Quando questo libro è stato scritto, nel 1946, molte cose sui Lager non si sapevano ancora. Non si sapeva che solo ad Auschwitz erano stati sterminati con meticolosità scientifica milioni di uomini, donne e bambini, e che erano stati «utilizzati» non solo i loro averi e i loro abiti, ma le loro ossa, i loro denti, perfino i loro capelli (se ne trovarono sette tonnellate alla liberazione del campo); né si sapeva che le vittime dell’intero sistema concentrazionario ammontavano a nove o dieci milioni; soprattutto, si ignorava che la Germania nazista, e accanto ad essa tutti i paesi occupati (Italia compresa), erano un unico mostruoso tessuto di campi di schiavi. Una carta geografica dell’Europa di allora dà le vertigini: solo in Germania, i Lager propriamente detti (e cioè le anticamere della morte, quali sono descritte in questo libro) erano centinaia, e a questi vanno aggiunti migliaia di campi appartenenti ad altre categorie: si pensi che i soli internati militari italiani erano circa seicentomila. Secondo una valutazione di Shirer (nella Storia del Terzo Reich), i lavoratori coatti in Germania nel 1944 erano almeno nove milioni.

Risulta dalle stesse pagine di questo libro quale intimo rapporto legasse l’industria pesante tedesca con l’amministrazione dei Lager: non era certo un caso che per gli enormi stabilimenti della Buna fosse stata scelta come sede proprio la zona di Auschwitz. Si trattava di un ritorno all’economia faraonica e ad un tempo di una saggia decisione pianificatrice: era palesemente opportuno che le grandi opere ed i campi di schiavi si trovassero fianco a fianco.

I campi non erano dunque un fenomeno marginale e accessorio: l’industria bellica tedesca si fondava su di essi; erano una istituzione fondamentale dell’Europa fascistizzata, e da parte delle autorità naziste non si faceva mistero che il sistema sarebbe stato conservato, e anzi esteso e perfezionato, nel caso di una vittoria dell’Asse. Si prospettava apertamente un Ordine Nuovo su basi «aristocratiche»: da una parte una classe dominante costituita dal Popolo dei Signori (e cioè dai tedeschi stessi), e dall’altra uno sterminato gregge di schiavi, dall’Atlantico agli Urali, a lavorare e obbedire. Sarebbe stata la realizzazione piena del fascismo: la consacrazione del privilegio, l’instaurazione definitiva della non-uguaglianza e della non-libertà.

Ora, il fascismo non vinse: fu spazzato, in Italia e in Germania, dalla guerra che esso stesso aveva voluta. I due paesi risorsero rinnovati dalle rovine, e iniziarono una faticosa ricostruzione: il mondo apprese con orrore incredulo l’esistenza delle «fabbriche di cadaveri» di Auschwitz, Dachau, Mauthausen, Buchenwald, e insieme provò sollievo al pensiero che il Lager era morto, che si trattava di un mostro appartenente al passato, di una convulsione tragica ma unica, colpa di un solo uomo, di Hitler, e Hitler era morto, e il suo sanguinoso impero era crollato con lui.

È passato un quarto di secolo, e oggi ci guardiamo intorno, e vediamo con inquietudine che forse quel sollievo era stato prematuro. No, non esistono oggi in nessun luogo camere a gas né forni crematori, ma ci sono campi di concentramento in Grecia, in Unione Sovietica, in Vietnam, in Brasile. Esistono, quasi in ogni paese, carceri, istituti minorili, ospedali psichiatrici, in cui, come ad Auschwitz, l’uomo perde il suo nome e il suo volto, la dignità e la speranza. Soprattutto, non è morto il fascismo: consolidato in alcuni paesi, in cauta attesa di rivincita in altri, non ha cessato di promettere al mondo un Ordine Nuovo. Non ha mai rinnegato i Lager nazisti, anche se spesso osa metterne in dubbio la realtà. Libri come questo, oggi, non possono piú essere letti con la serenità con cui si studiano le testimonianze sulla storia passata: come Brecht ha scritto, «la matrice che ha partorito questo mostro è ancora feconda».

Proprio per questo, e perché non credo che la reverenza che si deve ai giovani comporti il silenzio sugli errori della nostra generazione, ho accettato volentieri di curare un’edizione scolastica di Se questo è un uomo. Sarò felice se saprò che anche uno solo dei nuovi lettori avrà compreso quanto è rischiosa la strada che parte dal fanatismo nazionalistico e dalla rinuncia alla ragione.

Da Se questo è un uomo, collana «Letture per la scuola media», Einaudi, Torino 1973, pp. 5-7.