L’intolleranza razziale
Incomincerò con una dichiarazione di umiltà.
Il nostro è un tempo strano, è un tempo in cui coloro che ti spiegano tutto abbondano; è il tempo degli spiegatori, di coloro che ti chiariscono tutto, che vanno a fondo di tutto, con le sue cause e le sue conseguenze; e questo non c’è dubbio che sia un tentativo lodevole. Ma credere di avere veramente spiegato tutto, nel senso originario della parola, cioè di avere chiarito il perché necessario dei fenomeni storici, quei motivi che conducono necessariamente a una conseguenza, quel nesso fra causa ed effetto ché il fondamento delle scienze, è un poco azzardato.
Bisogna dire che questo modo di spiegare non funziona molto bene, per i fenomeni di cui si parla in questo corso; credere di avere spiegato tutto in senso deterministico è molto ingenuo, e farlo credere, indurre il pubblico e gli ascoltatori a credere che veramente la spiegazione soddisfacente e totale ci sia, senza dubbio è un inganno.
Per questo motivo le cose che dirò stasera non saranno che un tentativo di spiegazione, non saranno che una proposta, una serie di proposte.
Il fatto stesso che dei fenomeni collegati al pregiudizio e all’intolleranza si dia non una spiegazione sola ma molte, significa non tanto che le spiegazioni sono effettivamente molte, ma che la spiegazione, la motivazione completa e soddisfacente non è stata trovata, o non c’è, o si annida molto profondamente all’interno dei nostri cervelli, o forse addirittura al di là dei nostri cervelli, in qualche luogo piú profondo.
Le intolleranze, e in specie l’intolleranza razziale di cui devo parlare questa sera, sono dei fenomeni a molte facce, come tutto quello che riguarda l’uomo, la sua mente, la sua storia.
Sono argomenti che non sono mai chiusi, e su cui si potrà discutere sempre.
L’intolleranza razziale, lo dice la parola stessa, è l’intolleranza fra razze umane. Ora, non c’è discussione possibile – le razze umane esistono. Non c’è nessun dubbio che la pelle di un negro sia nera, o sia piú scura di quella di un bianco, non c’è nessun dubbio che gli occhi dei giapponesi, degli orientali, abbiano un taglio diverso dal nostro, non c’è dubbio che esistano razze umane di statura piú alta, di statura piú bassa…
Ma quando si cerca di definire quali sono le razze umane, quali sono i loro segni distintivi, e quali sono le linee di demarcazione tra razza e razza, soprattutto, a quale razza, o a quali razze, appartiene un popolo o un individuo singolo, si entra subito in difficoltà.
La storia del genere umano è favolosamente complicata, intendo la storia scritta, quella di cui in qualche modo abbiamo una documentazione, se non materialmente proprio con degli scritti, almeno con dei resti, con degli avanzi; e risale circa a seimila anni fa.
Ma non c’è nessun dubbio che molto prima che si incominciassero a lasciare tracce, a lasciare documentazione, esistesse già non una sola specie umana, ma innumerevoli razze umane, distinte fra di loro, e quasi certamente in competizione fra di loro.
L’uomo esiste da almeno un milione d’anni e ogni anno si assiste a un retrocedere vertiginoso di questa data, adesso si parla già di tre milioni di anni, ogni anno che passa i nostri antenati sono sempre piú lontani, ci sono sempre nuovi ritrovamenti archeologici; insomma questa origine, questo Adamo e questa Eva, si annidano in un passato sempre piú lontano e non c’è assolutamente ragione di dubitare che cosí come razze diverse c’erano, ci fossero anche attriti fra razza e razza.
È triste dover constatare che la maggior parte dei crani che trovano gli archeologi, negli scavi, e si trovano adesso in Africa orientale, sono crani sfondati – e qualcuno li ha sfondati.
