La resistenza nei Lager
È difficile cogliere il significato e il peso di un evento storico durante il suo svolgersi, o pochi anni dopo la sua conclusione: proprio quando le tracce sono piú fresche, le ferite piú dolorose, piú numerose e concitate le voci dei testimoni e dei superstiti, proprio allora è arduo, quasi impossibile, procedere con la necessaria obiettività al lavoro paziente e approfondito della ricostruzione storica. Affinché il quadro si definisca, le deformazioni e gli errori siano cancellati, occorre tempo, anche in questa nostra epoca in cui il passo della storia sembra acceleri di anno in anno il suo ritmo.
Solo in questi ultimi anni il triste fenomeno della strage e della schiavitú modernamente restaurata nei campi di concentramento, sta trovando la sua prospettiva storica nella coscienza collettiva dell’Europa e del mondo. Solo adesso è possibile valutarne l’importanza e misurarne la minaccia, comprendere quale sarebbe stato il destino della nostra civiltà se l’hitlerismo avesse prevalso. Se questa non assurda ipotesi si fosse verificata, vivremmo in un mondo mostruoso, un mondo bipartito, di signori e di servi: di signori al di sopra di ogni legge, di servi privi di ogni diritto, sottoposti ad ogni arbitrio, condannati ad una esistenza di lavoro estenuante, di ignoranza, di clausura e di fame.
Infatti, la condizione del prigioniero nel moderno campo di concentramento riproduce (dobbiamo osare scrivere «riproduceva»?), peggiorata ed aggravata, la condizione dello schiavo. Dello schiavo, il padrone intende fare una persona abietta, e che si sa, si sente abietta: una persona che non solo ha perso la libertà, ma l’ha dimenticata, non ne prova piú il bisogno, quasi neppure il desiderio. Generalmente ci riesce; ed allora alla sopraffazione materiale si sovrappone una piú triste vittoria, la vittoria della sopraffazione totale, nella carne e nello spirito, della demolizione dell’uomo in quanto tale.
Che in questa situazione disumana, entro una congerie umana discorde e slegata, stremata dalla fatica e dalle stragi periodiche, abbia ugualmente attecchito il seme della resistenza europea contro il fascismo, è un fatto estremamente importante e nuovo, degno di uno studio attento, che ne chiarisca i limiti e il significato. La resistenza nei campi di concentramento, come quella che si sviluppò nei ghetti polacchi, è da annoverare accanto alle piú grandi vittorie dello spirito sulla carne, accanto alle imprese piú eroiche della storia umana, che sono le piú disperate, quelle in cui si combatte a spalle scoperte, e nessuna speranza di vittoria sostiene i combattenti e rinnova le loro forze.
Non soltanto la fame perpetua e la fatica e il conseguente stato di esaurimento fisico rendevano estremamente difficile l’organizzazione di una resistenza nei campi di concentramento: intervenivano altri ostacoli altrettanto gravi.
Era impossibile o molto pericoloso comunicare con l’esterno: non soltanto mantenere rapporti con i centri di resistenza che si erano costituiti ovunque, nei paesi occupati dai tedeschi, ma anche soltanto ricevere notizie dal di fuori o mandarne. Mancavano, naturalmente, le armi, e anche il denaro o il modo di procurarsene. Esisteva in ogni campo una sezione della terribile Gestapo, mascherata sotto il nome di «Sezione Politica» o di «Ufficio del Lavoro»: essa si giovava dei servizi di un buon numero di spie, scelte fra i prigionieri stessi, in modo che ogni parola, ogni cenno ad una organizzazione di difesa poteva condurre a denunce e a rappresaglie collettive di severità estrema. Questa atmosfera di sospetto, di sfiducia reciproca, avvelenava ogni tentativo di rapporto umano, e contribuiva a fiaccare ogni volontà di opposizione. Infine, la popolazione dei campi era fortemente promiscua: non a caso, era sforzo costante dei comandi SS, preposti ai campi di concentramento, di mantenere in questi una permanente babele di lingue e di nazionalità. Non basta: occorre ricordare che i campi comprendevano prigionieri appartenenti a tre categorie principali (per tacere delle molte minori): i politici, gli ebrei ed i criminali comuni.
