Le immagini di Olocausto
In principio c’è lo show-business, l’«affare dello spettacolo», e cioè la gigantesca macchina dell’industria culturale americana. È un’industria che non sfugge alle regole, alle leggi ed alle consuetudini di qualsiasi altra industria: comporta previsioni, ricerche di mercato, programmi di spese, ammortamenti, rischi e ben dosate campagne pubblicitarie, e mira al profitto. Come ogni altra industria, fa tesoro delle esperienze precedenti, proprie ed altrui, e l’esperienza insegna che il profitto piú alto si ottiene attraverso un oculato bilancio di inventività e conservazione. Sono queste le premesse utilitarie e sensate da cui è nata l’operazione Olocausto, come poco tempo prima era stato progettato Radici, e come del resto, fin dagli albori del cinematografo, erano nati i colossali film biblici: si tratta di imprese ad un tempo ciniche e pie, e la contraddizione non deve stupire, dal momento che l’autore non è uno solo: gli autori sono molti, e fra i molti ci sono appunto i cinici ed i pii. Non mi pare che si possano fare obiezioni serie; fin da Eschilo, lo spettacolo pubblico ha attinto alle sorgenti che piú muovono il pubblico, e queste sono il delitto, il destino, il dolore umano, l’oppressione, la strage e la riscossa.
Il filmato Olocausto è nato cosí, come un matrimonio di interesse, ma non tutti i matrimoni di interesse finiscono in un fallimento. Non esito a confessare che ho provato diffidenza e fastidio alle prime notizie trionfali riportate dalla stampa. Temevo che il cinismo fosse piú massiccio e la pietà fosse marginale; come è noto, il tema delle stragi hitleriane e dei campi di concentramento si era prestato egregiamente, fin dai primi anni successivi alla seconda guerra mondiale, come argomento di elaborazione letteraria, e non solo letteraria: era prevedibile ed evidente che il sangue, la strage, l’orrore intrinseco dei fatti che si erano svolti in Europa in quegli anni avrebbero attratto una miriade di scrittori di secondo rango in cerca di temi dal facile svolgimento, e che quella smisurata tragedia sarebbe stata manomessa, spezzettata, selezionata arbitrariamente, per ricavarne frammenti adatti a soddisfare quella sete torbida di macabro e di laido che si ritiene alberghi nel profondo di ogni lettore e fruitore. Questa dissacrante «utilizzazione» si è puntualmente verificata, e non soltanto per mano di scrittori dozzinali: basti ricordare, fra i molti, Der Funke Leben (in italiano L’ultima scintilla) di Erich Maria Remarque, eloquente esempio di come, su avvenimenti veri, si possa costruire un romanzo sostanzialmente falso, e tale da proiettare un’ombra di incredibilità su quegli stessi avvenimenti che esso intende descrivere. Lo stesso, o quasi lo stesso, si può dire del filone sadico-pornografico, il cui capostipite è stato probabilmente l’abominevole Casa di bambola, che pure è stato scritto da un ex deportato: ma, purtroppo, nessuna legge dell’animo umano prescrive che tutti coloro che hanno attraversato un’esperienza, sia pure essa terribile e fondamentale, posseggano gli strumenti spirituali atti a capirla, a giudicarla, a comprenderne i limiti ed a trasmetterla. Casa di bambola descrive un bordello in un Lager. Come accessorio marginale, e non particolarmente tragico, esistevano bordelli in alcuni Lager: ma stuoli di corvi se ne sono cibati, riempiendo gli schermi di mezzo mondo con una valanga di film indecenti, secondo i quali tutti i Lager femminili, anziché luoghi di sofferenza, di morte e di maturazione politica, altro non erano se non teatri di raffinati (e non sempre raffinati) sadismi.
