«Un passato che credevamo
non dovesse ritornare piú»
Se ventinove anni or sono, alla liberazione dai Lager, qualcuno ci avesse predetto che il mondo libero, da cui stavamo per essere riassorbiti, sarebbe stato meno che perfetto, non gli avremmo creduto. Ci sarebbe sembrata un’assurdità, un’ipotesi talmente sciocca da non poter essere presa in considerazione.
Era un sogno ingenuo, ma tutti lo abbiamo fatto: ci sarebbe apparsa del tutto priva di senso, e quindi tanto piú crudele, la nostra esperienza, tanto piú ingiusta la morte dei nostri compagni, se avessimo potuto prevedere che quel fascismo contro cui avevamo combattuto, che ci aveva destituiti a schiavi, marcati come bestiame, era sconfitto ma non morto, e si sarebbe trapiantato di paese in paese. La nostra condizione di prigionieri senza termine, condannati senza processo ad un’esistenza di fame, di percosse, di freddo e di fatica, e alla fine alla morte per gas come i topi, era in sé talmente ingiusta che, pensavamo, sarebbe stata ampiamente sufficiente a squalificare il nazifascismo agli occhi di tutti, a dimostrarne la iniquità come i teoremi dimostrano la verità della geometria: anzi, a farlo sparire per generazioni, forse per sempre.
Solo chi non voleva vedere non avrebbe visto: le testimonianze erano tanto abbondanti ed eloquenti che ogni uomo pensante avrebbe dovuto rendersi conto che quello che fu chiamato l’universo concentrazionario, nella Germania nazista e nei paesi occupati e alleati, non era affatto un fenomeno marginale ed accessorio, ma l’essenza stessa del fascismo, il suo coronamento, la sua realizzazione ultima e definitiva. A costo di ripetere cose piú volte descritte, ed oggi attestate da una mole impressionante di documenti, ritengo che metta conto di ricordare quale sia stata la natura e l’estensione del fenomeno Lager.
I primi campi di concentramento, una cinquantina, vengono istituiti già nel 1933, immediatamentre dopo che il nazismo è salito al potere: si tratta di caserme o fabbriche abbandonate, dove vengono frettolosamente rinchiusi gli avversari politici del nazismo. Essi vengono sottoposti a un regime di torture disumane, ad arbitrio dei singoli comandanti: lo scopo è per il momento soltanto quello di spargere il terrore e di decapitare ogni partito o movimento che tenti di opporsi al nuovo regime. Ma presto prevale l’ordine: dei primi Lager «selvaggi» solo Dachau e Oranienburg sopravvivono, e nel 1934 sono già istituzioni destinate a durare, che albergano parecchie migliaia di prigionieri. Agli atti di bestialità individuale, si va sostituendo un regime freddamente organizzato di repressione e di soppressione collettiva.
Nel 1936-37 inizia la proliferazione: i comandanti, tutti appartenenti alle SS, hanno fatto scuola, e nuclei di prigionieri vengono rideportati in varie regioni della Germania e poi dell’Austria, dove, secondo un piano ben definito, essi stessi si circondano di nuovo filo spinato; nascono Buchenwald, Ravensbrück, Mauthausen e molti altri.
Nel 1939, all’inizio della guerra, i Lager sono circa cento: ma, con la fulminea occupazione della Polonia, il Terzo Reich viene a trovarsi tra le mani, secondo l’espressione di Eichmann, «le sorgenti biologiche del giudaismo», e per i Lager si va delineando un secondo scopo; vengono rapidamente fondati Maidanek, Treblinka, poi Auschwitz, e questi sono qualcosa di nuovo, di mai visto nella storia dell’umanità. Non sono piú una versione crudele del carcere in cui si fa soffrire e morire il nemico politico, ma fabbriche a rovescio, in cui entrano ogni giorno treni gremiti di esseri umani, ed escono soltanto le ceneri dei loro corpi, i capelli, l’oro dei denti.
Dopo vari esperimenti, il metodo piú «redditizio» è stato trovato, e il comandante Höss se ne vanta nelle sue memorie: sono le camere a gas, in cui mille e piú esseri umani per volta, prima ancora di essere presi in carico, vengono uccisi con l’acido cianidrico; sono i forni crematori, in cui i loro cadaveri vengono inceneriti. La sola Auschwitz può distruggere diecimila vite in un giorno, e arriva a piú di trentamila quando occorre.
Ma la guerra non accenna a finire, divora uomini su tutti i fronti, e la mano d’opera necessaria allo sforzo bellico della Germania si fa sempre piú scarsa. Si va delineando un conflitto fra le SS, che insistono con fanatismo cieco affinché la strage prosegua, e le industrie, a cui occorrono operai. Si raggiunge un compromesso: i piú validi di ogni convoglio, uomini e donne, lavoreranno fino all’esaurimento, gli altri (i meno robusti, i vecchi, i bambini) andranno «per il camino». È questo il terzo scopo a cui i Lager possono servire, e in pari tempo è un modello per l’Ordine Nuovo che nazisti e fascisti vogliono imporre all’Europa. È un Ordine Nuovo su basi «aristocratiche»: da una parte il Popolo dei Signori, e cioè la classe dominante, a pianificare e comandare, e dall’altra uno sterminato gregge di schiavi, dall’Atlantico agli Urali, a lavorare e ubbidire.
Sarebbe stata la realizzazione piena del fascismo, del suo ordine, della sua gerarchia: la consacrazione del privilegio, della non-uguaglianza, della non-libertà. Non credo che in alcun luogo del mondo esistano oggi camere a gas né forni crematori, ma non si legge senza inquietudine che prima cura dei colonnelli in Grecia, e dei generali in Cile, è stata la istituzione di grandi campi di concentramento, a Yaros, a Dawson: ed esistono oggi, quasi in ogni paese, carceri, istituti minorili, ospedali, in cui, come ad Auschwitz, spesso l’uomo perde il suo nome e il suo volto, la dignità e la speranza.
L’esperienza di allora, per la sua stessa crudezza, ha fatto di noi piuttosto degli accusatori che dei giudici: ma è per noi oggetto di costante meditazione e di raccapriccio, vedere i semi del fascismo attecchire negli stessi paesi (non nei popoli) a cui il mondo deve la sconfitta del nazifascismo. Ci sono ancora, in Unione Sovietica, campi di lavoro da cui si esce umiliati e rotti. Sono ritornati i bombardamenti indiscriminati nel Vietnam; si pratica la tortura in tutti i paesi del sud America in cui esistono governi di comodo appoggiati dagli Stati Uniti.
Ogni tempo ha il suo fascismo: se ne notano i segni premonitori dovunque la concentrazione di potere nega al cittadino la possibilità e la capacità di esprimere ed attuare la sua volontà. A questo si arriva in molti modi, non necessariamente col terrore dell’intimidazione poliziesca, ma anche negando o distorcendo l’informazione, inquinando la giustizia, paralizzando la scuola, diffondendo in molti modi sottili la nostalgia per un mondo in cui regnava sovrano l’ordine, ed in cui la sicurezza dei pochi privilegiati riposava sul lavoro forzato e sul silenzio forzato dei molti.
In «Corriere della Sera», 8 maggio 1974.