Questi ultimi, i cosiddetti «verdi» dal colore del loro contrassegno, erano per lo piú criminali tedeschi incalliti, piú volte recidivi, che erano stati tolti dalle prigioni per offrire loro posizioni di privilegio nei campi di concentramento: malgrado la loro turbolenza e indisciplina, essi si rivelarono i piú utili strumenti di oppressione, di corruzione e di spionaggio nelle mani delle SS, e i piú immediati nemici dei politici e degli ebrei. È significativo il fatto che, dopo la rotta di Stalingrado, una gran parte dei «verdi» vennero rilasciati in massa dai campi, ed arruolati nei reparti combattenti delle SS. Poiché la direzione interna era affidata ai prigionieri stessi, in molti campi si assistette ad una segreta lotta per il potere fra i «verdi» e i «rossi» (e cioè i politici): forti questi ultimi della loro esperienza cospirativa e della loro decisa volontà antinazista, forti i verdi delle loro migliori condizioni fisiche e dell’appoggio delle SS. Solo nei campi in cui i «verdi» ebbero la peggio poterono instaurarsi strutture di autodifesa o di opposizione da parte delle altre due categorie.
Eppure, a dispetto di tutte queste circostanze avverse, in quasi tutti i campi di maggior mole si giunse alla resistenza. L’impresa fu piú facile nei campi in cui i politici erano piú numerosi e meglio organizzati: tipicamente, a Mauthausen e a Buchenwald, dove si giunse a costituire potenti comitati clandestini di difesa in cui erano rappresentati i principali partiti e nazionalità del campo.
Non sarebbe stato realistico proporsi compiti impossibili o prematuri, quali una resistenza armata o una liberazione del campo dall’interno: l’azione dei comitati si indirizzò verso scopi piú immediati e concreti. Uomini di fede sicura furono collocati ai posti chiave, dell’amministrazione del campo: l’infermeria, l’ufficio del lavoro, la segreteria, gli approvvigionamenti. Divenne cosí possibile contenere, o almeno controllare, la decimazione degli elementi politicamente piú utili, salvare paracadutisti alleati, eliminare invece molte spie e collaboratori; eseguire caute azioni di sabotaggio nelle officine e nei cantieri, in specie nelle fabbriche d’armi; ascoltare e diffondere notizie sui fronti di guerra mediante apparecchi radio costruiti segretamente; mantenere rapporti con altri campi; infine, e fu forse questa l’opera di piú immediata utilità e benefizio per i compagni di prigionia, fu possibile eliminare o attenuare le gravi ingiustizie e furti nella distribuzione delle razioni alimentari: fattore fondamentale di sopravvivenza.
Né si deve sottovalutare il fattore morale: l’intuizione, la voce che entro il filo spinato qualcosa pure sopravvivesse di amico, una potenza misteriosa, indefinita, ma diversa e avversa a quella nazionalsocialista, fu di straordinario aiuto per tutti i prigionieri, e contribuí a mantenere in loro la volontà di vivere.
In molti casi si giunse alla preparazione di una vera resistenza attiva, che avrebbe dovuto entrare in azione all’avvicinarsi del fronte e bloccare eventuali tentativi tedeschi di annientare i campi insieme con i prigionieri, o di deportare in blocco questi ultimi verso l’interno del paese. In Buchenwald e Mauthausen si costruirono armi rudimentali, con esplosivi trafugati nei cantieri; tuttavia, nel generale sfacelo che accompagnò ovunque la ritirata tedesca, raramente queste squadre di emergenza ebbero occasione di intervenire.
Altrimenti andarono le cose nei campi a cui piú propriamente si addice il nome (coniato dai tedeschi stessi) di «Vernichtungslager», campi di annientamento: Auschwitz-Birkenau, Treblinka, Maidanek, Sobibor. In questi luoghi di orrore non si entrava che per morire: la sopravvivenza media non superava i tre mesi. La loro popolazione, continuamente rinnovata, era costituita in prevalenza da ebrei, che vi giungevano già esausti da mesi o anni di ghetto, di fame, di fughe disperate, di esistenza precaria ai margini del consorzio umano. Si trattava per lo piú di intere famiglie, con donne, bambini, vecchi, ammalati: i quattro quinti di ogni convoglio, a poche ore dall’arrivo, dopo una sommaria selezione, finivano direttamente agli impianti di sterminio in massa. Entravano in campo solo gli uomini e le donne piú/ giovani, giudicati adatti al lavoro; ma dopo poche settimane la fatica, la fame, le malattie, le percosse avevano ragione anche delle fibre piú forti e determinate a resistere.
