In occasione del centenario dell’inaugurazione della nostra Sinagoga, avvenuta il 16 febbraio 1884, noi ebrei torinesi abbiamo risoluto di venir meno, per una volta, al nostro duplice tradizionale riserbo. È il ben noto riserbo piemontese, legato a radici geografiche e storiche, per cui c’è chi vede in noi i meno italiani fra gli italiani, sovrapposto al millenario riserbo dell’ebreo diasporico, avvezzo da sempre a vivere nel silenzio e nel sospetto, ad ascoltare molto ed a parlare poco, a non farsi notare, perché «non si sa mai».

Non siamo mai stati molti: poco piú di quattromila negli anni Trenta, ed è stata la quota massima che abbiamo mai raggiunta; poco piú di mille oggi. Eppure, non crediamo di cadere nell’enfasi se affermiamo di aver contato per qualcosa, e ancora di contare, nella vita di questa città. Paradossalmente, la nostra storia di gente tranquilla e dimessa è connessa con quella del maggior monumento torinese, che dimesso non è, né conforme alla nostra indole: come è diffusamente raccontato nel saggio qui seguente di Alberto Racheli, abbiamo corso il serio rischio di condividere con Alessandro Antonelli la responsabilità per la presenza, in pieno centro urbano, della Mole, spropositato punto esclamativo. Beninteso, anche noi, come tutti i torinesi, nutriamo per la Mole un certo amore, ma è un amore ironico e polemico, da cui non ci lasciamo accecare. La amiamo come si amano le pareti domestiche, ma sappiamo che è brutta, presuntuosa e poco funzionale; che ha comportato un pessimo uso del pubblico denaro; e che, dopo il ciclone del 1953 ed il restauro del 1961, sta su grazie ad una protesi metallica. Insomma, da un pezzo non ha piú neppure diritto ad una menzione nel Guinness dei primati: non è piú, come ci insegnavano a scuola, «la piú alta costruzione in laterizi d’Europa». Serbiamo perciò gratitudine postuma all’assessore municipale Malvano, nostro correligionario, che nel 1875 ebbe l’abilità di rivendere al Comune l’edificio commissionato e non finito, divoratore di quattrini. Se l’operazione non fosse riuscita, si dovrebbe assistere oggi ad uno spettacolo malinconico: le poche centinaia di ebrei che vanno al Tempio nelle feste solenni, e le poche decine che ci vanno per le cerimonie quotidiane, sarebbero quasi invisibili nell’enorme spazio racchiuso dalla cupola antonelliana.

Tuttavia, come dicevo, se non ci fossimo stati, la città sarebbe stata diversa, e questa mostra si ripromette di dimostrarlo. Quando i nostri avi (per lo piú non torinesi, ma residenti in gran parte nelle comunità minori del Piemonte) si sono inurbati, verso la fine del secolo scorso, hanno portato con sé il grande, forse l’unico, dono specifico che la Storia ha legato agli ebrei: l’alfabetismo, la cultura, religiosa e laica, sentita come un dovere, un diritto, una necessità e una gioia della vita; e questo in tempi in cui, in Italia, la popolazione era analfabeta in gran maggioranza. Perciò l’emancipazione non li ha colti impreparati: come mostrano le storie di molte famiglie delineate dai pannelli, nel giro di una o due generazioni gli ebrei usciti dal ghetto sono passati agevolmente dall’artigianato e dal piccolo commercio alle industrie nascenti, all’amministrazione, ai pubblici uffici, alle forze armate e alle università. Anzi, proprio nell’ambiente accademico gli ebrei torinesi hanno lasciato tracce illustri, in tutto sproporzionate alla loro consistenza numerica, e la loro presenza è tuttora cospicua per quantità e qualità. In questa loro ascesa, che del resto era parallela a quella di molta piccola borghesia cristiana, essi sono stati favoriti anche dalla fondamentale tolleranza della popolazione. È stato detto che ogni paese ha gli ebrei che si merita: l’Italia postrisorgimentale, paese di antica civiltà, etnicamente omogeneo e indenne da gravi tensioni xenofobe, ha fatto dei suoi ebrei una classe di buoni cittadini, rispettosi delle leggi, leali allo Stato, alieni dalla corruzione e dalla violenza.