La mia diffidenza si è attenuata quando ho avuto modo di conoscere i dati di ascolto del filmato negli Stati Uniti, in Francia, in Israele, in Germania e in Austria. Di per sé, un indice di ascolto elevato non prova molto: prova, tutt’al piú, che il pubblico televisivo si è interessato allo spettacolo, ma non dice nulla sulla sua qualità. Si è però saputo che, al termine di ogni puntata, le stazioni emittenti sono state sommerse da decine di migliaia di telefonate; che la trasmissione ha dato lo spunto a dibattiti approfonditi (ad uno di questi, durato parecchie ore, ha preso parte in Germania il cancelliere Schmidt); che negli Stati Uniti, quantunque lontani geograficamente ed ideologicamente dagli eventi, è stata pubblicata una guida-commento destinata alle scuole, ed accompagnata da una diligente bibliografia. Doveva dunque trattarsi di qualcosa di piú che non un semplice intrattenimento; lo spettatore, in qualche modo, a qualche livello, doveva pure essere stato coinvolto.
Ho poi cercato di assistere ad Olocausto con l’occhio dello spettatore neutro, non coinvolto ma neppure prevenuto, «difendendomi» per quanto mi era possibile dalle mie reazioni di ex deportato, e penso di esserci riuscito. Fatta dunque la tara alle mie emozioni personali, che ci sono state; filtrati via e cancellati i momenti di violenta mia identificazione con alcuni dei personaggi, posso dire che il filmato è decoroso e quasi per intero di buon livello, e soprattutto che non abusa del materiale incandescente su cui è stato costruito: gli autori hanno conosciuto la misura, e non hanno ceduto alle sollecitazioni del macabro, del turpe e dell’orrido, benché l’orrido, notoriamente, «paghi». È visibile in loro la preoccupazione di non cadere nello stereotipo, è la ricerca di conferire individualità ai personaggi. È invece insufficiente, o inadeguato, lo spessore storico della vicenda, e qui il discorso si fa piú complicato.
Le radici del nazismo, dell’antisemitismo nazista, e del parallelo eppure diverso antisemitismo popolare dei russi e dei polacchi (a cui sovente il filmato accenna), sono lontane e complesse: non si possono comprendere senza risalire alla predicazione dei filosofi tedeschi dell’Ottocento, alla storia tormentata degli ebrei in Europa fin dalla distruzione del secondo tempio, alle dottrine teologiche diffuse da parte cattolica, ortodossa e riformata.
Non si può capire Hitler senza sapere nulla della ferita inferta all’orgoglio tedesco dalla sconfitta del 1918, dei successivi tentativi rivoluzionari, della disastrosa inflazione del 1923, delle violenze dei «Corpi Franchi», della vertiginosa instabilità politica della Repubblica di Weimar. Non intendo dire che tutto quanto precede sia sufficiente per capire l’hitlerismo, ma certamente è necessario, e il filmato non vi accenna: lo spettatore ne ricava l’impressione che il nazismo sia scaturito dal nulla, opera demoniaca di gelidi fanatici come Heydrich o di sinistri scherani con la svastica sulla manica, o frutto di una intrinseca ed imprecisata malvagità dei tedeschi. Una carenza simmetrica delle motivazioni politiche, ed un’analoga semplificazione, mi pare si possa rilevare nell’episodio della rivolta nel ghetto di Varsavia: questa memorabile e disperata lotta, che non verrà mai dimenticata nei secoli, e che raggiunge nel filmato un livello di altissima tensione, non era soltanto un tentativo eroico di riaffermare la dignità del popolo-vittima; a sua volta, era lo svolgimento di un travaglio antico e molteplice, vi riaffiorava la virtú stoica dei difensori di Massada contro le strapotenti armate di Tito, l’impeto millenaristico e messianico del primo sionismo, e l’interpretazione del verbo marxista da parte del proletariato ebraico di Varsavia, doppiamente oppresso in quanto proletariato e in quanto ebreo.
