Prefazione a L. Poliakov, Auschwitz
A quasi un quarto di secolo dalla liberazione dei Lager, oggi ancora non si riesce a leggerne la storia con animo spassionato. Ogni anno che passa contribuisce a definire e a dilatare le proporzioni storiche del fenomeno: è ormai chiaro alla coscienza dei piú che i campi di sterminio del III Reich, che hanno estinto una civiltà e creato una somma incalcolabile di dolore e di morte, costituiscono, insieme con l’armamento nucleare, il centro oscuro della storia contemporanea.
Tutto, o quasi tutto, è ormai noto sul «quia», sui particolari anche piú riposti dell’organizzazione dei Lager, poiché la diligenza posta dai nazisti sconfitti nel distruggerne le tracce non è bastata. Assai poco invece si sa sul loro «perché»: per quali ragioni e cause, prossime o lontane, abbia potuto nascere in questo civile continente una gigantesca fabbrica di morte, e funzionare con atroce efficienza fino al collasso tedesco, è rimasto enigmatico. La sorpresa delle truppe alleate, che per prime penetrarono incredule e sconvolte in quel mondo infero, non si è spenta: le spiegazioni proposte da storici, sociologhi, psicologi possono essere acute ed ingegnose, nessuna di esse soddisfa veramente.
Non è un rimprovero alla diligenza ed alla documentazione di Poliakov (entrambe fuori discussione) osservare che la sua opera che qui presentiamo non risolve l’enigma: l’A. stesso, nel capitolo «Auschwitz e la Germania», implicitamente lo ammette, e del resto nessun saggio, nessun trattato lo potrebbe risolvere, perché quanto ad Auschwitz è avvenuto non si può comprendere, anzi, forse non si deve comprendere. Mi spiego: «comprendere» un proponimento o un comportamento umano significa (anche etimologicamente) contenerlo, contenerne l’autore, mettersi al suo posto, identificarsi con lui. Ora, ed anche per questo la lettura di queste pagine ci sgomenta, non riusciremo mai, nessun uomo normale riuscirà ad identificarsi, anche per un solo momento, con i disgustosi esemplari umani (Himmler, Goering, Goebbels, Eichmann, Höss e molti altri) qui abbondantemente citati. Ci sgomenta, ed insieme ci porta sollievo: perché è bene, è desiderabile, che le parole di questi ultimi, e purtroppo anche le loro opere, non ci riescano piú comprensibili. Non devono essere comprese: sono parole ed opere extra-umane, anzi, contro-umane, senza precedenti storici, a stento paragonabili alle vicende piú crudeli della lotta biologica per l’esistenza. A quest’ultima lotta può essere ricondotta la guerra: ma Auschwitz non ha nulla a che vedere con la guerra, non ne è un episodio, non ne è una forma estrema. La guerra è un tristo fatto di sempre: è deprecabile, ma è in noi, è un archetipo, è in germe nel delitto di Caino, in ogni conflitto fra individui. È il prolungamento della collera: e chi non conosce la collera, chi non l’ha sentita in sé, magari repressa, magari invece maturata e goduta?
Ma in Auschwitz non c’è collera: Auschwitz non è in noi, non è un archetipo, è fuori dell’uomo. Gli autori di Auschwitz, che qui ci vengono presentati, non sono in preda all’ira né al delirio: sono diligenti, tranquilli, volgari e piatti; le loro discussioni, dichiarazioni, testimonianze, anche postume, sono fredde e vuote. Non le possiamo capire: lo sforzo di capirle, di risalirne alla fonte, ci appare vano e sterile. Ci auguriamo che non compaia troppo presto l’uomo capace di commentarle, e di renderci chiaro come, nel cuore della nostra Europa e del nostro secolo, il comandamento «Non uccidere» sia stato capovolto.
Eppure, ogni uomo civile è tenuto a sapere che Auschwitz è esistito, e che cosa vi è stato perpetrato: se comprendere è impossibile, conoscere è necessario. In questo senso, necessaria appare la vasta opera storica di Poliakov, e in specie questa raccolta di documenti, che ne è il compendio. Auschwitz è fuori di noi, ma è intorno a noi, è nell’aria. La peste si è spenta, ma l’infezione serpeggia: sarebbe sciocco negarlo. In questo libro se ne descrivono i segni: il disconoscimento della solidarietà umana, l’indifferenza ottusa o cinica per il dolore altrui, l’abdicazione dell’intelletto e del senso morale davanti al principio d’autorità, e principalmente, alla radice di tutto, una marea di viltà, una viltà abissale, in maschera di virtú guerriera, di amor patrio e di fedeltà a un’idea: non si leggono senza sconfortata sorpresa le abiette voci servili qui citate, di Stark il fisico, premio Nobel; di Heidegger il filosofo, maestro di Sartre; di Faulhaber il cardinale, suprema autorità cattolica in Germania.
La peste si è spenta, ma Bormann e il Dr. Mengele vivono indisturbati nel Sud-America; ma i tribunali austro-tedeschi moltiplicano scandalose assoluzioni e semi-assoluzioni; ma Globke (p. 32) gode di una dignitosa pensione dopo essere stato per lunghi anni segretario di Adenauer; ma la deportazione e la tortura sono ricomparse in Algeria, nella Russia staliniana e altrove; ma in Vietnam un intero popolo è minacciato di distruzione.
Finché questo avviene intorno a noi, la lettura di queste amare pagine è un dovere per tutti. Esse destano in noi perplessità, disperazione e furore retrospettivo, ma sono nutrimento vitale per chi si proponga di vegliare sulla coscienza del suo paese e sulla sua propria.
Da L. Poliakov, Auschwitz, Ventro, Roma 1968, pp. 9-11.