Sotto questo aspetto, l’integrazione dell’ebraismo italiano è peculiare nel mondo; ma forse ancora piú peculiare è l’equilibrio dell’ebraismo torinese-piemontese, che si è facilmente integrato pur senza rinunciare alla propria identità. Salvo casi rari e periferici, quali i centri dello Yemen e del Caucaso, tutte le comunità ebraiche del mondo portavano (e portano) i segni della tormentata storia del popolo d’Israele, intessuta di stragi, espulsioni, separazioni mortificanti, tassazioni esose ed arbitrarie, conversioni forzate, migrazioni. Gli ebrei espulsi da un paese (dall’Inghilterra nel 1290, dalla Francia per tutto il XIV secolo, dalla Renania al tempo delle crociate, dalla Spagna nel 1492, fino alle recenti migrazioni verso le Americhe) cercavano rifugio altrove, sovrapponendosi alle comunità esistenti o fondandone di nuove: erano dunque doppiamente stranieri, per la loro religione e per la loro provenienza. Perciò, la maggior parte delle comunità sono stratificate ed internamente composite, con occasionali tensioni e spaccature. Ne ha dato un disegno vivace Israel Zangwill, nel suo famoso racconto Il re degli schnorrer, in cui si narra l’incontro-scontro, ambientato nella Londra del primo Ottocento, fra un ebreo «spagnolo», mendicante dotto e protervo, ed un ebreo «tedesco» integrato, ricco e sprovveduto. Ad Amsterdam gli ebrei locali, di origine tedesca, avevano dato accoglienza agli ebrei espulsi dalla Penisola iberica, senza che le due componenti si fondessero in grande misura. Ci sono tuttora a Venezia ben cinque sinagoghe, originariamente destinate ad ebrei di provenienze e riti diversi. Simile è la situazione attuale a Parigi, dove convivono ebrei di vecchia origine francese con ebrei algerini, egiziani, polacchi, russi, tedeschi ecc. Il caso piú complesso, e di maggior peso storico, è notoriamente quello di Israele, dove la compresenza di ebrei appartenenti a tutti i rami della diaspora costituisce tuttora un intricato problema di politica interna; il caso piú recente è quello della comunità di Milano, in cui l’afflusso massiccio di profughi dagli Stati arabi e dall’Iran sta provocando perturbazioni ed attriti, insieme con un imprevisto accrescimento numerico.

Per contro, gli ebrei torinesi, di lontana origine franco-provenzale e spagnola, non hanno mai subito apporti consistenti da altre regioni. Infiltrazioni sí, in varie epoche, come attestano alcuni cognomi di provata origine tedesca (Ottolenghi, Diena, Luzzati, Morpurgo, e ovviamente Tedeschi) e il solitario termine dialettale e liturgico «ij ursài», l’anniversario di un decesso, che è la corruzione del yiddish «yorzeit», «tempo dell’anno»: ma rapidamente assorbite entro un tessuto sociale che è rimasto etnicamente stabile fino al quarantennio (1880-1920) a cui questa mostra è dedicata; anzi, fino ad oggi, a stridente contrasto con quanto è accaduto nella città di Torino, che al tempo del boom economico ha ingoiato cinque o seicentomila immigrati nel giro di due o tre anni, con mutamenti profondi di tutte le sue strutture e sovrastrutture.