D’altra parte, giustizia vuole che non si pretenda troppo. La ferocia e la dismisura dell’olocausto voluto dai nazisti, rese in molte scene con un realismo che scuote, albergavano in sé un enigma che nessuno storico ha finora risolto, e questo spiega il motivo delle telefonate innumerevoli che hanno tempestato le emittenti televisive dei Paesi in cui il filmato è stato finora trasmesso. Erano, in massima parte, spettatori che chiedevano «perché», e questo è un perché gigantesco, ed antico quanto il genere umano: è il perché del male nel mondo, quello che inutilmente Giobbe rivolge a Dio, ed a cui si può rispondere con molte risposte parziali: ma la risposta globale, universale, atta a placare lo spirito, non si conosce, e forse non esiste. Si può spiegare, ed è stato spiegato da sociologi, politici ed etologi, perché le minoranze vengono odiate e perseguitate, e perché in specie la minoranza ebraica venisse perseguitata in Germania, ma non si può spiegare perché i nazisti si preoccupassero di andare alla caccia anche dei vecchi e dei moribondi, per trasportarli ad Auschwitz attraverso mezza Europa, e laggiú ridurli in cenere. Non si può spiegare perché, nella tragedia e nel caos della guerra ormai perduta, i convogli dei deportati avessero la precedenza sui trasporti di truppe e di munizioni. Soprattutto, e al di là di ogni esempio animalesco, nessuno ha finora capito perché la volontà di sopprimere l’«avversario» andasse congiunta con una piú forte volontà di fargli soffrire le piú atroci sofferenze immaginabili, di umiliarlo, di vilificarlo, di trattarlo come una bestia immonda, anzi, come un oggetto inanimato. È veramente questo il tratto unico della persecuzione nazista, e mi pare che il filmato si sia proposto di rappresentarlo, e ci sia sostanzialmente riuscito.
Molto ci sarebbe da dire sull’impostazione generale di Olocausto e sulla sua aderenza alla verità storica. Forse introdotti inconsapevolmente, grazie alla portentosa vitalità degli esempi classici, o forse invece deliberatamente, vi si riconoscono lineamenti che appaiono «citati» da origini illustri. La rivolta del ghetto è una pagina dei Miserabili: non mancano le barricate, né Gavroche, né la fuga attraverso le fognature. Il piccolo Peter, figlio di Erik Dorf, quando per la prima volta vede il padre nella divisa delle SS si ritrae piangendo, «dalle fiere atterrito armi paterne» come nell’Iliade Astianatte davanti ad Ettore che ritorna in armi dal campo. La moglie di Erik, Marta, è implacabile come Lady Macbeth nello spronare l’ambizione del suo ambiguo marito, e nel sospingerlo di delitto in delitto fino alla fine.
Erik Dorf è il personaggio centrale della vicenda, o almeno il piú problematico ed articolato, ed a lui fa capo una duplice ambizione: la sua propria, di carrierista spregiudicato dapprima, poi di consigliere astuto e crudele, infine di membro ricattabile ma temibile della élite nazista lacerata dagli intrighi e dalle gelosie; e l’ambizione degli autori del filmato, che si sono proposti di modellare in lui una rappresentazione concreta, esemplare a rovescio, emblematica, dell’uomo tedesco che, abbagliato dal mito nazista, perde la sua qualità umana. Giovane avvocato berlinese, frustrato, povero ed insicuro, Erik si lega all’onnipotente Heydrich: è affascinato da lui, ed anche piú dal potere che da lui emana e che Erik vuole condividere. Burocrate «confuso e incerto», è combattuto fra l’educazione moralistica che ha ricevuta e il fascino dell’autorità attiva e passiva, ma rapidamente prevale quest’ultima, ed Erik diventa un consigliere frodolento, anzi, «il» consigliere della corte nazista. Dopo la notte dei cristalli, è lui, memore dei suoi studi legali, a consigliare a Heydrich di lasciare che le compagnie di