Di solito, chi accetta di scrivere la prefazione di un libro lo fa perché il libro gli sembra bello: gradevole da leggersi, di nobile livello letterario, tale da suscitare simpatia o almeno ammirazione per chi lo ha scritto. Questo libro sta all’estremo opposto. È pieno di nefandezze raccontate con una ottusità burocratica che sconvolge; la sua lettura opprime, il suo livello letterario è scadente, ed il suo autore, a dispetto dei suoi sforzi di difesa, appare qual è, un furfante stupido, verboso, rozzo, pieno di boria, e a tratti palesemente mendace. Eppure questa autobiografia del Comandante di Auschwitz è uno dei libri piú istruttivi che mai siano stati pubblicati, perché descrive con precisione un itinerario umano che è, a suo modo, esemplare: in un clima diverso da quello in cui gli è toccato di crescere, secondo ogni previsione Rudolf Höss sarebbe diventato un grigio funzionario qualunque, ligio alla disciplina ed amante dell’ordine: tutt’al piú un carrierista dalle ambizioni moderate. Invece, passo dopo passo, si è trasformato in uno dei maggiori criminali della storia umana.

A noi superstiti dei Lager nazionalsocialisti viene spesso rivolta, specialmente dai giovani, una domanda sintomatica: com’erano, chi erano «quelli dall’altra parte»? Possibile che fossero tutti dei malvagi, che nei loro occhi non si leggesse mai una luce umana? A questa domanda il libro risponde in modo esauriente: mostra con quale facilità il bene possa cedere al male, esserne assediato e infine sommerso, e sopravvivere in piccole isole grottesche: un’ordinata vita famigliare, l’amore per la natura, un moralismo vittoriano. Appunto perché il suo autore è un incolto, non lo si può sospettare di una colossale e sapiente falsificazione della storia: non ne sarebbe stato capace. Nelle sue pagine affiorano bensí ritorni meccanici alla retorica nazista, bugie piccole e grosse, sforzi di autogiustificazione, tentativi di abbellimento, ma sono talmente ingenui e trasparenti che anche il lettore piú sprovveduto non ha difficoltà ad identificarli: spiccano sul tessuto del racconto come mosche nel latte.

Il libro è insomma un’autobiografia sostanzialmente veridica, ed è l’autobiografia di un uomo che non era un mostro, né lo è diventato, neppure al culmine della sua carriera, quando per suo ordine si uccidevano ad Auschwitz migliaia di innocenti al giorno. Intendo dire che gli si può credere quando afferma di non aver mai goduto nell’infliggere dolore e nell’uccidere: non è stato un sadico, non ha nulla di satanico (qualche tratto satanico si coglie invece nel ritratto che egli traccia di Eichmann, suo pari grado ed amico: ma Eichmann era molto piú intelligente di Höss, e si ha l’impressione che Höss abbia prese per buone certe vanterie di Eichmann che non reggono ad un’analisi seria). È stato uno dei massimi criminali mai esistiti, ma non era fatto di una sostanza diversa da quella di qualsiasi altro borghese di qualsiasi altro paese; la sua colpa, non scritta nel suo patrimonio genetico né nel suo esser nato tedesco, sta tutta nel non aver saputo resistere alla pressione che un ambiente violento aveva esercitato su di lui, già prima della salita di Hitler al potere.

Se vogliamo essere leali, dobbiamo ammettere che il giovane parte male. Suo padre, commerciante, è un «cattolico fanatico» (ma attenzione: nel vocabolario di Höss, e piú in generale in quello nazista, questo aggettivo ha sempre una connotazione positiva), vuol fare di lui un sacerdote, ma allo stesso tempo lo assoggetta ad una rigida educazione di tipo militare: delle sue inclinazioni e tendenze non si tiene alcun conto. È comprensibile che non provi affetto per i genitori, e che cresca chiuso ed introverso. Resta orfano presto, attraversa una crisi religiosa, e allo scoppio della Grande Guerra non ha esitazioni: il suo universo morale è ormai ridotto ad una singola costellazione, il Dovere, la Patria, il Cameratismo, il Coraggio. Parte volontario, e lo scaraventano diciassettenne sul selvaggio fronte iracheno; uccide, resta ferito, e si sente diventato uomo, cioè soldato: per lui i due termini sono sinonimi.

