Nessuna mostra mi è sembrata goffa ed inutile quanto quella, assurdamente protratta chissà perché e chissà fino a quando, che ingombra il palazzetto della benemerita Società Promotrice delle Belle Arti a Torino, e si intitola senza infingimenti «Atroci macchine di tortura nella storia». Non già che non mantenga quanto promette; le macchine ci sono, autentiche o ricostruite, e sono atroci quanto basta, ma tutto il resto, tutto il contorno, è pretestuoso e falso.

Falso, anzi falsetto, è il tono delle didascalie: fortunatamente, sono collocate con angolature sbagliate, in modo che il riflesso delle lampade ne rende molte illeggibili. È un tono che oscilla tra il compiacimento gaglioffo e la facezia goliardica, e, in quel contesto, allega i denti. Di alcune macchine fatte per creare dolore si loda «la resa [sic] in termini di agonia», del gatto a nove code si esaltano «i notevoli pregi», ed un altro tipo di staffile viene definito «divertente».

Mi pare che affiori qui l’origine di questa mostra itinerante: è nata dagli sforzi riuniti di un certo numero di collezionisti del ramo, italiani e stranieri. Confesso di nutrire una certa diffidenza per i collezionisti, a meno che non siano mossi da una precisa passione culturale, o non abbiano aperti intenti speculativi, o non abbiano meno di quattordici anni (o un’età mentale corrispondente).

Se non c’è almeno uno di questi requisiti, un collezionista è essenzialmente uno che non sa che fare del suo tempo: e fin qui, non c’è ancora molto di male. Ma se la sua curiosità è rivolta alle armi, o peggio, alle «atroci» eccetera, la mia diffidenza si appesantisce. Un collezionista cosí fatto non può che avere un esprit mal tourné: se si coltiva la sua mania da privato cittadino, entro le sue quattro mura, è affare esclusivamente suo, o tutt’al piú del suo psicoanalista. Ma se si consorzia con i suoi congeneri e ci butta tra i piedi la sua merce, diventa affare di tutti.

Falsa è la patina culturale di cui la mostra si veste. Non credo alla cultura di chi scrive «strinto» per «stretto», mi parla di guerriglieri catalogni, dice che «il carnefice si sfotte» del condannato, confonde l’informatica con l’informazione ed ignora l’uso corretto del modo congiuntivo; tanto meno ci credo quando simula un rigore filologico che non ha, e che, su di un argomento osceno quale è la tortura, sarebbe comunque fuori luogo.

Altrettanto fuori luogo è il pistolotto femministico a proposito del maschilismo dei torturatori, e appare simulato e contrabbandato lo sdegno per l’uso, passato o presente, di questi congegni. Chi ne è sinceramente indignato non ne fa collezione e non li mette in mostra, ma ci pensa su, cerca di ricostruire un tempo in cui il reo, vero o presunto, era equiparato a un dannato, degno pertanto dei tormenti dell’inferno, ed in cui queste macchine, enfatiche, ridondanti, alcune addirittura adorne, dovevano servire ad esaltare l’aspetto teatrale della punizione, ed a fortificare la fede e l’obbedienza all’ordine terrestre o celeste attraverso la riduzione del contravventore da essere umano a «cosa».

Qui si viene al punto. False ed ipocrite sono soprattutto le pretese motivazioni: ai fini di una crociata contro la tortura, questo baraccone nuoce piú che non giovi. La ricomparsa della tortura del nostro secolo, sulla scia dei regimi di Hitler e di Stalin, ha poco a che vedere con queste macchine.

La tortura d’oggi, sciaguratamente presente un po’ dappertutto (forse in Italia meno che altrove), ha con esse una parentela unicamente formale. Non è teatrale ma segreta; non ha fini teologici o cosmici, bensí politici; è, purtroppo, «razionale», e con armi razionali va combattuta. È il male massimo, peggiore ancora della pena di morte; distrugge il corpo del tormentato e lo spirito del tormentatore; ma, per allontanarla da noi, a cosa serve questa grossolana esibizione di un’altra barbarie? Si può essere certi che non uno fra i torturatori potenziali ne sarà uscito mutato; e che, invece, ne sarà vivificato il fondo sadico che giace ignoto in molti tra noi.

In «La Stampa», 28 dicembre 1983.