È nota, in buona parte, la storia dell’uomo di Neanderthal; era un essere umano, non era l’homo sapiens, ma era molto simile all’homo sapiens, aveva certamente le stesse abilità tecnologiche nostre, dei nostri lontani antenati; è arrivato fino a dieci, o ventimila anni fa, e poi è stato sterminato, probabilmente da noi, da noi homines sapientes. Questo testimonia che l’avversione, questo oscuro istinto che spinge gli uomini a riconoscersi diversi fra di loro, ha delle radici molto antiche.
Del resto, se ci spostiamo verso tempi piú recenti, verso i tempi che una documentazione hanno lasciata, è stato notato che nei disegni, nei dipinti degli Egizi, coloro che fanno i lavori piú bassi sono dipinti in scuro, sono degli Etiopi, sono dei Nubiani, sono dei Sudanesi in sostanza.
Nel Cantico dei Cantici sta scritto «Nigra sum sed formosa», «Sono nera ma bella», non «Sono nera e bella»; e questa è una traccia importante. E ancora piú importante è la storia che si legge nei primi capitoli della Genesi, quando si parla di Noè, dell’invenzione del vino, dell’ubriacatura di Noè, e del figlio cattivo, del figlio Cam. Questo figlio perverso che scopre la nudità del padre ubriaco, ha un nome, Cam, che in ebraico vuol dire «il bruciato», cioè l’abbronzato, colui che ha la pelle scura. Non viene detto esplicitamente, ma nella genealogia che segue, i popoli che si dicono derivati da Cam, sono i popoli dell’Africa nera. Ed è notevole che già fin da allora si facesse ricorso a una razionalizzazione, cioè questa avversione per l’uomo di pelle scura cercasse e trovasse una giustificazione nel fatto che aveva contravvenuto a un tabú, aveva violato un tabú sessuale; ed è, notate, all’ingrosso, una delle accuse che si fanno ancora adesso piú frequentemente contro il negro.
Il negro è un violatore, è un violatore dei tabú sessuali in specie, è un contravventore. «Io non lo odio perché è nero, ma perché…» eccetera. Cosí la storia biblica, per quanto si riferisce a Cam.
Non è detto che questa avversione profonda sia universale, che infetti tutte le civiltà. Va detto che al tempo dell’Impero romano era pressoché assente; tra gli storici latini si parla di popoli nemici, bianchi o neri, all’ingrosso con la stessa fisionomia; non si fanno molte differenze, non si parla dei Nubiani come di popoli inferiori, che so io, rispetto ai Parti o ai Britanni.
Altre civiltà, altri imperi sono stati profondamente infettati invece da questa pulsione profonda contro il diverso. Basti pensare che questo stesso mito di Cam si ritrova nel termine «camita», tra virgolette; le lingue camitiche, si dice ancora adesso. È un termine poco scientifico, ma ha prevalso. È stato utilizzato, strumentalizzato ancora una volta, è stato razionalizzato durante tutti i secoli in cui è durato il commercio degli schiavi di pelle nera, che è stato un commercio non marginale ma cospicuo, che ha impegnato le flotte mercantili inglesi, portoghesi, spagnole, arabe, olandesi: si può dire che l’intera Europa è stata coinvolta.
Si parla di una cifra, mal valutabile, intorno a cinquanta milioni di schiavi deportati al di là dell’Atlantico, dopo la scoperta dell’America. Non vorrei che raccontando queste cose si volesse infamare soltanto gli uomini di pelle bianca; il commercio degli schiavi era praticato dai negri stessi; partiti dal centro dell’Africa, gli schiavi passavano di mano in mano, dai loro sovrani negri che li vendevano ad altri sovrani che poi li vendevano sulle coste ai mercanti arabi o ai mercanti europei, e finalmente approdavano, con un calo terrificante, sulle sponde dell’America. E se in Nordamerica c’è un problema razziale oggi, un problema negro oggi, è dovuto notoriamente al fatto che questo commercio è durato tanti secoli ed è stato cosí cospicuo anche numericamente; ha spopolato l’Africa in sostanza.
