La comunità di Venezia e il suo antico cimitero
Il visitatore che non conosca l’intricata e gloriosa storia dell’ebraismo veneziano riceve dal cimitero ebraico di San Nicolò di Lido impressioni contrastanti di cura secolare e di altrettanto secolare incuria, di pietà e di preoccupazioni temporali, di fedeltà al rigore rituale e tradizionale ed insieme di consenso al gusto ed alla moda del momento. Questo non avviene di solito nei cimiteri di villaggio, dove prevale la sensazione della omogeneità e della continuità. I motivi di questa singolarità sono parecchi, e fra loro strettamente connessi.
Come questo volume attesta, il cimitero è antico, e profondamente stratificato nel tempo; alberga sepolture di tempi ricchi e miseri, di convivenza e di separazione. Anche su scala sincronica, è interclassista. Infine, esso riflette il carattere intensamente composito della comunità veneziana dove hanno convissuto, mescolandosi solo in parte, ebrei di origine ashkenazita e sefardita, provenienti dalla Germania, dalla Polonia, dalla Penisola iberica, dal Levante, dal resto dell’Italia, oltre al nucleo piú antico le cui origini si perdono nel tempo.
Non si ha, o almeno non predomina, l’impressione del lutto. Il lutto è quello, recente e struggente, di chi ha perduto un familiare, una persona cara che ha frequentato, di cui ricorda le fattezze, le abitudini, la voce. Qui il lutto è remoto, travolto dai secoli: prevale la sensazione della pace, del riposo eterno che tutti i rituali promettono ai defunti. Accanto a questa, e ad una lettura attenta, si fa strada un sentimento diverso, in cui, alla malinconia intrinseca al luogo, si affianca una traccia di orgoglio mondano che qui acquista un sapore di triste ironia. I piú superbi, i piú vistosi di questi sepolcri, custodiscono le spoglie, o piú spesso soltanto la memoria, di ebrei, uomini e donne, che ebbero fama, ricchezza e successo: banchieri, armatori, donne di lettere e di «intelletto d’amore», mercanti, medici, sapienti pii e laici; ed ora, come a Spoon River, tutti dormono qui, livellati dalla morte, all’ombra delle insegne, a volte ingenue, a volte pretenziose, a volte curiosamente profane, che essi stessi o i loro familiari hanno voluto. Su tutti si stende il mantello verde dei rampicanti, immagine della vita greggia, immemore, che sommerge il ricordo.
Un esame piú accurato delle iscrizioni e dei monumenti rivela un tratto caratteristico dell’ebraismo veneziano, che lo rende forse unico al mondo. Esso è frutto dell’incrocio di due singolarità, di due eccezioni storiche ed antropologiche. Era improbabile, era una sfida alla storia, che un popolo medio-orientale di modesta forza politica e militare, intollerante della dominazione greca e poi romana, già tormentato da violenti conflitti interni, e poi sconfitto, massacrato, deportato, disperso, perseguitato per secoli, sopravvivesse ai millenni conservando gelosamente la sua religione e le sue tradizioni, e mantenesse vivo inoltre il sentimento della sua sostanziale unità. Era altrettanto improbabile che una comunità di profughi, sospinti come un relitto dall’avanzare degli invasori, trovasse asilo permanente su un minuscolo arcipelago di isolotti paludosi; che vi costruisse con secolare fatica di formiche una città di favolosa bellezza; che questa città diventasse padrona di un entroterra fertile e vasto; e che la nuova repubblica prosperasse, attraverso brevi paci e lunghe guerre, fino a diventare la capitale mercantile del Mediterraneo orientale, una potenza politica di prim’ordine, uno Stato dagli ordinamenti esemplari, e un centro d’arte originale, mai imitata, o imitata con risultati ridicoli: di fatto, per vari secoli, il piú potente e rispettato degli Stati italiani.
L’ebraismo veneziano è il frutto del connubio fra queste due civiltà impossibili, e richiama alla mente un’affermazione spesso citata di Thomas Mann: che tutto quanto di valido l’umanità ha prodotto, lo ha prodotto «come un ciononostante», a dispetto delle avversità, piegando queste alla propria volontà, traendo vigore dal dolore e intelligenza dalla fatica.