Che si trattasse di un piccolo popolo consapevole della sua identità, e dotato di una sua fisionomia consolidata, quasi un villaggio incastonato entro la capitale sabauda, è dimostrato dalla prevalente endogamia, raramente estesa oltre i confini della regione, e dalla curiosa parlata giudeo-piemontese, oggi tema di studio per linguisti e sociologi, ma già descritta da un acuto osservatore delle cose piemontesi qual era stato Alberto Viriglio. Affinché questo ibrido linguistico nascesse e sopravvivesse, era indispensabile una profonda integrazione con la popolazione maggioritaria, una adeguata memoria della lingua liturgica (l’unico tramite per cui l’ebraico e l’aramaico hanno seguito le correnti della diaspora), ed un clima privo di forti tensioni tra maggioranza e minoranza. Non nascono lingue ibride quando queste tensioni esistono: non si è mai formato, ad esempio, un dialetto giudeo-polacco, né ibridi italo-tedeschi in Alto Adige, mentre gli emigrati italiani negli Stati Uniti, a dispetto della scarsa compatibilità fonetica, hanno sviluppato fin dagli inizi una loro parlata specifica, accortamente sfruttata da Pascoli in un celebre poemetto.

I nostri padri, e soprattutto le nostre madri, si servivano quotidianamente e con naturalezza del giudeo-piemontese: era la lingua della famiglia e della casa. Erano tuttavia consapevoli della sua intrinseca forza comica, che scaturiva dal contrasto fra il tessuto del discorso, che era il dialetto piemontese, rustico e laconico, e l’incastro ebraico, ricavato dalla lingua dei patriarchi, remota ma ravvivata ogni giorno dalla preghiera pubblica e privata e dalla lettura dei Testi, levigata dai millenni come l’alveo dei ghiacciai. Ma questo contrasto ne rispecchiava un altro, quello essenziale dell’ebraismo disperso fra «le genti» (i gentili, appunto), teso tra la vocazione divina e la miseria quotidiana; e un altro ancora, ben piú vasto, quello insito nella condizione umana, poiché l’uomo è bipartito, è un impasto di alito celeste e di polvere terrena. Il popolo ebreo, dopo la diaspora, ha vissuto dolorosamente questo conflitto, e ne ha tratto, accanto alla sua saggezza, il suo riso, che infatti manca nella Bibbia e nei Profeti.

A questi nostri avi onesti, laboriosi ed arguti, non eroici, non santi né martiri, non troppo lontani nel tempo e nello spazio, è dedicata questa mostra. Siamo consapevoli dei suoi limiti, che abbiamo deliberatamente ristretti. Sulla storia degli ebrei torinesi nei decenni successivi altre cose ci sarebbero state da dire, e di peso ben diverso: il loro precoce impegno antifascista, pagato con lunghissimi anni di prigione e confino, e scaturito da quella sete di libertà e di giustizia che percorre tutta la storia ebraica; le vite esemplari di uomini quali Umberto Terracini, Leone Ginzburg, Emanuele ed Ennio Artom, Giuseppe, Mario e Alberto Levi, i caduti partigiani Sergio, Paolo e Franco Diena; la partecipazione ebraica alla Resistenza, ancora una volta assai superiore a quanto il numero comportasse; gli 800 deportati, di cui non resta che una lapide nel nostro cimitero. Ma non abbiamo voluto, in questa occasione, parlare di vittorie, sconfitte, lotte e stragi. Intendiamo qui ricordare, invitare al ricordo, e farci conoscere, prima che sia troppo tardi. Esiste infatti, per ogni gruppo umano, una massa critica, al di sotto della quale la stabilità cessa: si va allora verso una diluizione sempre piú spinta, e verso un silenzioso e indolore dissolvimento. La nostra comunità, a meno di eventi imprevedibili, pare avviata su questa strada. Intendiamo con questa mostra fare opera di pietà filiale, far vedere ai nostri amici torinesi, ed ai nostri figli, chi siamo e di dove veniamo.

Da aa.vv., Ebrei a Torino. Ricerche per il Centenario della Sinagoga (1884-1984), Allemandi, Torino 1984.