In questo caso, nel caso della tensione razziale, della sopraffazione razziale del bianco sul negro, spesso è molto difficile districare l’intolleranza razziale da una quantità di altri fattori che si intersecano con essa, che la complicano e che sono fattori economici, sono fattori di lingua, sono fattori di religione, sono fattori di livello civile e cosí via. Per cui mi appello ancora una volta a quella dichiarazione di umiltà che ho fatto al principio; spesso non è facile districare le cause, è quasi impossibile trovarne una sola, trovare il perché dell’intolleranza razziale.
Il caso del Sudamerica è insieme simile e diverso.
Mentre l’Europa, i popoli europei, i popoli mediterranei conoscevano l’esistenza dell’Africa nera da tempi immemorabili (c’erano stati dei contatti sempre, fino dai tempi piú remoti), dopo Cristoforo Colombo ci si trovò invece davanti a questa sorpresa, a un continente nuovo, che non era l’India, e a gente, popoli, paesi, abitanti sconosciuti. Anche qui si è immediatamente complicato il problema del contatto fra la civiltà europea e questa nuova civiltà centro e sudamericana, per ragioni economiche, ma anche per ragioni religiose. Si discuteva se gli Indios, questi indiani che non erano indiani, avessero o non avessero un’anima. Se avevano un’anima, dovevano essere convertiti al Cristianesimo; se non avevano un’anima potevano essere sterminati o usati come animali domestici.
Si è discusso a lungo su questo, e ci sono state le due soluzioni: c’è stato lo sterminio, ampio, approfondito, che dura ancora adesso, e insieme il tentativo di acculturarli, cioè di conquistarli alla civiltà europea.
Ancora diverso è il caso degli aborigeni australiani, perché erano, anzi sono, ce ne sono ancora, tremendamente diversi. Sono talmente diversi da far dubitare che appartengano veramente alla specie cui noi apparteniamo. E questo fa pensare a un risvolto; che anche quando esiste la miglior volontà di integrazione, di assimilazione, si urta contro delle difficoltà obiettive. Cioè spesso il popolo che non viene tollerato, a sua volta non tollera il popolo, la civiltà che sopravviene. È un processo esplosivo questo; da un’intolleranza nasce un’altra intolleranza, il fronte diventa doppio, c’è una volontà di non accettazione, di rifiuto, contro un altro rifiuto.
È un effetto a catena, autocatalitico, che porta a situazioni non piú rimediabili. Accennavo prima alla difficoltà di trovare, di individuare le cause. Norberto Bobbio, lunedí scorso, ha concluso la sua lezione dicendo che il pregiudizio nasce nel cervello dell’uomo, e quindi il cervello dell’uomo come lo ha fatto nascere cosí lo può anche estinguere. Io non sono completamente d’accordo su questo; cioè è chiaro che i pregiudizi culturali, il pregiudizio religioso, l’intolleranza religiosa, l’intolleranza linguistica, sono dei fenomeni umani, dico umani fra virgolette, cioè propri dell’uomo, in quanto appartengono alla civiltà dell’uomo, per il bene o per il male.
Penso invece che il pregiudizio razziale sia qualcosa di assai poco umano, penso che sia preumano, che preceda l’uomo, che appartenga al mondo dell’animale, al mondo animalesco piuttosto che al mondo umano. Penso che sia un pregiudizio di tipo ferino, di tipo proprio degli animali feroci, e questo per due motivi: uno, perché lo si ritrova effettivamente negli animali sociali, e ne parlerò dopo; e l’altro, perché non c’è rimedio. Mentre dal pregiudizio religioso ci si può riparare, cambiando religione; contro il pregiudizio linguistico, contro la diversità linguistica il riparo esiste – può essere doloroso, ma assimilando la lingua dell’altro si perde il proprio carattere di diverso –, davanti al pregiudizio razziale una difesa non c’è, il negro rimane negro, i suoi figli rimangono quelli che sono; la difesa manca. E quindi non c’è la salvezza; nel caso che è avvenuto, e ne parleremo, in cui l’intolleranza si muta in ostilità e poi in strage, il rifugio non c’è piú.