assicurazione paghino gli enormi danni agli ebrei, ma poi il governo «confischerà i pagamenti, adducendo il pretesto che gli ebrei hanno incitato i tumulti e perciò non hanno diritto al rimborso». Sarà lui a proporre che gli incendi e le distruzioni ai danni degli ebrei siano attuati da nazisti in borghese e non in divisa, perché devono apparire spontanei. Piú tardi, sarà ancora lui l’inventore delle ben note perifrasi sotto cui si mascherava lo sterminio, «reinsediamento» per dire deportazione, «soluzione finale» per dire massacro, «trattamento speciale» per dire uccisione col gas. Suo sarà il suggerimento di usare nelle camere a gas lo Zyklon B, ossia l’acido cianidrico, in luogo dell’ossido di carbonio. Gli viene addirittura attribuita la speranza di riuscire a convincere l’opinione pubblica futura, mediante accorti artifici propagandistici, che agli ebrei non è stato mai fatto alcun danno. Travolto dal crollo militare della Germania, e dalla defezione dei suoi capi, Erik, durante l’interrogatorio a cui viene sottoposto da un ufficiale americano, si ucciderà inghiottendo una compressa di veleno. Lungo tutta questa carriera di immondo potere e di intima servitú, Erik, ottimamente interpretato da Michael Moriarty, esprime saltuari soprassalti di umanità, che culminano appunto con il suo suicidio. Accettabile sul piano drammatico, la figura di Erik mi pare viziata dalla sua impossibilità storica: mi pare che in lui si ripeta l’errore di chi tende a concentrare le responsabilità del nazismo su una o piú persone, o addirittura sul Diavolo, trascurandone le cause storiche e l’ampio consenso presso il popolo tedesco. È chiaro che si è voluto farne un simbolo dei moltissimi Erik che hanno costituito l’ossatura di quella Germania, ma è da temere che molti spettatori, vedendolo sullo schermo accanto a personaggi storici ed unici come Himmler e Eichmann, crederanno anche lui storico ed unico.
Una parallela ipoteca simbolica pesa sulla famiglia Weiss: sono gli ebrei assimilati per eccellenza. Il dottor Weiss, ebreo di origine polacca, si sente profondamente integrato nella società tedesca; davanti alle prime avvisaglie razziali, tende a sottovalutarle, dicendo che «tutto passerà»: la moglie lo conferma, la Germania non è forse il Paese di Beethoven e di Schiller? Raffinata pianista, cercherà un illusorio rifugio nella musica mentre intorno a loro, dal 1935 al 1939, si scatena la barbarie nazista. Non cercheranno di emigrare: di tappa in tappa, attraverso un’eroica partecipazione alla rivolta del ghetto di Varsavia in cui il medico, come oriundo polacco, è stato relegato, approderanno alla morte nelle camere a gas di Auschwitz. Ad Auschwitz morrà anche Karl, il loro primogenito: vi è stato mandato per punizione, perché dal ghetto di Theresienstadt aveva tentato di lasciare testimonianza «a futura memoria» degli orrori che vi si svolgevano. Anna, la figlia minore, viene violentata e perde la ragione, e sparisce a Hadamar, uno dei sinistri «ospedali» in cui i minorati mentali venivano segretamente uccisi coi gas tossici.
L’unico superstite della famiglia è Rudi: è un atleta, propenso per natura e per educazione a rendere colpo per colpo. Rudi non sopporta di lasciarsi soffocare nella rete della persecuzione. Fugge in Cecoslovacchia, poi in Ucraina; si aggrega ad un gruppo di partigiani ebrei, e (pur repugnandovi) impara a uccidere. Catturato, viene portato al Lager di Sobibor: insieme con un gruppo di militari sovietici, fa saltare la recinzione e ritrova la libertà in cui, solo della sua famiglia, non aveva mai smesso di sperare. Accetterà volentieri di accompagnare in Palestina, come immigranti clandestini e violando il blocco inglese, una dozzina di bambini ebrei di Salonicco, superstiti dei Lager.
