Monumento ad Auschwitz
Entro un tempo relativamente breve, se si tenga conto della mole dell’opera, entro due anni, forse prima, sorgerà in Auschwitz, sul luogo stesso che vide in atto la maggiore strage della storia umana, un monumento. Nella gara di secondo grado per la scelta del progetto, che di recente si è svolta, sono riusciti vincitori a pari merito un gruppo di artisti polacchi e due gruppi di architetti e scultori italiani: dalla loro collaborazione è scaturito il progetto esecutivo, che dal primo luglio è esposto al pubblico in Roma, nella Galleria nazionale d’Arte moderna. Sarà bene precisare: non «sorgerà» in senso stretto, ché anzi in buona parte starà al livello del suolo o sotto; non sarà un monumento nel comune senso del termine, poiché occuperà non meno di 30 ettari di terreno; e non sarà in Auschwitz centro, non cioè nella cittadina polacca di Oswiecim, bensí a Birkenau.
Riteniamo che a pochi il nome di Auschwitz suoni nuovo. In questo campo furono immatricolati circa 400 000 prigionieri, di cui poche migliaia sopravvissero; quasi quattro milioni di altri innocenti furono inghiottiti dagli impianti di sterminio eretti dai nazisti a Birkenau, a due chilometri da Auschwitz. Non si trattava di nemici politici: in massima parte, erano intere famiglie di ebrei, con bambini, vecchi e donne, prelevati dai ghetti o direttamente dalle loro case; spesso con poche ore di preavviso, con l’ordine di portare appresso «tutto quanto occorre per un lungo viaggio», ed il consiglio ufficioso di non trascurare l’oro, la valuta ed i preziosi di cui disponessero. Tutto quanto portavano seco (tutto: anche le scarpe, la biancheria, gli occhiali), veniva loro tolto quando il convoglio entrava nel campo. Di ogni trasporto, un decimo in media veniva inoltrato ai campi di lavoro forzato; nove decimi (in cui erano compresi tutti i bambini, i vecchi e gli inabili, e la maggior parte delle donne) venivano immediatamente soppressi con un gas tossico originariamente destinato a liberare le stive dai topi. I loro corpi erano cremati in colossali impianti, appositamente costruiti dalla onesta Ditta Topf e Figli di Erfurt, a cui erano stati commissionati forni adatti ad incenerire 24 000 cadaveri al giorno. Alla liberazione, si trovarono in Auschwitz sette tonnellate di capelli femminili.
Questi sono i fatti: funesti, immondi, e sostanzialmente incomprensibili. Perché, come sono avvenuti? Si ripeteranno?
Non credo che a queste domande si possa dare una risposta esauriente, né oggi né poi; ed è forse bene che sia cosí. Se a queste domande ci fosse risposta, significherebbe che i fatti di Auschwitz rientrano nel tessuto delle opere dell’uomo: che essi hanno avuto un movente, e quindi un germe di giustificazione. In qualche misura, ci è dato sostituirci nei panni del ladro, dell’assassino: non ci è invece possibile metterci nei panni del demente. Altrettanto impossibile è ripercorrere il cammino dei grandi responsabili: le loro azioni, le loro parole, rimangono per noi cerchiate di tenebra, non possiamo ricostruirne il divenire, non possiamo dire «dal loro punto di vista…» È dell’uomo operare in vista di un fine: la strage di Auschwitz, che ha distrutto una tradizione ed una civiltà, non ha giovato a nessuno.
Sotto questo aspetto (e solo sotto questo!), è altamente istruttiva la lettura del diario di Höss, già comandante di Auschwitz. Il libro, la cui edizione italiana è in preparazione, è un documento agghiacciante: l’autore non è un sadico sanguinario né un fanatico pieno d’odio, ma un uomo vuoto, un idiota tranquillo e diligente, che si studia di svolgere colla miglior cura le iniziative bestiali che gli vengono affidate, e in questa obbedienza sembra trovare appagamento pieno di ogni suo dubbio o inquietudine.
Mi pare che solo in questo modo, e cioè come follia di pochi, e stolto e vile consenso di molti, i fatti di Auschwitz possano essere interpretati. Infatti, anche astraendo da ogni giudizio morale, e limitandoci al piano della «politica realistica», si deve pur constatare che tentativi come quelli hitleriani, eseguiti in Auschwitz e meticolosamente progettati per l’intera Nuova Europa, sono stati colossali errori. Esiste ovunque, in tutti i paesi, una capacità di indignazione, una concordia di giudizio di fronte a simili atrocità, di cui il nazismo non aveva tenuto conto, e a cui in definitiva il popolo tedesco deve lo stato di quarantena in cui tuttora si trova. Secondo ragione, una restaurazione concentrazionaria non dovrebbe minacciarci.
Ma è imprudente impostare previsioni sulla ragione. Osservava Jemolo or non è molto, su queste stesse colonne, quanto sia vano attribuire ai propri avversari piani lungimiranti e acume diabolico: è come dire che la stupidità, la sragione, sono forze storicamente operanti; l’esperienza lo ha purtroppo dimostrato, e non cessa di dimostrarlo. Un secondo Hitler può nascere, forse è già nato; bisogna tenerne conto. Auschwitz può dunque ripetersi. Tutte le tecniche, una volta trovate, vivono di vita propria, allo stato di potenza, in attesa dell’occasione che le ritraduca in atto. In 15 anni, le tecniche della distruzione e della propaganda sono progredite: distruggere un milione di vite umane premendo un bottone è piú facile oggi di ieri; pervertire memoria, coscienza e giudizio di 200 milioni di persone è ogni anno piú facile.
Non basta. La strage nazista porta il segno della follia, ma anche un altro segno. È il segno del disumano, della solidarietà umana negata, vietata, rotta; dello sfruttamento schiavistico; della spudorata instaurazione del diritto del piú forte, contrabbandato sotto l’insegna dell’ordine. È il segno della sopraffazione, il segno del fascismo. È la realizzazione di un sogno demenziale, in cui uno comanda, nessuno piú pensa, tutti camminano sempre in fila, tutti obbediscono fino alla morte, tutti dicono sempre di sí.
È perciò bene, è importante, che in questa nostra epoca di facili entusiasmi e di stanchezza profonda sorga in Auschwitz un monumento: e deve essere un’opera insieme nuova e perenne, che possa parlare oggi e domani e fra secoli, con linguaggio chiaro, a chiunque lo visiti. Non importa che sia «bello»: non importa se sfiorerà il retorico, se vi cadrà. Non deve essere utilizzato a fini di parte: deve essere un monumento-ammonimento che l’umanità dedica a se stessa, perché porti testimonianza, perché ripeta un messaggio non nuovo nella storia, ma troppo spesso dimenticato: che l’uomo è, deve essere, sacro all’uomo, dovunque e sempre.
In «La Stampa», 18 luglio 1959.