Dicevo che il pregiudizio razziale, secondo me – è una soluzione del problema che io propongo – è di origine animalesca; e difatti lo si incontra presso la maggior parte degli animali sociali, gli animali gregari, gli animali che come l’uomo non possono vivere soli, devono vivere in gruppo; presso questi animali si riscontrano molti fenomeni tipicamente umani. Si riscontra quasi sempre una divisione in caste, tipicamente negli imenotteri, nelle formiche e tra le api, dove la divisione in caste è incorporata addirittura, gli individui nascono già stratificati in caste diverse.
Si ritrova il bisogno di una gerarchia; questo è molto strano, mal spiegato, ma è noto a tutti: perfino gli animali domestici manifestano questo bisogno. Tra le mucche, nella mandria, c’è sempre una mucca numero uno; ci sono competizioni che le mucche accettano volentieri, si fanno in Valle d’Aosta, in tutte le valli. Anche tra questi animali cosí profondamente modificati, distorti dalla loro condizione in animali domestici, asserviti all’uomo da millenni, viene tuttavia mantenuto questo bisogno originario di una gerarchia.
Nei pollai, fra le galline, c’è un ordine di beccata; dopo un certo numero di beccate preliminari, si stabilisce un ordine preciso per cui c’è una gallina che becca tutte, una seconda gallina che becca tutte salvo una, e cosí via, fino all’ultima gallina del pollaio che riceve beccate da tutte e non becca nessuna.
E questo fenomeno è raggelante perché è molto simile a quello di cui stiamo parlando.
Accanto a questi fenomeni, diciamoli pure di intolleranza animale, si trovano dei fenomeni che non si possono chiamare altrimenti che i paralleli dell’intolleranza razziale.
Nei libri di Konrad Lorenz, premio Nobel fondatore dell’etologia, che ha scritto dei bellissimi libri di divulgazione, soprattutto in quello che si intitola in italiano Il cosiddetto male, dove si parla dell’aggressione, c’è un capitolo dove si parla dei ratti che secondo me può servire perfettamente come base per spiegarci, per giustificare quella mia affermazione, cioè che l’intolleranza razziale ha origini lontanissime, non solo preistoriche, ma addirittura preumane, addirittura è incorporata in certi istinti primordiali che sono dei mammiferi e non solo dei mammiferi.
Con questo non voglio dire, anzi mi guardo bene dal dirlo, che sia un male non sradicabile; se siamo uomini è perché abbiamo imparato a metterci al riparo, a contravvenire, a ostacolare certi istinti che sono la nostra eredità animale.
Racconta Lorenz che i ratti si dividono spontaneamente in tribú, che i ratti di una certa cantina, di una certa cella, sono una tribú diversa e ostile ai ratti che abitano nella cella accanto; se si prende il ratto della cantina n. 1 e lo si porta bruscamente nella cantina n. 2, viene fatto a pezzi. Se invece lo si prende e lo si porta nella cantina n. 2, ma dentro una gabbia che lo protegga, dopo tre o quattro giorni, sia perché gli altri hanno imparato a riconoscerlo visivamente, viene accettato. Non si può fare a meno di pensare agli analoghi umani, di pensare all’immigrato che fino a quando non ha acquistato non dico l’odore, ma l’accento del paese in cui si è stabilito, viene riconosciuto come diverso; non viene fatto a pezzi di solito, per nostra fortuna, non sempre viene fatto a pezzi – qualche volta è capitato – ma perlomeno viene riconosciuto come diverso, e viene emarginato, viene ostacolato.
Ho parlato di un’intolleranza razziale preumana, di una preistorica, di una intolleranza storica ma lontana (quella delle campagne schiavistiche), e vengo a parlare del razzismo moderno.
