Prefazione a Gli ebrei dell’Europa orientale
Questo volume contiene gli atti del convegno, che si è svolto a Torino nel gennaio 1984, sull’itinerario degli ebrei dell’Europa orientale «dall’utopia alla rivolta», e tiene in serbo parecchie sorprese per il lettore italiano, sia cristiano sia ebreo. Sulla stazione terminale di questo itinerario, e cioè sulle rivolte sanguinose e disperate nei ghetti e nei Lager, si è letto molto, a vari livelli: da opere storicamente serie ed approfondite fino a trasfigurazioni epiche e a romanzi di consumo. Se n’è occupato anche il cinematografo, anche qui a vari livelli di dignità artistica e di rigore filologico. Per contro, sugli antecedenti, sulle intricate vicende storiche e sociali che alla ribellione hanno condotto, e da cui la ribellione ha attinto la sua forza esemplare, si sapeva abbastanza poco, o si avevano nozioni parziali e distorte.
In Occidente, ed in specie in Italia (dove la presenza ebraica è sempre stata numericamente esigua, e dove, anche negli anni terribili del dilagare della barbarie hitleriana, i profughi ebrei in cerca di salvezza erano pochi), si aveva dell’ebraismo orientale un’immagine vaga e poetica, importata attraverso i canali della letteratura, a cui avevano contribuito in misura preminente e prepotente, proprio per la loro forza trasfiguratrice, i libri di Joseph Roth e dei fratelli Singer, dai quali il lettore ricava fondamentalmente la nozione di un ebreo avulso dal mondo, confinato (volontariamente o no) nel suo shtetl, ad un tempo prigione e nido; estraneo, ignaro, non toccato dalle convulsioni politiche che nel corso dell’Ottocento e del primo Novecento mutavano il volto e i confini dei paesi europei; luftmensch, «uomo d’aria», nutrito di fede ingenua, di affetti famigliari, di leggende pittoresche e stralunate; mite, dimesso, erratico, nevrotico. Su questa raffigurazione se ne sovrapponeva un’altra, negativa, frutto della propaganda fascista o sedimento di antichi pregiudizi: l’ebraismo, apparentemente disperso fra le nazioni (i gojim), di fatto è un blocco unitario, una potenza astuta e perversa intesa alla conquista economica del mondo, consolidata da segreti legami che scavalcano tutte le frontiere.
Il quadro che scaturisce da questi scritti, sia dalle testimonianze, sia dalle ricostruzioni storiche, è radicalmente diverso: non solo piú articolato, ma anche piú concreto e credibile, piú idoneo a farci comprendere la realtà di ieri e di oggi. Nella seconda metà del secolo scorso, la civiltà pittoresca e trasognata dello shtetl sopravvive, ma è marginale: nel mondo ebraico, come nel resto dell’Europa, è in corso un intenso processo di inurbamento. Le piccole comunità rurali polacche, russe e lituane si spopolano: le fabbriche delle grandi città attirano gli artigiani, i piccoli borghesi e commercianti, che si sentono piú protetti contro lo stillicidio dei pogrom contadini. Nasce un proletariato ebraico urbano, simile e diverso rispetto al proletariato maggioritario. Simile per lo sfruttamento spietato a cui si trova sottoposto; diverso, e piú irrequieto e diviso, perché allo sfruttamento si somma spesso l’ostilità di cui si sente circondato. Il proletario ebreo porge attento orecchio al verbo socialista e marxista, ma non dimentica la sua identità: è diviso tra due fedeltà, alla sua classe ed alla sua origine. Da questa tensione nasce una incredibile varietà di soluzioni che gli vengono proposte; ma sul finire del secolo si vanno delineando due indirizzi di fondo, fra loro incompatibili, ed entrambi carichi di promessa messianica.
Dal trauma dell’affare Dreyfus nasce (o rinasce) il profetismo sionista. Qui, in Europa o anche in America, sei uno straniero, e lo sarai sempre: se dimenticherai di essere un ebreo, ci penseranno «gli altri» a ricordartelo. Hai una terra, la terra dei tuoi padri: è lontana, è ridotta a deserto, ma se tu la coltiverai, fiorirà, stillerà latte e miele. Se la redimerai, essa ti redimerà: non sarai piú né straniero né schiavo. Sembra un sogno, ma se lo vorrai diventerà realtà. Paradossalmente, questo invito risveglia l’attenzione benevola delle autorità zariste: perché no? Se se ne vogliono andare, perché ostacolarli? I leaders sionisti prendono contatti addirittura con i funzionari della polizia dello zar: è una mossa abile e spregiudicata, che desta scandalo nel campo dell’internazionalismo socialista ebraico.
