Prefazione a Y. Katzenelson,
Il canto del popolo ebraico massacrato
Davanti al «cantare» di Yitzhak Katzenelson ogni lettore non può che arrestarsi turbato e reverente. Non è paragonabile ad alcun’altra opera nella storia di tutte le letterature: è la voce di un morituro, uno fra centinaia di migliaia di morituri, atrocemente consapevole del suo destino singolo e del destino del suo popolo. Non del destino lontano, ma di quello imminente: Katzenelson scrive e canta dal mezzo della strage, la morte tedesca si aggira intorno a lui, ha già compiuto il massacro piú che a metà ma la misura non è ancora colma, non c’è tregua, non c’è respiro; sta per colpire ancora e ancora, fino all’ultimo vecchio e all’ultimo bambino, fino alla fine di tutto.
Che in queste condizioni e in questo stato d’animo il morituro canti, e si riveli poeta, ci lascia frementi di esecrazione e di esaltazione insieme. Queste sono poesie necessarie, se mai altre ce ne sono state: intendo dire, se cosí spesso ci coglie il dubbio, davanti ad una pagina, che le cose scritte dovessero o non dovessero essere scritte, e potessero o non potessero essere scritte in altro modo, qui ogni dubbio tace.
Al disopra dell’orrore che ogni volta ci coglie davanti a queste testimonianze pur note, non possiamo reprimere un moto di stupore ammirato per la purezza e la forza di questa voce.
È la voce di un universo culturale ignoto in Italia da sempre, ed oggi scomparso: la voce di un popolo che piange se stesso. I versi in cui l’angoscia di Katzenelson si fa piú pungente e piú concreta sono proprio quelli in cui rivive il mondo culturale dell’ebraismo d’oriente: «Il sole, levandosi sugli shtetlekh di Lituania e di Polonia, non incontrerà piú | un vecchio ebreo raggiante intento a recitare alla finestra un salmo… | il mercato è morto… | Mai piú un ebreo vi porterà la sua allegria, la sua vita, il suo spirito». Questa cultura, il cui strumento secolare è la lingua yiddish, è schiettamente popolare: il suo filone verbale è sempre stato piú vivo di quello scritto e sempre quello ha alimentato questo. Vi confluiva una straordinaria sensibilità musicale che aveva le sue radici nelle feste di villaggio descritte da Babel´ e dipinte da Chagall ed ha portato alle piú illustri scuole moderne di esecutori; vi confluiva una tradizione teatrale portentosamente vitale, e stroncata poi, colpo su colpo, dalle stragi di Hitler. Una letteratura varia e viva, ricca di spiritualità, di una triste comicità sue proprie, e di una umile e forte volontà di vita, eternata da quel piccolo capolavoro che è La storia di Tevye il lattivendolo di Shalom Aleichem.
Anche Katzenelson, come la maggior parte degli scrittori, dei musici e dei teatranti yiddish, è poeta popolare: ma scaturisce e trae alimento da un popolo che è unico in Europa e nel mondo, un popolo in cui la cultura (quella sua particolare cultura) non è privilegio di una classe o di una casta, ma è di tutti e in cui il Libro ha sostituito la Natura in quanto fonte per eccellenza di ogni intuizione mistica, filosofica o poetica. Perciò non stupisce di ritrovare nel disperato e talora grezzo lamento di Katzenelson l’eco di parole eterne, la continuità e l’eredità legittime di Ezechiele, di Isaia, di Geremia e di Giobbe; né stupisce che egli stesso ne sia fiero e conscio: «… in ogni ebreo grida un Geremia, un Giobbe disperato».
Appunto per questa accettata e proclamata eredità biblica, mi pare che la migliore delle poesie di questa raccolta sia quella intitolata «Ai cieli»: qui è Giobbe che parla, un Giobbe moderno piú vero e compiuto dell’antico, ferito a morte nelle sue cose piú care, nella famiglia e nella fede, orbo ormai (perché? perché?) dell’una e dell’altra. Ma alle domande eterne del Giobbe antico si erano levate voci in risposta, le voci prudenti e timorate dei «consolatori molesti», la voce sovrana del Signore: alle domande del Giobbe moderno nessuno risponde, nessuna voce esce dal turbine. Non c’è piú un Dio nel grembo dei cieli «nulli e vuoti», che assistono impassibili al compiersi del massacro insensato, alla fine del popolo creatore di Dio.
Da Y. Katzenelson, Il canto del popolo ebraico massacrato, a cura di F. Beltrami Segré e M. Novitich, Beit Lohamei Haghetaot, Torino 1966 (poi Cdec, Milano 1977, pp. 5-6).