I secoli diciannovesimo e ventesimo sono stati i grandi secoli dell’Europa, i secoli in cui si sono costruiti i grandi sistemi filosofici, in cui è nata anche la consapevolezza di questa intolleranza, e la predicazione della tolleranza.
Con tutto questo, proprio all’interno del filone illuministico e poi del filone positivista, si è continuato a cercare di giustificare, di trovare una motivazione razionale a questo istinto che razionale non è. È curioso leggere adesso libri di scienziati assolutamente in buona fede, di persone stimate e stimabili, stimabili ancora oggi.
Ho riletto di recente il libro di un famoso astronomo, Flammarion, un celebre divulgatore, pieno di spirito umanitario, che in un libro sul mondo prima della creazione dell’uomo parla del cervello, di come si è sviluppato a partire dagli animali, dagli invertebrati addirittura. E trova una catena continua di capacità cerebrali, trova che ci sono i mammiferi, poi ci sono le scimmie propriamente dette, poi le scimmie antropomorfe, poi i negri, e poi i bianchi, anzi i francesi. Questo è molto notevole; Flammarion era francese, e trova che il miglior cervello è quello francese, e che tutti gli altri cervelli sono un po’ meno validi, un po’ meno completi, un po’ meno pesanti del cervello dei francesi. Per contro, quando l’antropologo era inglese, non c’era dubbio, era il cervello inglese il migliore. E ci si fermava a misurare non solo il peso del cervello ma il suo volume, il numero delle circonvoluzioni, la superficie della corteccia cerebrale, i diametri del bacino; l’angolo facciale soprattutto.
L’angolo facciale era diventato una cosa estremamente importante; si trovava che l’angolo facciale del negro era proprio a metà strada fra l’angolo facciale del gorilla e quello del francese, o dell’inglese, o del tedesco, naturalmente. Questo era fondamentale, si era trovato ciò che mancava, si era trovato l’anello mancante dell’evoluzione, quell’anello che spiegava il passaggio dall’animale all’uomo. Era trovato, era il negro, o l’aborigeno australiano, qualunque altro; l’europeo no, l’europeo era diverso. In sostanza, si constata che la razza superiore è sempre quella del teorizzatore, e non si è mai visto che un antropologo si accorgesse, con suo terrore, con umiliazione, che la sua razza non era la razza superiore, bensí era una razza inferiore.
Perfino Hegel, il famoso fondatore dell’idealismo, quando parla dei negri dice delle cose che oggi fanno drizzare i capelli; dice che i negri sono fuori del mondo civile, fanno parte della natura, sono natura incontaminata, incorrotta, sono, scusate il gioco di parole, natura allo stato naturale, fanno parte del terreno, fanno parte della vegetazione addirittura. E quindi sono quello che sono, non saranno mai accettabili, sono una razza diversa.
A questo punto bisogna dire che nessuno studio antropologico serio, malgrado gli sforzi di tutti gli antropologi, è mai riuscito a mettere in luce una differenza di valore fra le razze umane, una volta eliminati i fattori che razziali non sono, cioè i fattori culturali. È chiaro, ci sono i bianchi, ci sono i negri, ci sono i gialli e cosí via; sono diversi come aspetto, sono diversi come statura, ma quando si viene a parlare del «valore», cioè del buono e del cattivo, queste differenze sfuggono; occorre accumulare una dose colossale di bugie, di bugie scientifiche magari in buona fede, per riuscire a dimostrare che una razza vale di piú di una certa altra razza.
Per esempio i test psicologici sono stati molto discussi, si è sostenuto in Nordamerica che i test psicologici, fatti, fabbricati dai bianchi, dànno per i negri un quoziente intellettuale diverso.
Ma quando si è fatto il contrario, cioè sono stati dei test messi a punto da scienziati negri applicati ai bianchi capitava lo stesso, cioè il bianco aveva un quoziente di intelligenza che era piú basso.
