Buck dei lupi
La prestigiosa collana Einaudi «Scrittori tradotti da scrittori» è arrivata al suo diciannovesimo numero con un dono inatteso: la ripresentazione del Richiamo della foresta di Jack London, nella bella e rigorosa traduzione di Gianni Celati. Il libro è notissimo, e proprio per questo riserba molte sorprese per il lettore, o meglio per il ri-lettore, a qualunque generazione egli appartenga. Un libro conosciuto viene letto in un modo diverso dal libro nuovo: si sa già «come va a finire», e perciò si è piú critici sulle sue vicende e piú attenti ai particolari.
Salta subito agli occhi la sua autenticità. Il très curieux London, scrittore a lungo ritenuto marginale, popolare, cane sciolto insomma rispetto alla illustre tradizione letteraria americana, ha attinto dalla sua breve avventura di cercatore d’oro in Alaska una favolosa mole di esperienze da raccontare, ed è un narratore di prima grandezza. Nulla di quanto dice sa di risaputo, di scritto al tavolino attingendo ad altri libri o alla meditazione. Il mondo selvaggio in cui si è trovato immerso si travasa nei suoi libri migliori con la prepotenza immediata delle cose vissute: qui non c’è Verne, non Salgari, bensí un uomo che ha combattuto fino all’estremo la lotta per la vita e per la sopravvivenza, e ne ha tratto ragione di scrivere.
Con felice intuizione, ha travasato questa sua esperienza in un cane, e credo che di questo cane non esistano rivali nella letteratura mondiale, appunto perché non è un cane letterario. Buck, cane benestante, padrone a casa sua in una splendida tenuta californiana, è canino e umano a un tempo, come lo sono tutti i cani che il destino, o i loro padroni, hanno trattato non troppo male né troppo bene. Emana dignità e rispettabilità: piú che un sottomesso del giudice Miller, è un suo pari, un compagno; ha una conoscenza istintiva dei suoi diritti e dei suoi doveri. Ma alla svolta del secolo, al tempo della febbre dell’oro, tutti i cani robusti sono minacciati: hanno un valore commerciale inaudito, possono essere rubati, commerciati, e scagliati lassú, dove non valgono piú le leggi civili ma la legge del bastone e delle zanne. Diverranno cani da slitta o periranno.
Buck, grazie al suo vigore fisico e morale, supera la prima prova, quella della deportazione, un viaggio interminabile in ferrovia e poi su un battello, e giunge in un paese ostile e nuovo: non il sole della California, ma la neve al suolo e nell’aria. Viene domato: impara che l’uomo munito di bastone è invincibile. La sua dignità non è spenta ma si trasmuta: impara che deve adattarsi, imparare cose nuove e terribili. Che deve guardarsi da tutti, ma in specie dai suoi compagni, cani da slitta già esperti: se non è rapido quanto loro, la sua razione quotidiana gli verrà istantaneamente rubata. Che a notte il fuoco e la tenda non sono per lui: deve imparare, e impara, a scavarsi una buca nella neve, dove il suo calore animale gli permetterà di sopportare il gelo artico.
Deve imparare il lavoro, e qui London trova toni e notazioni magistrali. Ognuno di questi cani di cento razze diverse, aggiogati ogni giorno alla slitta, ha una sua personalità, sorprendentemente credibile. Etologo ante litteram, London ha penetrato la psicologia canina con una profondità tutta moderna. Rivali fra loro e insieme gregari, i cani da traino «eleggono» un capo, il capomuta, il cane di testa dell’equipaggio. Dev’essere il piú forte, ma anche il piú esperto: il lavoro del traino è un lavoro che dev’essere accettato, e Spitz, il cane-capo, forza e accelera l’accettazione. Punisce chi intralcia il lavoro, morde i ritardatari, placa le risse con la sua indiscussa autorità.
Buck capisce, impara ma non accetta l’autorità di Spitz: sente in sé, accanto alla perpetua fame di cibo, la fame del primato. Accetta invece il traino: «Sebbene il lavoro fosse pesante, s’accorse che non gli dispiaceva troppo. Era sorpreso poi dall’ardore che animava tutta la muta, e che veniva comunicato anche a lui». È il lavoro come ultimo rifugio e come alternativa al servaggio: come non ricordare la Giornata di Ivan Denisovič di Solženicyn, e quel muro che i prigionieri costruiscono volentieri, lottando col gelo di un’altra Artide? Dave e Solleks, vecchi cani da traino, sono passivi e indifferenti nelle brevi ore di riposo, ma quando vengono aggiogati alla slitta diventano «scattanti e impegnati, desiderosi che il lavoro procedesse bene, e fortemente irritabili se qualcosa lo ostacolava o ritardava. Si sarebbe detto che quel travaglio tra le tirelle della slitta rappresentasse la massima espressione del loro essere, che essi vivessero solo per questo e che, solo in questo, trovassero soddisfazione». Il lavoro è una intossicazione: ai cani «si spezza il cuore quando ne vengono esclusi». C’è qui in germe l’intuizione della patologia umana del pensionamento precoce.
Buck è diverso: sente nascere in sé «la primitiva bestia dominatrice», provoca subdolamente il capomuta, stimola l’indisciplina, finché si giunge alla sfida aperta. È la pagina maestra del breve libro, e la piú cruda: in una notte gelida, attorniati dalla muta famelica ma neutrale, Spitz e Buck si affrontano, e Buck ha la meglio grazie alla sua astuzia di combattente; il vinto è divorato sul posto dai suoi ex sottoposti. Il mattino seguente Buck si impone ai padroni umani: lui ha ucciso il capomuta, lui è il nuovo capomuta. Sarà un capo (un Kapo?) ancora piú efficiente di Spitz, piú bravo a mantenere l’ordine e a spiare le insidie della pista.
Poi la muta cambia padroni, e a primavera, quando il ghiaccio è piú malfido, finisce in mano a tre inesperti. Fame, fatica, frustate: la dignità di Buck si ribella, il cane si ammutina, «sa» a chi si deve obbedire e a chi no. Sottoposto a una bastonatura mortale, viene salvato da Thornton, il pioniere buono, e a lui si affeziona di un amore totale, esclusivo, quello di cui solo i cani sono capaci: e proprio qui, a mio parere, il libro si indebolisce. C’è eccesso in questa devozione: dov’è finita la «bestia dominatrice»?
Né convincono le altre pagine in cui si infiltrano reminiscenze darwiniane mal digerite. Thornton muore, trafitto da frecce indiane, e Buck, sciolto l’ultimo legame con la civiltà degli uomini, porge orecchio al richiamo della foresta, cioè all’ululato dei lupi: sente in sé, evoluzionisticamente, sangue di lupo. A dispetto del suo cosí diverso curriculum si avvicina al branco, fino a farne parte, anzi, a diventarne il capo. La California, la slitta, Thornton sono dimenticati, e la storia di Buck (l’osservazione è di Celati, ma a mio parere è valida solo dopo questa svolta) si dissolve nel mito. Il sangue di Buck ha prevalso sul sangue dei lupi, fino a modificarne l’aspetto: nasce una nuova generazione di lupi dal pelo canino. Buck è diventato il Cane Fantasma, feroce dilaniatore notturno di prede e di uomini: ma ogni estate si reca in pellegrinaggio là dove è sepolto Thornton, la sola creatura che il cane ormai fatto lupo abbia amato. Via, è un po’ troppo umano.
In «La Stampa», 11 gennaio 1987.