È comprensibile che entro questa umanità miserevole la volontà di resistere non assumesse altra forma che quella di tentativi singoli e saltuari, ad opera principalmente di giovani aderenti ad organizzazioni sionistiche. Ma anche nei campi della morte la struttura interna voluta dai tedeschi, e fondata sulla corruzione e sulla collaborazione di funzionari-prigionieri «scelti», divenne paradossalmente veicolo e matrice di resistenza. Frammisti agli oppressi, e ai molti docili e abietti strumenti di oppressione, uomini di sovrumano coraggio agirono nell’ombra: riuscirono talora a intralciare ed inceppare la macchina di morte tedesca, riuscirono principalmente a salvare nei Lager la dignità umana. Accumularono e nascosero materiale documentario, talvolta perfino fotografie scattate con estrema audacia sotto gli occhi delle SS, diari, liste di nomi, copie di documenti di archivio, che avrebbero dovuto servire (come in effetti servirono) a trasmettere alla posterità una immagine autentica del mondo concentrazionario.
Il piú importante episodio di ribellione attiva alla potenza nazista nei campi di sterminio è l’insurrezione del Sonderkommando di Auschwitz-Birkenau, nell’ottobre del 1944: episodio tragico e sinistro, i cui precisi particolari mai saranno noti poiché tutti i protagonisti furono sterminati. Sotto il nome reticente di «Sonderkommando» («Squadra Speciale») si celava una istituzione mostruosa: il complesso dei prigionieri addetti alle camere a gas e ai forni crematori. Era costituito da 900-1000 giovani robusti, di varie nazionalità, a cui era stata proposta l’alternativa di servire gli impianti di morte, o di morire: il loro lavoro orrendo era ricompensato con un trattamento di eccezione (viveri in abbondanza, tabacco, alcool, buoni vestiti e scarpe), ma tutti sapevano, e loro stessi sapevano, che entro due-tre mesi sarebbero stati a loro volta massacrati, e sostituiti con uomini nuovi.
Quando la deportazione dei 100 000 ebrei ungheresi volse al termine, si sparse nel campo la notizia che le stragi sistematiche sarebbero state sospese. Gli uomini del Sonderkommando compresero che questo significava la loro fine immediata: certamente i tedeschi non avrebbero lasciato vivi testimoni come loro. La rivolta, che avrebbe dovuto essere concordata coi partigiani polacchi delle foreste circostanti, divampò invece prematuramente, sotto la spinta della necessità, quando i tedeschi allontanarono con un pretesto ed uccisero i primi 160 uomini del Kommando. Gli altri attaccarono allora il presidio SS con disperata audacia, armati di un solo fucile mitragliatore, di poche pistole e di rudimentali bombe a mano fabbricate con bottiglie di vetro; uno dei quattro forni crematori venne incendiato ed esplose. Un tratto della recinzione di filo spinato, percorso da corrente ad alta tensione, fu abbattuto: soltanto poche decine di insorti poterono uscire vivi dal campo, trovarono rifugio in una fattoria polacca, furono denunziati, nuovamente catturati ed uccisi.
In questa lotta disperata alle porte dei forni crematori solo una decina di SS persero la vita; tuttavia l’insurrezione, subito nota in tutti i campi del distretto di Auschwitz, costituí un avvenimento di enorme importanza. Aveva manifestato una lacuna, una fenditura nell’edificio ferreo del campo di concentramento; aveva dimostrato che i tedeschi non erano invincibili. Per i tedeschi stessi essa dovette suonare come un segnale di allarme, poiché pochi giorni dopo il comando del campo provvide a smantellare e a far saltare le officine della morte di Auschwitz, che da sole avevano ingoiato piú vite umane di tutti gli altri campi di concentramento riuniti insieme: forse nell’assurda speranza di distruggere ogni testimonianza del maggior delitto che mai sia stato commesso nell’intera, e pur cosí sanguinosa, storia del genere umano.
In «Il telefono della Resistenza», numero unico edito a cura del Comitato per le celebrazioni del Ventennale della Resistenza nella Stipel (1945-65), Ilte, Torino 1965 (poi in «Quaderni del Centro Studi sulla deportazione e l’internamento», n. 3, Associazione Nazionale Ex Internati, Roma 1966).