È chiaro, malgrado tutto, che questa misura del quoziente di intelligenza è una cosa molto presuntuosa e non è cosí neutra come vorrebbe sembrare, a sua volta è uno strumento che serve a razionalizzare. Se si parla dell’apprendimento delle lingue per esempio, si è sostenuto, e molti lo credono ancora adesso, che esista un accento negro; per cui i negri d’America, o i negri trapiantati in Italia, in Francia o altrove, parlino tutti con un accento diverso; si è sostenuto fino a qualche decennio fa che il fatto era irrimediabile, era anatomico: la glottide, la laringe non era uguale a quella dei bianchi. Perciò un negro non avrebbe mai potuto imparare a parlare con un accento corretto una lingua che non fosse la sua.
Questo è totalmente falso; al netto dei pregiudizi appunto, perché pregiudizi sono, si constata che un negro che studia a Oxford, che abita in Inghilterra fin da bambino, parla con il miglior accento oxoniense che si possa immaginare; i negri che studiano in Italia, purché siano stati separati dal loro ambiente fino dall’età in cui si imparano le lingue, apprendono un italiano perfetto, senza traccia di accento.
Basta pensare ai primati sportivi; forse qualcuno ricorderà lo scandalo che si ebbe nel 1936, alle Olimpiadi di Berlino, nella Germania hitleriana e razzista: è successo che un negro, un negro nordamericano, Owens, ha vinto i 100 metri piani. E come hanno potuto cavarsela i razzisti nazionalsocialisti? Han dovuto mettere la cosa a tacere. Era la dimostrazione che almeno in questa prova, la prova dei 100 metri piani, c’era un negro che valeva piú di un bianco.
Ora, se si vede invece, per esempio, l’elenco dei premi Nobel, si trovano uomini di tutte le razze. Non parlo dei premi Nobel letterari, che sono una cosa molto artificiosa, ma dei premi Nobel per la medicina, per la fisica, per la chimica e cosí via che sono una cosa abbastanza seria; si trova che appunto non c’è una razza umana che monopolizza i premi Nobel, che monopolizza il sapere scientifico.
La piú falsa delle filiazioni del razzismo è quella che parla degli incroci. Parte integrante delle teorie razziste tedesche era la convinzione che l’incrocio fosse un meticcio, un ibrido, un bastardo insomma (erano eufemismi, quelli, per dire bastardo) e che l’incrocio di due razze raccogliesse il peggio delle due razze e quindi fosse qualcosa di inferiore. La conseguenza era questa: non si possono, non si devono fare matrimoni misti, che infatti furono proibiti per legge.
Ma la realtà obiettiva, facilmente constatabile, è questa: se qualcosa si può ricavare dalla genetica moderna è che fra specie diverse – «specie» nel senso stretto del termine – l’incrocio non è possibile. Come è noto, un incrocio tra un cavallo e una vacca non è fecondo, o fra specie molto vicine è fecondo, ma il prodotto, il mulo, non è fecondo. Entro la specie, l’incontro è sempre fecondo; la miglior dimostrazione che le differenze fra razze umane non sono differenze di specie è che tutte le razze umane sono feconde fra di loro. E appunto, se qualcosa se ne può ricavare, è che è tanto piú favorevole l’incrocio quanto piú sono lontane le aree da cui proviene; e a questo ha provveduto la selezione naturale, non solo negli animali ma anche nelle piante. Tutti gli animali e tutte le piante dispongono di meccanismi per la dispersione; per esempio, proprio il fenomeno studiato dagli etologi, studiato da Konrad Lorenz, dell’aggressione entro la specie, per cui branco di lupo combatte contro branco di lupo, per cui cane combatte contro cane (non fino alla morte generalmente), per cui ci sono competizioni fra i maschi dei cervi, per cui gli uccelli cantano (cantano per mandar via l’uccello concorrente) consiste nella dispersione, cioè nell’estendersi sulla massima parte di superficie, allo scopo di favorire degli incroci lontani, di non sposarsi fra parenti insomma. Quindi la natura stessa consiglia, prescrive addirittura, attraverso la selezione naturale, che gli incroci avvengano, e che avvengano attraverso la dispersione, su un’area molto grande. Questo motivo, questo mito dell’incrocio che è un tabú, dell’incrocio che non deve essere fatto, dell’incrocio che produce il bastardo, si ricollega a degli archetipi che sono molto antichi e molto misteriosi; cioè alla purezza. Si fa un gran parlare di purezza della razza, si è fatto un gran parlare di purezza della razza, soprattutto proprio nella Germania nazista di cui parleremo dopo. Come se fosse un fatto dimostrato che la razza indoeuropea – come la si chiamava allora – fosse pura, ed essendo pura fosse buona.