Fra le varie tendenze che competono tra loro in questo campo, emerge presto un filone socialdemocratico che, nel 1897, si costituisce in un sindacato-partito dapprima semiclandestino, poi ufficiale: l’Unione generale dei lavoratori ebrei di Lituania, Polonia e Russia, il Bund. Quanto siamo lontani da tutti gli stereotipi! I membri del Bund, operai ed intellettuali, non sono né umili né rassegnati. La loro doppia fedeltà si è mutata in un doppio orgoglio: orgoglio proletario, orgoglio diasporico. L’alijah, il ritorno alla terra dei sionisti, è una diserzione, una fuga: perché trapiantarsi in Palestina e ricostruirvi l’odiata società borghese? Il nostro paese è questo, dove siamo nati e dove sono nati i nostri avi di carne e di sangue, non i patriarchi della Torah. Qui siamo e qui vogliamo restare, in Polonia e in Russia, proletari fra i proletari di tutto il mondo, perché la nostra lotta è la loro: ma non siamo come loro. Abbiamo, e desideriamo conservare, la nostra autonomia culturale, ed in primo luogo la nostra lingua: non l’ebraico, lingua dei rabbini, lingua di una religione che rifiutiamo come tutte le religioni, ma lo yiddish, la mame-loshn, la lingua madre, quella che da secoli si parla nelle nostre case. Il centro di gravità dell’ebraismo siamo noi, è qui, do in yiddish; il nostro patriottismo è la «doikeyt», la «qui-ezza». «Il messianismo dei bundisti, assorbito negli anni della fanciullezza da genitori, nonni ed insegnanti, anche quando veniva respinto a livello cosciente, alimentava in modo del tutto naturale l’escatologia messianica della concezione del mondo socialista» (Frankel).
Intorno alla svolta del secolo, il Bund è il maggior partito operaio ebraico dell’impero zarista. È affiancato da vari partiti minori con cui è in permanente concordia discorde; è scosso da conflitti interni, come ogni partito socialista, ma, a differenza di altri partiti socialisti, non ha alcuna propensione per i compromessi: anzi, attraverso scioperi, congressi, dimostrazioni, si sforza di mantenere i suoi aderenti in una condizione di collera tempestosa e permanente. Nel 1905 tocca l’apice della sua carica rivoluzionaria: dispone di una organizzazione paramilitare bene addestrata, ed è uno fra i grandi partiti rivoluzionari della Russia europea. Quando, nel giugno, si ammutinano i marinai della corazzata Potëmkin, è una giovane bundista, Anna Lipšic, che tiene comizio, davanti a decine di migliaia di ascoltatori e davanti ai fucili puntati dei cosacchi e della polizia; ma dalla fallita rivoluzione di quell’anno il Bund esce indebolito. In Russia, sarà schiacciato dai bolscevichi nel 1919, insieme con gli altri partiti della sinistra; sopravvivrà in Polonia fino alla strage nazista: ma né in Russia né in Polonia muore di morte naturale.
Visto con il senno del poi, lo sforzo utopico del Bund può apparire temerario: ma nessuno, allora, avrebbe potuto prevedere la misura, anzi, la mancanza di misura, dei regimi di Hitler e di Stalin. La storia che è seguita ha dato ragione ai detestati sionisti, «antisemiti che parlano yiddish», secondo uno degli slogan del Bund: per gli ebrei dell’Europa orientale non ci sarebbe stata salvezza se non nell’emigrazione. Ma il vigore ideologico e morale del Bund ha ritrovato un suo tragico splendore proprio negli anni cruciali del terrore nazista: senza l’apporto dell’esperienza insurrezionale dei bundisti, la rivolta del ghetto di Varsavia, e le altre eroiche rivolte dei ghetti e dei Lager di sterminio, non ci sarebbero state, o si sarebbero ridotte a spasimi locali, disperati ed improvvisati, privi di contenuto ideale. Solo nei ghetti assediati dalla fame, dalla strage quotidiana e dalle epidemie, solo nell’unica resistenza europea condotta fino all’estremo senza la luce della speranza, i fratelli nemici, bundisti e sionisti e comunisti, hanno trovato concordia nell’unità d’azione.
Mi pare che, grazie alle pagine qui raccolte, davanti al lettore italiano (o in genere occidentale) i combattenti dei ghetti acquistino una fisionomia nuova, storicamente credibile, e soprattutto moderna: piú lontana da quella degli eroi semplificati, dei paladini senza macchia cari al folklore di tutti i tempi; piú vicina a noi, alle nostre scelte tuttora controverse, alla nostra perenne ricerca ebraica di identità. E i loro precursori, gli attivisti indomiti del Bund, del primo sionismo e di tutte le altre innumerevoli tendenze e correnti (di cui è lontano specchio la pletora di partiti che complica ancor oggi la vita politica di Israele), erano come noi ciechi davanti al futuro, ma avevano capito precocemente, e la loro storia ci fa capire, che l’inerzia e la servilità non pagano.
Da aa.vv., Gli ebrei dell’Europa orientale dall’utopia alla rivolta, a cura di M. Brunazzi e A. M. Fubini, Edizioni di Comunità, Milano 1985, pp. IX-XIII.