Prefazione a La vita offesa
Non tutti i libri resistono ad una domanda, che spesso viene rivolta a viso aperto all’autore: perché questo libro esiste? perché, a che scopo, spinto da quale sollecitazione, ti sei messo al lavoro? Penso che questa antologia resista alla domanda, e anche alla domanda di segno inverso: perché solo ora? perché cosí tardi?
Tardi, sí; se la raccolta e la registrazione di queste storie di vita fosse stata intrapresa prima, la memoria degli intervistati sarebbe stata piú fresca, ed il loro numero maggiore: molti nostri compagni ex deportati sono scomparsi per via. Tardi per ragioni organizzative, ma anche perché solo in tempo recente, e non unicamente in Italia, è maturata la consapevolezza che la deportazione politica di massa, associata alla volontà della strage e al ripristino dell’economia schiavistica, è centrale nella storia del nostro secolo, alla pari con il tragico esordio delle armi nucleari. È anche centrale nella memoria dei superstiti: quasi tutti gli intervistati, anche quelli che hanno sofferto di meno, anche quelli che non sono stati toccati permanentemente nella salute o negli affetti familiari, anche i pochi che (per ragioni che rispettiamo) hanno rifiutato di parlare, lo sanno, lo sentono e l’hanno detto, piú o meno esplicitamente. Questo moderno ritorno alla barbarie è centrale, infine, nella coscienza dei colpevoli di allora e dei loro eredi: se cosí non fosse, non avremmo assistito al laido conato dei revisionisti, di quei giovani storici che solo in questi ultimi anni sono venuti allo scoperto, che si professano politicamente bianchi, tavole rase, imparziali, neutrali, aperti a tutti i pro e i contro, ma che dedicano pagine e pagine di acrobazie polemiche per dimostrare che noi non abbiamo visto quello che abbiamo visto, non vissuto quello che abbiamo vissuto. Anche se non dichiarato nell’incipit, questa antologia della brutalità e del dolore deliberatamente inferto è dedicata a loro.
Le testimonianze raccolte sono di livello, di tono e di valore storico diversi. Non avrebbe potuto essere altrimenti: sono stati deportati donne e uomini; intellettuali, operai e contadini; partigiani, resistenti dalla forte ossatura politica, e povera gente rastrellata a caso per strada; credenti e laici; cristiani ed ebrei. Ciononostante, i racconti sono sostanzialmente concordi su alcuni temi essenziali, che li distaccano dai racconti (spesso altrettanto dolorosi e drammatici) dei reduci dalla guerra o dal soggiorno nei campi per prigionieri di guerra. C’è dappertutto, descritto con ingenuità o con sorprendente forza espressiva, il trauma dello straniamento, del sentirsi sradicati: il treno sigillato (altro elemento immancabile, tanto da diventare il simbolo stesso della deportazione) ti strappa bruscamente dal tuo ambiente, clima, paese, famiglia, mestiere, lingua, amicizie, e ti proietta in un ambiente alieno, estraneo, incomprensibile, ostile: talvolta il deportato non sa neppure in quale angolo d’Europa è approdato. È il Lager, il KZ: termini nuovi per lui, mai prima sentiti. In qualche modo, è il mondo alla rovescia, dove l’onestà e la mitezza vengono punite, e premiate la violenza, la delazione e la frode. Qui, come è naturale, i destini e i racconti divergono: c’è chi cede subito, e si adatta per pura istintualità ad un livello di esistenza subumano; chi si sforza di capire e di reagire; chi cerca e trova conforto nella fede: chi (è il caso particolare dei «politici», in specie dei comunisti) ravvisa intorno a sé una forza superstite, una volontà non domata di proseguire la lotta, un’esperienza e una solidarietà internazionale che mitigano le sofferenze materiali e morali dei nuovi venuti. Cosí pure divergono gli eventi del dopo: c’è chi ha ritrovato la famiglia, la casa, gli affetti, un lavoro, e per lui la liberazione è stata un’ora di letizia, senza ombre e senza problemi; ma c’è anche chi ha trovato la famiglia sterminata, la casa distrutta, il mondo intorno a sé indifferente e sordo alla sua angoscia, e ha dovuto ricostruirsi faticosamente una nuova vita sulle macerie della vita di prima: per lui, o per lei, il lutto non ha mai avuto fine.
Un altro lineamento che accomuna tutte queste testimonianze è la loro spontaneità, la buona volontà con cui sono state rilasciate; si ha spesso addirittura l’impressione che il desiderio di parlare, di trovare un ascoltatore attento e partecipe, sia antico, e che l’occasione di dare forma scritta a quelle esperienze ormai lontane nel tempo sia stata lungamente attesa. In molte deposizioni ricorre un tratto caratteristico: il bisogno di raccontare, di «raccontarla», risale al tempo stesso della prigionia; talvolta è quasi un voto, una promessa che il credente fa a Dio ed il laico a se stesso: se ritorno racconterò, affinché la mia vita non sia priva di scopo. La speranza di sopravvivere coincide insomma con la speranza ossessiva di far sapere agli altri, di sedere accanto al fuoco, attorno alla tavola, e raccontare: come Ulisse alla corte del re dei Feaci, come Silvio Pellico sopravvissuto allo squallore dello Spielberg, come il Ruzante ritornato dalla battaglia, come il soldato di cui parla Tibullo, che narra le sue imprese e «sulla tavola dipinge l’accampamento con il vino»; e come l’altro indimenticabile soldato descritto da Eduardo De Filippo, che dalla Germania ritorna «paese paese» nella Napoli famelica e «milionaria» dell’immediato dopoguerra, e cerca invano chi lo ascolti. Il racconto del reduce è un genere letterario.
Per il reduce, raccontare è impresa importante e complessa. È percepita ad un tempo come un obbligo morale e civile, come un bisogno primario, liberatorio, e come una promozione sociale: chi ha vissuto il Lager si sente depositario di un’esperienza fondamentale, inserito nella storia del mondo, testimone per diritto e per dovere, frustrato se la sua testimonianza non è sollecitata e recepita, remunerato se lo è. Perciò, per molti di noi l’intervista che ha preluso a questa antologia è stata un’occasione unica e memorabile, l’evento che aveva atteso fin dal giorno della liberazione, e che ha dato un senso alla sua liberazione stessa.
Siamo in molti (ma ogni anno il nostro numero diminuisce) a ricordare il modo specifico in cui laggiú temevamo la morte: se morremo qui in silenzio come vogliono i nostri nemici, se non ritorneremo, il mondo non saprà di che cosa l’uomo è stato capace, di che cosa è tuttora capace: il mondo non conoscerà se stesso, sarà piú esposto di quanto non sia ad un ripetersi della barbarie nazionalsocialista, o di qualsiasi altra barbarie equivalente, qualunque ne sia la matrice politica effettiva o dichiarata.
Da questo impulso a vivere per raccontare, da questa coscienza di una responsabilità storica ben definita che affiorava nei rari momenti di tregua, molti hanno tratto la forza di resistere, giorno dopo giorno: da questo ragionato bisogno di portare testimonianza è nata l’idea di questo libro. A chi lo ha ideato, finanziato e promosso, ai giovani ricercatori che hanno prestato orecchio paziente ai nostri ricordi, spesso confusi e sconvolti da un’angoscia che ritorna, a chi ha lavorato a ricostruirli, va la nostra riconoscenza di reduci non piú giovani, non immemori e non sempre ascoltati.
Da La vita offesa, a cura di A. Bravo e D. Jalla, Franco Angeli, Milano 1987, pp. 7-9.