Ogni cimitero è uno specchio; questo del Lido è lo specchio della secolare convivenza fra due civiltà sostanzialmente diverse, ma accomunate dal cosmopolitismo e dalla vocazione mercantile. Come c’erano stanziamenti ebraici in tutti i porti del Mediterraneo, cosí ci furono, almeno temporaneamente, avamposti, guarnigioni, fondachi veneziani a Creta, a Cipro, in Dalmazia, in Albania, in Siria, nel Mar Nero. Spesso gli uni coincidevano con gli altri. Come questo libro documenta, la convivenza non è sempre stata felice: nella tempestosa storia di Venezia, scandita da guerre accanite in terra ed in mare, si sono succeduti periodi di tolleranza e d’intolleranza, ma raramente si è giunti alla violenza contro la minoranza ebraica: di norma è prevalso il buon senso, la comprensione reciproca, o almeno il compromesso. La presenza ebraica, numericamente sempre esigua, non è trascurabile sotto l’aspetto economico: da semplici mercanti e «strazzaroli» gli ebrei diventano banchieri ed armatori; verso la fine del Seicento il 5-10 per cento dei trasporti marittimi nel Mediterraneo è in mano agli ebrei veneziani.
I monumenti di questo Cimitero consentono una lettura indiretta, stratificata, di questa simbiosi. Naturalmente, si tratta di un campione improprio, parziale, che lascia nell’oblio la grande massa dei diseredati, la cui presenza ed il cui modo di vivere sono attestati dagli squallidi, altissimi edifici visibili ancor oggi all’ingresso del Ghetto; ciò non di meno, non si leggono senza emozione e reverenza le lapidi, il cui testo è qui riportato, di Elia Levita grammatico, di Leone Modena dotto maestro e predicatore (ma anche giocatore d’azzardo), di Sara Sullam Copio. Di quest’ultima, colta e bellissima, poetessa in italiano e in ebraico, apprendiamo con struggimento la vicenda del lungo idillio epistolare col gentiluomo genovese che s’innamorò del suo ingegno e tentò invano di convertirla al cristianesimo. No, la storia degli ebrei veneziani non è quella di una minoranza culturalmente sequestrata ed asfittica, bensí quella di una componente energica e versatile della società locale, attiva non solo nel campo finanziario ma anche in quello intellettuale.
I membri di queste grandi famiglie, che attraverso la muta testimonianza delle pietre tombali possiamo seguire per numerose generazioni, ci appaiono spinti da una motivazione sociale tipicamente articolata e moderna. Volevano essere ebrei, cioè diversi: quasi senza eccezioni, le iscrizioni che leggiamo sono in lingua e caratteri ebraici. Ma volevano anche competere: volevano non l’assimilazione, che coincide col dissolvimento, ma l’equiparazione. Di qui il tratto piú curioso di queste tombe: a volte si tratta di profughi dalla Spagna e dal Portogallo che, al tempo della tolleranza, avevano effettivamente ricevuto patenti nobiliari; però, anche in mancanza di un titolo conferito dall’alto, molte famiglie si fabbricano motu proprio un’insegna araldica. A questo un costume dei «gojim», ed oltre a tutto uno strappo al divieto biblico «non ti farai immagini» (bisogna pure seguire i tempi, ed il prestigio sociale è qualcosa); ma entro il contorno e gli svolazzi dello stemma si vedono simboli ebraici: il grappolo d’uva, le mani benedicenti dei Kohanim, la brocca dei Leviti, lo stilo degli scribi; o raffigurazioni tratte dal nome ebraico del defunto: il leone, il cervo, l’aquila, la colomba. In un unico contesto, in pochi palmi di pietra corrosa dal tempo, vediamo congiunta la fedeltà alla tradizione con il consenso alla vita: e del resto, nella Lingua Sacra, il cimitero è Bet-H.ayyim, la Casa della Vita.
Novembre 1985.
In La comunità ebraica di Venezia e il suo antico cimitero, ricerca a cura di Aldo Luzzatto, Il Polifilo, Milano 2000, tomo I, pp. XII-XV.