Al visitatore affrettato, la Varsavia d’oggi non rivela il disagio profondo che erode il paese. È una città moderna, allietata dal verde, con abitazioni decorose e funzionali, pulita, ordinata, con bei viali percorsi da mezzi pubblici efficienti e da poche automobili (in effetti, molti cittadini invidiano il traffico caotico delle nostre città).

Ma è una città artificiale: la Varsavia degli Anni Trenta è stata distrutta quasi totalmente; dai barbarici bombardamenti aerei con cui i tedeschi iniziarono senza preavviso, nel 1939, l’invasione del paese, e poi, in misura spaventosa, nel corso dell’insurrezione nazionalista dell’agosto 1944. Il tessuto urbano lacerato è stato ricostruito dopo la pace con l’aiuto finanziario dei sovietici, che tuttavia, fermi sull’altra sponda della Vistola, avevano lasciato ai tedeschi lo sporco lavoro di liquidare le forze armate nazionali polacche, a loro stessi poco gradite.

In questa città nuova c’è un luogo singolare. Nel quartiere di Muranòw, in uno spiazzo modesto e sullo sfondo anonimo di case popolari, sorge il monumento agli eroi del Ghetto: una piramide tronca ornata di altorilievi piuttosto ingenui e retorici; ma la retorica è parte integrante dei monumenti, non esiste monumento che non appaia retorico dopo una o due generazioni.

Tuttavia, lo stato d’animo del visitatore muta di colpo quando egli mediti sui fatti che quel monumento ricorda. Nella città piú volte distrutta, Muranòw fu piú che distrutto: fu letteralmente raso al suolo, trasformato in un deserto di pietre frantumate, calcinacci e mattoni.

Contro questo quartiere si era scatenato il genio germanico della distruzione perché era quella la sede del ghetto, e perché là, or sono quarant’anni esatti, era avvenuto un fatto che avrebbe dovuto stupire il mondo se il mondo allora lo avesse saputo. Nell’aprile del 1943, il primo giorno della Pasqua ebraica, un nucleo di ebrei murati nel ghetto avevano dichiarato guerra alla Grande Germania, si erano sollevati in armi, avevano incredibilmente vinto la prima battaglia, ed erano stati sterminati.

Nel mosaico delle Resistenze europee, la lotta del Ghetto di Varsavia occupa un posto unico. Quegli insorti non avevano alcun retroterra alle spalle, non aspettavano aiuti né dalla terra né dal cielo, non avevano alleati: vivevano anzi, da anni, in condizioni miserande. Dalla ristretta area del ghetto, recinta da un alto muro, tutti i polacchi cristiani erano stati costretti ad andarsene; al loro posto erano stati insediati dapprima i centoquarantamila ebrei di Varsavia, poi, via via gli altri ebrei provenienti da altre città; nel gennaio 1941 la superficie del ghetto era stata ulteriormente ridotta, mentre il numero degli abitanti superava il mezzo milione.

L’affollamento era pauroso: da sette persone per vano fino a dieci, poi addirittura a quindici. Le strade stesse erano gremite in permanenza da una folla disperata, irrequieta, ma soprattutto affamata: le razioni alimentari erano inferiori alla metà del minimo vitale, piú basse perfino di quelle dei Lager. Superare il muro era punito con la fucilazione, ma molti, in specie i bambini, rischiavano ogni giorno la morte per contrabbandare in ghetto il cibo comprato in borsa nera nella città cristiana.

Eppure, in questa cittadella ammorbata dal fetore dei cadaveri che ogni mattina giacevano a centinaia nelle strade, infestata dai ratti e dalle epidemie, atterrita dalle razzie delle SS, funzionavano scuole, biblioteche, sinagoghe, infermerie, associazioni di mutuo soccorso. Funzionavano anche fabbriche i cui prodotti erano destinati alle forze armate tedesche: gli operai, uomini e donne, erano costretti ad orari estenuanti con paghe irrisorie, ma il lavoro era ugualmente ambito perché era il solo modo di mettersi al riparo (temporaneamente!) dalle deportazioni «verso est».

I manifesti affissi alle cantonate parlavano di campi di lavoro agricolo, ma si seppe presto che si trattava dei Lager di sterminio totale, Treblinka e Belzec. Ma funzionava anche, a dispetto delle ispezioni tedesche, delle rappresaglie e delle spie, un embrione di struttura militare, costituita quasi per intero da giovani sionisti.

La loro esperienza di combattimento era quasi nulla e l’armamento risibile: poche pistole, fucili e mitragliatrici, in parte ottenuti dalle organizzazioni della clandestinità polacca, in parte comprati a prezzi esosi in borsa nera, in parte strappati ai tedeschi con temerari colpi di mano, in parte ancora fabbricati pezzo per pezzo, con selvaggia pazienza, nelle officine-caserme che lavoravano per i tedeschi.

Mancava loro, soprattutto, quanto diede forza alle altre Resistenze, la speranza fondata di sopraffare il nemico e di sopravvivere, se non tutti almeno alcuni, per costruire un mondo migliore. Ma i difensori del ghetto non avevano alcuna possibilità di salvarsi, e lo sapevano: potevano solo scegliere fra due modi di morire.

Il 18 aprile 1943 si era saputo che i tedeschi stavano preparando una deportazione in massa. Il giorno dopo, un migliaio di militi delle SS che erano penetrati nel ghetto furono accolti da fucilate e lancio di bottiglie incendiarie, e ripiegarono in disordine. Il comandante tedesco fu immediatamente sostituito, e proprio dai rapporti del suo successore, il generale Stroop, si può misurare il dislivello morale fra i contendenti: da ogni riga trapela il disprezzo a priori per il disperato eroismo degli ebrei.

Che questi sappiano combattere, e in quelle condizioni, supera la capacità mentale di Stroop, per il quale gli avversari non sono che «assassini e banditi». Stroop descrive senza un fremito di vergogna, nella sua prosa da burocrate, gli ebrei che si gettano dai balconi piuttosto che arrendersi, le donne che «usavano pistole con entrambe le mani»: non poteva capire che, mentre i suoi uomini combattevano in obbedienza cieca agli ordini ricevuti, ognuno dei suoi avversari aveva compiuto una sovrumana scelta individuale.

Il combattimento ineguale si protrasse per piú di un mese, con sorpresa sempre rinnovata dei tedeschi, e furore senza limiti di Hitler e di Goebbels. Il 16 maggio Stroop dichiara che la «grande azione» è finita: ma in realtà, nascosti fra le rovine, annidati nel reticolo delle fogne, nelle cantine, nei solai, un centinaio di ebrei combatterono ancora saltuariamente fino al dicembre. Pochissimi fra i difensori del ghetto si sono salvati unendosi a gruppi partigiani.

A quarant’anni di distanza, e in un mondo sempre piú inquieto, non vogliamo che il sacrificio degli insorti del Ghetto di Varsavia vada dimenticato. Essi hanno dimostrato che anche dove tutto è perduto, è concesso all’uomo di salvare, insieme con la propria dignità, quella delle generazioni avvenire.

In «La Stampa», 17 aprile 1983.