Su questo racconto sono caduto per caso, parecchi anni fa; l’ho letto, riletto molte volte, e non mi è piú uscito di mente. Forse vale la pena di ricercarne il perché: le ragioni per cui ci si affeziona a un libro possono essere molte, alcune decifrabili e razionali, altre oscure e profonde.

Non credo che si tratti del come questa storia è narrata. È narrata in modo disuguale, con perizia in alcune pagine, in altre con un certo sfoggio di intellettualismo, con un mestiere letterario un po’ troppo carico di malizie e di artifici. È tuttavia palesemente veridica, punto per punto, episodio per episodio (la confermano numerose altre fonti, e chi è stato ad Auschwitz vi ha ritrovato i «passeggeri» superstiti del treno di Westerbork), tanto che, nonostante il suo andamento romanzesco, riveste il carattere di un documento; ma la sua importanza non proviene solo di qui.

Questa breve opera è fra le poche che rappresentino con dignità letteraria l’ebraismo europeo occidentale. Mentre dell’ebraismo orientale, askenazita, yiddisch, esiste una letteratura abbondante e gloriosa, il ramo occidentale, profondamente integrato nelle culture borghesi tedesca, francese, olandese, italiana, ha contribuito generosamente a esse, ma raramente ha rappresentato se stesso. È un ebraismo condizionato dalla dispersione, e quindi poco unitario; è talmente intrecciato con la cultura del paese-ospite da non possedere, come è noto, una lingua propria. È stato illuminista con l’illuminismo, romantico col romanticismo, liberale, socialista, borghese, nazionalista; tuttavia, attraverso tutte le metamorfosi dovute al tempo e al luogo, ha conservato alcuni lineamenti che lo caratterizzano, e questo libro li riproduce.

L’ebreo occidentale, teso e disputato fra i due poli della fedeltà e dell’assimilazione, è in perenne crisi d’identità, e di qui provengono, altrettanto perenni, le sue nevrosi, la sua adattabilità e la sua acutezza. La figura dell’ebreo contento del suo ebraismo, a cui il suo ebraismo basta (l’immortale Tevie lattivendolo, di Shalom Aleichem), in Occidente è rara o manca.

Questo è un racconto di crisi d’identità: la subisce il protagonista con intensità tale da trovarsi scisso in due. Vivono in lui l’«io» Jacques, assimilato, legato alla terra d’Olanda ma non al popolo olandese, intellettuale versatile e decadente, sentimentalmente immaturo, politicamente sospetto, moralmente nullo; e l’«io» Jacob, recuperato dal passato per l’opera e l’esempio del «rabbino» Hirsch, che attinge forza dalla sua radice ebraica fino allora ignorata o negata, e si sacrifica per salvare dal nulla quel Libro in cui Jacques non crede. A quanti ebrei d’Europa non è successo altrettanto? A quanti non è accaduto di ravvisare, nel bisogno, un sostegno e un’impalcatura morale proprio in quella cultura ebraica che negli anni di tregua era sembrata invecchiata e superata? Lo dice Hirsch a Jacques: il filo spinato è un filo che lega, e lega saldo. Non intendo affermare che il ritorno all’origine sia l’unica via di salute: ma certamente ne è una.

Un altro motivo che conferisce peso a questo racconto è la sua spregiudicatezza. In qualche pagina impietosa, pare addirittura che l’autore vero partecipi di quell’«odio giudaico per se stessi» (altro aspetto della crisi d’identità) che il padre Henriques attribuisce al figlio e alla moglie, e che ha dato origine ai molti ebrei-antisemiti dell’Occidente europeo, ad esempio al Weininger qui citato e ammirato da Georg Cohn. Sentirci ricordare che a Westerbork esisteva e operava un uomo come Cohn, brucia come una ustione e merita un commento. Simili individui sono esistiti, e certo esistono tuttora fra noi allo stato virtuale; in condizioni normali non sono riconoscibili (anche Cohn voleva diventare banchiere), ma una persecuzione spietata li sviluppa e li porta alla luce e al potere. È ingenuo, assurdo e storicamente falso ritenere che un sistema demoniaco, qual era il nazionalsocialismo, santifichi le sue vittime: al contrario, esso le degrada e le sporca, le assimila a sé, e ciò tanto piú quanto piú esse sono disponibili, bianche, prive di un’ossatura politica o morale. Cohn è detestabile, è mostruoso, è da punirsi, ma la sua colpa è il riflesso di un’altra colpa ben piú grave e generale.

