’ più attento. «Quindi, Fausto, mi pare di capire che escluderesti l’omicidio a scopo di rapina. Lo dico grazie alla mia pluriennale esperienza di inquirente: i ladri non sanno sparare.»

«Allora anche i rapinatori non sparano, io pensavo che fossero solo i ricattatori a non sparare», commentò sorridente il dottore.

Francesco Fìlice rispose al sorriso senza aver capito, poi guardò Dalmasso in cerca d’aiuto.

«Blackmailers don’t shoot… ma lasciamo stare Chandler, dottore, sai che io preferisco Simenon. Certo, escluderei senz’altro l’omicidio a scopo di rapina, tanto più che l’ingegnere aveva in tasca circa trentamila lire, alcune banconote di franchi francesi e svizzeri, un assegno da duecento franchi, sempre svizzeri, e qualche sterlina…»

«Scusi, avvocàtto, ma questo non è tanto soldi per quel tempo?» chiese Vesna.

«Certo», fece Dalmasso freddamente, «e dal momento che l’assassino non toccò quei denari, stiamo perlappunto eliminando l’ipotesi dell’omicidio a scopo di rapina, signorina Vesna.»

Vesna tacque e sembrò quasi scomparire nell’imbottitura del divano, dietro alla sagoma molliccia del professor Cannavacciuolo, che riprese subito il discorso per riempire il silenzio d’improvviso calato: «Pensate che Codecà dovesse incontrare qualcuno?»

«Lo escluderei. Era uscito di casa senza avvisare la domestica, segno che probabilmente non doveva restare fuori a lungo», notò il dottor Villa.

Cannavacciuolo si grattò il cranio spelacchiato. «Sì, è vero, e d’altra parte non abbiamo molti elementi in più. Non emerse alcun testimone che avesse visto qualcosa di determinante.»

Leonora convenne con l’amico: «Già. Qualcuno vide un uomo con una borsa grande abbastanza da contenere un fucile fuggire lungo via Villa della Regina, verso la collina…»

«Verso quella che ai miei tempi si chiamava piazza Motta e che oggi ha un nome diverso», disse Dalmasso, con la sua voce scura.

«Però l’uomo era troppo lontano e non se ne potevano distinguere i lineamenti. Altri testimoni videro anche un furgoncino rosso passare per la via subito dopo lo sparo e pensarono potesse essere un complice dell’assassino. Dopo qualche indagine si scoprì che era guidato da tale padre Cravedi, un frate che passava di lì per caso.»

Le guance flosce di Cannavacciuolo furono aperte da un sorriso. «E ovviamente la Curia si interessò affinché il frate uscisse subito dall’elenco dei testimoni…»

«Ma insomma, Liborio!» sbottò Fìlice. «Possibile che tu abbia mantenuto questo anticlericalismo ancora ai giorni nostri? Anche davanti all’esempio di quest’uomo straordinario che abbiamo come papa! Immagino che a te non piaccia perché viene da un Paese da dove non dovrebbe venire, diciamo le cose come stanno!» E poi concluse, guardando in alto, incantato: «Ah, Karol, che grande uomo!»

«Assolutamente no, io ho molta stima di papa Giovanni Paolo II.»

«Me ne rallegro», fischiò sospettoso Fìlice, subodorando, non a torto in verità, una colossale presa in giro.

Leonora si alzò e andò a versarsi un mezzo bicchiere di cognac. Si rivolse agli ospiti: «Vediamo un po’ di ricapitolare cos’aveva fatto l’ingegner Codecà nei giorni precedenti».

Fu il dottor Villa a esporsi per primo: «Era stato in vacanza a Rapallo, ed era rientrato a Torino il giorno prima di essere ucciso, lasciando in villeggiatura la moglie e la figlia. Durante il viaggio di ritorno aveva dato un passaggio a un uomo fino a Genova, e poi la macchina gli si era bloccata».

«Sì, ma credo che questi due elementi non ci portino da nessuna parte, Villa. Stando a quanto ho potuto leggere sui giornali, l’autostoppista era una rispettabilissima persona ben conosciuta a Rapallo, e il guasto non mi sembra degno di nota», disse Cannavacciuolo.

Leonora annuì. Ogni tanto, quasi per passatempo, annusava il balloon di cognac. «Be’, però mi pare di aver capito che la pista ligure fu seguita con attenzione, per un certo periodo.»

L’avvocato Dalmasso spense la sigaretta in un portacenere di ottone. «Sì, ma si sgonfiò quasi subito. Nei giorni precedenti l’omicidio due sospetti dall’accento ligure erano stati visti attorno alla villetta di Codecà. Dal tabaccaio in fondo alla via avevano comprato i francobolli per alcune cartoline che poi avevano spedito a Genova. Ora: mi sembra inverosimile che due killer, mentre eseguono dei sopralluoghi per un delitto, si dilettino nell’inviare cartoline e nel far mostra di sé in maniera così maldestra.»

«Inverosimilissimo!» confermò Fìlice per dar manforte all’amico. «Ce lo dice l’esperienza! Il criminale si comporta da criminale, è una delle grandi regole investigative. Lo dico sempre anche al mio Adelmo.»

Cannavacciuolo: «Di certo le indagini non furono aiutate dai trenta milioni di taglia sull’assassino che furono messi a disposizione dalla FIAT, dall’Unione Industriali e dalla Federazione Italiana Dirigenti d’Azienda. Furono in molti a denunciare persone che non c’entravano niente solo per poter fare qualche soldo».