Si è discusso molto, e molto ancora si discuterà, sulla verità dei fatti rappresentati da Olocausto. Sono discussioni fuori luogo: i fatti fondamentali sono rigorosamente veri, documentati da innumerevoli prove storiche, fra cui primeggiano le ammissioni dei responsabili che furono catturati dagli Alleati e condotti in giudizio dopo la fine delle ostilità. Del resto, una buona parte dei dialoghi, delle riunioni piú o meno segrete dei capi nazisti, degli ordini segreti o pubblici, dei proclami, dei dettagli biografici, sono tratti da documenti di fonte tedesca, o ricostruiti fedelmente su di essi. Gli autori non hanno avuto bisogno di ricorrere alla fantasia: la Notte dei Cristalli, l’eliminazione dei minorati, Buchenwald, Theresienstadt, l’orrenda fossa comune di Babi Yar, le donne in schiera nell’attesa inconscia (talvolta non inconscia!) della morte per gas, l’insurrezione senza speranza degli ebrei di Varsavia, la rivolta sanguinosa e vittoriosa di Sobibor, ci sono state, e si sono svolte come qui rappresentate. Sono verità storiche, contestabili solo dai colpevoli che ancora se le sentono pesare addosso, o dai folli incapaci di guardare in faccia la realtà; e poiché colpevoli e folli esistono, esse vengono talvolta risibilmente contestate. Su questo argomento non occorre spendere molte parole: ci spieghino dove sono finiti i sei milioni di ebrei che mancavano all’appello dopo il 1945, e la questione sarà definita. Né molto resta da dire sulle inevitabili imprecisioni ed ingenuità del filmato, quali le barbe degli insorti troppo ben rase, le casacche di Auschwitz troppo pulite, i locali del ghetto sorprendentemente spaziosi: piú che da negligenza, provengono da una residua fiducia degli sceneggiatori nell’umanità di quel tempo e di quei luoghi.
È da prevedersi che, anche in Italia, si discuterà sull’opportunità di trasmettere al vasto uditorio televisivo «orrori come questi». Sarà bene ricordare a chi non sa, ed a chi preferisce dimenticare, che l’olocausto si è esteso anche all’Italia, benché la guerra volgesse ormai alla fine, e benché la massima parte del popolo italiano si sia mostrata immune al veleno razzista. Circa 8000 ebrei, sui 32-35 000 allora presenti sul territorio nazionale, sono stati deportati, e non ne sono ritornati che tre o quattrocento. I rastrellamenti avvenivano per ordine dei tedeschi occupanti, ma spesso venivano eseguiti dalla polizia e dalle milizie fasciste, e non sempre malvolentieri, poiché per ogni ebreo catturato veniva corrisposto un premio in denaro. Perché tacere?
Ho parlato di questa serie televisiva dissentendo qua e là, cercando di metterne in luce i pregi e le manchevolezze, senza tentare di nascondere l’intrico di commozione, di disagio e di rispetto che essa ha suscitato in me. Vorrei aggiungere un’osservazione. La Repubblica di Weimar, da cui è scaturito il nazismo, era caratterizzata dall’instabilità politica, dalla violenza dilagante, e da una diffusa speranza in una soluzione messianica ed irrazionale, nell’intervento dell’Eroe necessario, salvatore della Germania, che Nietzsche aveva pronosticato. Parallelamente, la dottrina nazista aveva inculcato nelle coscienze una certezza altrettanto irrazionale e ben piú nefasta: che tutti i mali della Germania e del mondo provenissero da una sola origine, da un Supernemico incarnazione del male, e questo era il popolo ebreo. Distrutto questo capro espiatorio, la Germania avrebbe trionfato. Ora, il capro espiatorio è stato bensí sterminato nell’olocausto europeo, ma accanto ai sei milioni di ebrei uccisi sono caduti in una guerra spietata almeno cinquanta milioni di altri uomini, donne e bambini, e piú di dieci milioni fra questi appartenevano al popolo tedesco.
Le immagini di «Olocausto» - dalla realtà alla Tv, in «Speciale del “Radiocorriere Tv”», a cura di Pier Giorgio Martinelli, Eri, maggio 1979, pp. 2-5.