La guerra è (dappertutto: ma in specie nella Germania sconfitta ed umiliata) una pessima scuola. Höss non tenta neppure di reinserirsi nella vita normale; nel clima terribile del dopoguerra tedesco, si arruola in uno dei tanti Corpi Volontari dai compiti sostanzialmente repressivi, è coinvolto in un assassinio politico e condannato a dieci anni di prigione. Il regime carcerario è duro, ma gli si confà: non è un ribelle, la disciplina e l’ordine gli piacciono, anche espiare gli piace; è un carcerato modello. Ostenta buoni sentimenti: aveva accettato la violenza della guerra perché era stata ordinata dall’Autorità, ma lo disgustano le violenze dei suoi compagni di prigionia perché sono spontanee. Sarà questa una delle sue costanti: ordine ci vuole, in tutto; le direttive devono venire dall’alto, sono buone per definizione, vanno eseguite senza discuterle ma coscienziosamente; l’iniziativa è ammessa solo al fine di una piú efficiente esecuzione degli ordini. L’amicizia, l’amore e il sesso gli sono sospetti; Höss è un uomo solo.

Dopo sei anni è amnistiato; trova lavoro in una comunità agricola, si sposa, ma ammette di non essere mai riuscito, né allora né poi, quando piú ne avrebbe avuto bisogno, a comunicare confidenzialmente con la moglie. È questo il punto in cui gli si apre davanti la trappola: gli viene offerto di entrare nelle SS, e lui accetta, attirato dalla «prospettiva di una carriera rapida» e dai «vantaggi finanziari ad essa collegati». È anche questo il punto in cui dice al lettore la prima bugia: «Leggendo l’appello di Himmler ad entrare tra le SS in servizio nei campi di concentramento, non avevo minimamente riflettuto alla realtà vera di questi campi…; era un concetto assolutamente sconosciuto, né riuscivo a farmene un’idea». Via, comandante Höss, per mentire ci vuole piú agilità mentale: siamo nel 1934, Hitler è già al potere ed ha sempre parlato chiaro; il termine «Lager» nella sua nuova accezione è già ben noto, pochi sanno esattamente che cosa vi avviene, ma tutti sanno che sono luoghi di terrore ed orrore: ed assai di piú se ne sa nell’ambiente delle SS. Il «concetto» è tutt’altro che «sconosciuto», viene già cinicamente sfruttato dalla propaganda del regime: «se non righi dritto finisci in Lager», è un modo di dire quasi proverbiale.

La sua carriera è infatti rapida. La sua esperienza carceraria non è stata inutile: non a torto, i superiori vedono in lui uno specialista, e rifiutano le sue deboli richieste di ritornare fra la truppa: un servizio vale l’altro, il nemico è dappertutto, alle frontiere e all’interno; Höss non deve sentirsi sminuito. Höss accetta; se il suo dovere è fare l’aguzzino, farà l’aguzzino con tutta la diligenza possibile: «devo confessare di aver assolto il mio compito con coscienza ed attenzione, di non aver avuto riguardi verso i prigionieri, di esser stato severo e spesso duro». Che sia stato duro, nessuno ne dubita; ma che dietro alla sua «maschera di pietra» si nascondesse un cuore dolorante, come afferma, è una menzogna non solo indecente, ma anche puerile.

Non è invece una menzogna la sua ripetuta affermazione che, una volta entrati nell’ingranaggio, fosse difficile uscirne. Non si rischiava certo la morte e neppure una punizione severa, ma il distacco era obiettivamente difficile. La milizia presso le SS comprendeva una «rieducazione» intensiva ed abile, che lusingava l’ambizione degli adepti: questi, per lo piú incolti, frustrati, reietti, si sentivano rivalutati ed esaltati. La divisa era elegante, la paga buona, i poteri quasi illimitati, l’impunità garantita; erano oggi i padroni del paese, e domani (lo diceva uno dei loro inni) del mondo intero. Allo scoppio della Seconda guerra mondiale Höss è già Schutzhaftlagerführer a Sachsenhausen, che non è dire poco, ma merita una promozione; accetta con sorpresa e gioia la nomina a comandante: si tratta di un campo nuovo, ancora in costruzione, lontano dalla Germania, vicino ad una cittadina polacca che si chiama Auschwitz.

È veramente un esperto, lo dico senza ironia. A questo punto le sue pagine diventano concitate e piene di partecipazione: l’Höss che scrive è già stato condannato a morte da un tribunale polacco, anche questa condanna viene da un’autorità e va quindi accettata, ma non è questa una ragione per rinunciare a descrivere la sua ora piú bella. Ci dà un vero trattato di urbanistica, sale in cattedra, la sua sapienza non deve andare perduta, non dispersa la sua eredità; ci insegna come va pianificato, costruito, gestito un campo di concentramento in modo che funzioni bene, reibungslos, nonostante l’inettitudine dei sottoposti e la cecità dei superiori, discordi fra loro, che gli mandano piú treni di quanti il campo possa accettare. È lui il comandante? ebbene, che si arrangi. Qui Höss diventa epico: chiede al lettore ammirazione, lode, perfino commiserazione; è stato un funzionario di grande competenza e diligenza, a questo suo Lager ha sacrificato tutto, i giorni e le notti di riposo, gli affetti famigliari. L’Ispettorato non ha comprensione per lui, non gli manda i rifornimenti, tanto che lui, il funzionario modello, stretto fra le due mascelle dell’Autorità, deve «letteralmente andare a rubare il quantitativo di filo spinato piú urgente… Dovevo pure pensare ai casi miei!»