«E inoltre tutto si svolse in un clima politico arroventato», fece Villa incrociando seriosamente le braccia sul petto. «Ne abbiamo parlato l’altro giorno, con Liborio. La Guerra Fredda, la repressione delle sinistre nelle fabbriche, i timori della Democrazia Cristiana di una rivoluzione. Io nel ’52 avevo solo quattro anni e non me lo ricordo, però mi sono fatto grossomodo un’idea.»

«È una maniera elegante per dirci che siamo vecchi?» gli chiese divertita Leonora.

«Ma Leonora! Se anche fosse, la cosa non ti riguarderebbe.»

«Fausto, come al solito sei troppo galante», si schermì Leonora. «Comunque sì, hai ragione, quelli erano anni di grandi passioni politiche.» Si volse a osservare il capo del professor Cannavacciuolo che oscillava e confermava.

«Be’, se il contesto era così turbolento, si capisce anche perché il delitto finì coll’essere strumentalizzato dalla politica. Un dirigente d’azienda assassinato, le lotte sindacali nelle fabbriche, gli scioperi, la Guerra Fredda…» disse il dottor Villa accendendo meticolosamente uno dei suoi sigari cubani speciali. Se li faceva mandare dalla Svizzera e li conservava in una teca umidificata che si era fatto costruire su misura, e a cui aveva dato anche un nome: la Magna Mater.

Alla prima tirata, non appena le braci del sigaro si illuminarono, senza nemmeno aspettare la richiesta di Fausto, Leonora raggiunse il mobiletto del bar. Conoscendo i gusti di Villa, aprì una bottiglia di rhum martinicano René Clément, rigorosamente agricole (ça va sans dire). Al dottor Villa piaceva sorseggiarlo, con una fettina d’arancia e una foglia di menta, mentre fumava il sigaro. Uno dei tanti piaceri a cui da vero gaudente non voleva rinunciare. Il rhum industriale era, parole sue, un barbaro attentato alla civiltà.

«Sempre deliziosa, Leonora», ringraziò il dottore con la mano protesa ad afferrare il bicchiere.

Fìlice riprese le redini del discorso con piglio maccartista: «Ma quali strumentalizzazioni d’Egitto, Fausto! Sui muri delle fabbriche comparvero alcune scritte inneggianti all’assassinio. Qui c’è poco da strumentalizzare, basta la semplice constatazione».

«Be’, Fìlice, la constatazione semplice spesso è solo una semplificazione», ribatté Cannavacciuolo, le dita placidamente allacciate sul grosso ventre. «Ma sei in buona compagnia. Lo stesso errore che fai tu, lo fecero allora anche gli inquirenti. Il capo dell’ufficio politico della Questura di Torino parlò chiaro sin da subito: il Partito Comunista era responsabile dell’omicidio.»

«Siniòr Liborio, c’è anche quel foglio…» fece Vesna, rovistando nella borsa in cui aveva messo le fotocopie degli articoli di giornale.

«Ah sì, dài qua!» Il professore inforcò gli occhiali e cercò di riassumere agli amici ciò che leggeva. «Qui c’è una nota stampa dell’agenzia Italia, che all’epoca era la voce ufficiosa del governo, e quindi della Democrazia Cristiana. Si dice chiaramente che il delitto Codecà seguiva una campagna denigratoria della stampa di sinistra nei confronti dei dirigenti della FIAT, che aveva un significato politico, e che era stato compiuto da individui esperti e dotati di vasti appoggi, tanto che probabilmente erano già scappati all’estero.»

«All’estero?! E dove?» domandò Leonora.

«È chiaro che si sottintende in un Paese dell’Europa dell’Est.»

«Di quando sono queste note?»

Cannavacciuolo strizzò gli occhi per leggere la data. «21 aprile 1952.»

«Quindi solo cinque giorni dopo l’omicidio.»

«Mi paiono osservazioni un po’ azzardate, dal momento che si era ancora alle prime fasi delle indagini», notò Leonora.

Fìlice montò ancora sugli scudi. «Ce l’ha detto il dottor Villa che l’omicida era senz’altro un professionista, e la nota non fa che confermarlo!»

«Ho capito, Fìlice, ma scusa una cosa… Secondo te solo i comunisti sanno come ammazzare la gente, con tanto di via di fuga per scapparsene oltrecortina?!» tuonò Cannavacciuolo.

«Be’, alla violenza si sono allenati a lungo, questo è certo! Parla la Storia! LA-STO-RIA!»

«Seee, l’Astoria, camera con vista mare… E poi contro la tesi del movente politico ci sono le dichiarazioni di Palmucci.»

«Palmucci chi?» domandò il dottor Villa in uno sbuffo di sigaro.

«Sergio Palmucci, un collega di Codecà.»

«E cosa disse?»

«Dichiarò pubblicamente che Codecà non si era mai occupato di licenziamenti o di problemi che potevano creare dissapori coi lavoratori. Se l’avessero incontrato per strada, molti operai Codecà non l’avrebbero nemmeno riconosciuto. Era Palmucci che seguiva quelle questioni. Lui sarebbe stato un bersaglio senz’altro più adatto.»

«Ma questo non ridimensiona minimamente…»

Dalmasso poggiò una mano sull’avambraccio di Fìlice, che tacque immediatamente. «Mettiamola così: forse la pista dell’omicidio da sinistra fu imboccata con troppa enfasi, ma non la si può nemmeno escludere a priori», chiosò.

Nello squarcio di silenzio che si era aperto, si inserì la voce dolce di donna Leonora Lopez de’ Fonseca. Rigirava tra le mani il suo cognac quasi intatto, studiava i riflessi ambrati barbagliare sul fondo del bicchiere. Parlò con tristezza e nostalgia, allo stesso tempo.

«Che anni difficili…»

L'insolita morte di Erio Codecà
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