Non è un caso che proprio in questi ultimi anni, in Italia ed all’estero, siano stati pubblicati libri come Menschen in Auschwitz di H. Langbein (non tradotto finora in italiano) e In quelle tenebre di Gitta Sereny: da molti segni, pare che sia giunto il tempo di esplorare lo spazio che separa le vittime dai carnefici, e di farlo con mano piú leggera, e con spirito meno torbido, di quanto non si sia fatto ad esempio in alcuni recenti film ben noti. Solo una retorica manichea può sostenere che quello spazio sia vuoto; non lo è, è costellato di figure turpi, miserevoli o patetiche (talora posseggono le tre qualità ad un tempo), che è indispensabile conoscere se vogliamo conoscere la specie umana, se vogliamo saper difendere le nostre anime quando una simile prova dovesse ritornare.

Esiste un contagio del male: chi è non-uomo disumanizza gli altri, ogni delitto si irradia, si trapianta intorno a sé, corrompe le coscienze e si circonda di complici sottratti con la paura o la seduzione (come Suasso) al campo avverso. È tipico di un regime criminoso, quale era il nazismo, di svigorire e confondere le nostre capacità di giudizio. È colpevole chi denunzia sotto tortura? O chi uccide per non essere ucciso? O il soldato al fronte russo che non sa disertare? Dove tracceremo la linea che taglia in due lo spazio vuoto di cui dicevo, e che separa il debole dall’infame? È giudicabile Cohn?

Ebbene, il senso del libro è che Cohn è giudicabile. Il suo discorso sulla «nave che fa acqua» è capzioso; cosí pure la sua affermazione (quante volte l’abbiamo udita!): «se non lo facessi io, lo farebbe un altro peggiore di me». Ci si deve rifiutare, si può sempre, in ogni caso, magari seguendo la via della signorina Wolfson. Chi non si rifiuta (ma bisogna rifiutarsi fin dal principio, non mettere la mano nell’ingranaggio) finisce col cedere alla seduzione di passare dall’altra parte: vi troverà, nella migliore delle ipotesi, una gratificazione ingannevole e una salvezza distruttrice.

Cohn è colpevole, ma ha una attenuante. La coscienza generalizzata che davanti alla violenza non si cede, ma si resiste, è di oggi, è del dopo, non è di allora. L’imperativo della resistenza è maturato con la resistenza e con la tragedia planetaria della Seconda guerra mondiale; prima, era prezioso patrimonio di pochi. Neanche oggi è di tutti, ma oggi chi vuole intendere può intendere, e mi pare che questo libro lo possa aiutare.

Non è detto che chi si affeziona a un libro, o a una persona, non ne veda piú i difetti. Questo libro ne ha, e forse gravi; lo stile è incerto, oscilla fra la commozione e il badinage; spesso si ha l’impressione che l’autore Presser non sia immune dal barocchismo letterario del suo alter ego Henriques e dalla sua smania di sfoderare citazioni anche in punto di morte; talora, davanti allo strazio di certe situazioni, si trova compiacimento dove ci si aspetterebbe pudore e silenzio. Insomma, è un libro discutibile, e forse scandaloso, ma è bene che gli scandali avvengano, perché provocano discussione e chiarimento delle coscienze.

Da J. Presser, La notte dei Girondini, Adelphi, Milano 1976, pp. 11-15.