È meno convincente quando si erge a maestro nella sociologia del Lager. Depreca con virtuoso disgusto le lotte interne fra i prigionieri: che gentaglia, non conoscono l’onore né la solidarietà, le grandi virtú del popolo tedesco; ma poche righe dopo si lascia sfuggire l’ammissione che «queste lotte erano accuratamente coltivate e stimolate dalla direzione», cioè da lui. Descrive con sussiego professionale le varie categorie di prigionieri, interpolando nell’antico disprezzo stonate apostrofi di ipocrita pietà retrospettiva. Meglio i politici dei criminali comuni, meglio gli zingari («erano… per me i prigionieri piú cari») degli omosessuali; i prigionieri di guerra russi sono animaleschi, e gli ebrei non gli sono mai piaciuti.

Proprio sul tema degli ebrei le stonature diventano piú stridule. Non si tratta di un conflitto: non è che l’indottrinamento nazista venga a collidere con una nuova e piú umana visione del mondo. Semplicemente, Höss non ha capito nulla, non ha superato il suo passato, non è guarito: quando dice (e lo dice spesso) «ora mi rendo conto… ora ho capito che…», mente in modo vistoso, come mentono oggi quasi tutti i «pentiti» politici, e tutti coloro che esprimono il loro pentimento con le parole invece che con i fatti. Mente perché? Forse per lasciare una migliore immagine di sé; forse solo perché i suoi giudici, che sono i suoi nuovi superiori, gli hanno detto che le opinioni corrette non sono piú quelle di prima ma altre.

Proprio il tema degli ebrei ci fa vedere quanto abbia pesato sulla Germania la propaganda di Goebbels, e quanto sia difficile, anche su un individuo arrendevole come Höss, cancellarne gli effetti. Höss ammette che gli ebrei erano in Germania «abbastanza» perseguitati, ma si affretta a precisare che il loro ingresso in massa è stato pernicioso per il livello morale dei Lager: gli ebrei, come è noto, sono ricchi, e col denaro si può corrompere chiunque, perfino i moralissimi ufficiali delle SS. Ma il puritano Höss (che in Auschwitz aveva avuto una prigioniera come amante, ed aveva tentato di liberarsene mandandola a morte) non è d’accordo con l’antisemitismo pornografico dello «Stürmer» di Streicher: questo giornale «ha arrecato molti mali; non ha giovato affatto all’antisemitismo serio»; ma non c’è da stupirsene, dato che, improvvisa Höss, era «un ebreo a redigerlo». Sono stati gli ebrei a diffondere (Höss non osa dire «inventare») le notizie sulle atrocità in Germania, e di questo è giusto punirli; ma Höss il virtuoso non è d’accordo col suo superiore Eicke, che vorrebbe stroncare la fuga di notizie con l’intelligente sistema delle punizioni collettive. La campagna sulle atrocità, nota Höss, «sarebbe proseguita anche se si fossero fucilate centinaia o migliaia di persone»; il corsivo di quell’anche, gemma della logica nazista, è mio.

Nell’estate del 1941 Himmler gli comunica «personalmente» che Auschwitz sarà qualcosa di diverso da un luogo d’afflizione: deve diventare «il piú grande centro di sterminio di tutti i tempi»: si aggiusti lui, con i suoi collaboratori, a trovare la tecnica migliore. Höss non batte ciglio, è un ordine come gli altri, e gli ordini non si discutono. Ci sono già esperienze condotte in altri campi, ma i mitragliamenti in massa e le iniezioni tossiche non sono convenienti, ci vuole qualcosa di piú rapido e sicuro; soprattutto, bisogna evitare «i bagni di sangue», perché demoralizzano gli esecutori. Dopo le azioni piú sanguinose, alcuni SS si sono uccisi, altri si ubriacano metodicamente; ci vuole qualcosa di asettico, di impersonale, per salvaguardare la salute mentale dei militi. L’asfissia collettiva con gas di scarico dei motori è un buon inizio, ma va perfezionata: Höss ed il suo vice hanno l’idea geniale di usare il Cyclon B, il veleno che si usa per i topi e le blatte, e tutto va per il meglio. Höss, dopo il collaudo eseguito su 900 prigionieri russi, prova «un grande conforto»: l’uccisione in massa è andata bene, sia come quantità sia come qualità; niente sangue, niente traumi. Tra il mitragliare gente nuda sull’orlo della fossa da loro stessi scavata, e il buttare una scatoletta di veleno dentro un condotto d’aria, la differenza è fondamentale. La sua massima aspirazione è raggiunta: la sua professionalità è dimostrata, è lui il miglior tecnico della strage. I colleghi invidiosi sono sconfitti.

Le pagine piú ripugnanti del libro sono quelle in cui Höss si attarda a descrivere la brutalità e l’indifferenza con cui gli ebrei incaricati dello sgombero dei cadaveri attendono al loro lavoro. Contengono un immondo atto d’accusa, una chiamata di correo, quasi che quegli infelici (non erano «esecutori d’ordini» anche loro?) potessero addossarsi la colpa di chi li aveva inventati e delegati. Il nodo del libro, e la sua bugia meno credibile, sta a p. 136: davanti all’uccisione dei bambini, dice Höss, «provavo una pietà cosí immensa che avrei voluto scomparire dalla faccia della terra, eppure non mi fu lecito mostrare la minima emozione». Chi gli avrebbe impedito di «scomparire»? Neppure Himmler, il suo capo supremo, che, malgrado l’ossequio che Höss gli tributa, traspare da queste pagine nel doppio aspetto del demiurgo e di un idiota pedante, incoerente ed intrattabile.

Neppure nelle ultime pagine, che assumono il tono di un testamento spirituale, Höss riesce a misurare l’orrore di quanto ha commesso, e a trovare l’accento della sincerità. «Oggi comprendo che lo sterminio degli ebrei fu un errore, un colossale errore» (si noti, non «una colpa»). «L’antisemitismo non è servito a nulla; al contrario, il giudaismo se ne è giovato per avvicinarsi maggiormente al suo obiettivo finale». Poco dopo, afferma di sentirsi «venir meno» nell’«apprendere quali spaventose torture si applicassero in Auschwitz e anche in altri campi»: se si pensa che chi scrive cosí sa già che sarà impiccato, si rimane attoniti davanti a questa sua ostinazione nel mentire fino all’ultimo respiro. L’unica spiegazione possibile è questa: Höss, come tutti i suoi congeneri (non solo tedeschi: penso anche alle confessioni dei terroristi pentiti o dissociati), ha trascorso la vita facendo sue le menzogne che impregnavano l’aria a cui attingeva, e quindi mentendo a se stesso.

Ci si può domandare, e certamente qualcuno se lo domanderà, o lo domanderà, se esiste un motivo per ripubblicare questo libro oggi, a 40 anni dalla fine della guerra ed a 38 dall’esecuzione dell’autore. A mio parere, i motivi sono almeno due.

Il primo motivo è contingente. Pochi anni fa ha preso inizio un’operazione insidiosa: il numero delle vittime dei campi di sterminio sarebbe stato enormemente minore di quanto afferma «la storia ufficiale»; nei campi non si sarebbe mai usato gas tossico per uccidere esseri umani. Su entrambi questi punti la testimonianza di Höss è completa ed esplicita, né si vedrebbe perché avrebbe dovuto formularla in modo cosí preciso ed articolato, e con tanti dettagli conformi a quelli dei sopravvissuti ed ai reperti materiali, se si fosse trovato in stato di costrizione come pretendono i «revisionisti». Höss mente spesso per giustificarsi, ma mai sui dati di fatto: anzi, della sua opera di organizzatore appare fiero. Avrebbero dovuto essere ben sottili, lui ed i suoi pretesi mandanti, per architettare dal nulla una storia cosí coerente e verosimile. Le confessioni estorte dall’Inquisizione, o nei processi di Mosca degli anni ’30, o nei processi delle streghe, avevano tutt’altro tono.

Il secondo motivo è essenziale e di validità permanente. Si spandono oggi molte lacrime sulla fine delle ideologie; mi pare che questo libro dimostri in modo esemplare a che cosa possa portare un’ideologia che viene accettata con la radicalità dei tedeschi di Hitler, e degli estremisti in generale. Le ideologie possono essere buone o cattive; è bene conoscerle, confrontarle e cercare di valutarle; è sempre male sposarne una, anche se si ammanta di parole rispettabili quali Patria e Dovere. Dove conduca il Dovere ciecamente accettato, cioè il Führerprinzip della Germania nazista, lo dimostra la storia di Rudolf Höss.

Marzo 1985.

Da R. Höss, Comandante ad Auschwitz, Einaudi, Torino 1985, pp. V-XII.