Ora, in quel luogo pura non era, perché nulla lo dimostra; erano puri una qualunque razza umana, un qualunque popolo umano.
Devo fare una parentesi.
Questo stesso termine di razza, che io sono costretto ad usare, è molto screditato, dopo che è stato fatto strumento di una delle maggiori stragi di questo secolo, della maggiore strage di questo secolo; sono costretto ad usarlo, lo uso, lo uso tra virgolette per cosí dire, ma sempre con l’avvertenza che, salvo alcune grosse suddivisioni ovvie, di razze umane in Europa, per esempio, è quasi impossibile parlare.
Proprio per quanto riguarda l’Europa, e l’Italia in specie, per poco che si sappia non dico la storia lontana, ma la storia recente d’Italia, si sa benissimo che in duemila anni, da Roma in poi, l’Italia è stata teatro di vicende storiche estremamente complesse, di invasioni, di occupazioni, di migrazioni, nei due sensi, verso l’Italia e fuori dall’Italia, e quindi parlare di una razza italiana o europea è totalmente privo di senso, nel senso in cui dicono i razzisti.
È chiaro, gli Italiani hanno in generale la pelle bianca; ma tutte le altre definizioni sfuggono. Se si va a cercare qualche criterio preciso per reperire delle unità razziali in Italia o in Europa non si trova niente; mi correggo, si trova qualcosa forse solo oggi.
Sta nascendo un ramo interessantissimo e complicatissimo della genetica che permette di seguire un certo carattere genetico con molta precisione, a spese di ricerche molto costose, e finora ha condotto a quello che ci si aspettava, cioè una tremenda confusione, una confusione remota, millenaria. Per cui lo stesso carattere si trova qui, si trova in Irlanda, si trova in Finlandia…
Dicevo prima che il mito razziale ritiene evidente, autodimostrato, che la razza bianca sia la razza superiore per definizione.
Da questa partenza è nato un concetto piú restrittivo; è nato in Germania prima del nazismo, ad opera soprattutto dei filologi tedeschi che avevano notato una strana analogia fra la grammatica e il lessico delle lingue neolatine, delle lingue germaniche, delle lingue slave e del sanscrito, trovato in antichi documenti indiani, tuttora parlato in certe sue varianti in India. Ne avevano ricavato la teoria di una razza ben precisa, che chiamarono razza indogermanica, per due motivi: uno palese, uno nascosto. Il motivo palese era quello che l’India e la Germania erano i due estremi di una razza che parlava una certa lingua e che si era estesa, o aveva occupato, un’area che partiva dall’India e arrivava fino alla Germania. Ma piú profondamente si veniva a dire con questa definizione indogermanica che la Germania era l’erede dell’India, cioè era l’erede di questa civiltà ariana (chiamata abusivamente arianta) che era partita in tempi remoti dall’India, culla dell’umanità, e aveva eletto la sua nuova sede proprio in Germania. Quindi la Germania era un paese privilegiato, era l’erede di una civiltà molto antica.
Tra parentesi, proprio la svastica, quel segno che talvolta si trova ancora oggi sui muri, era un segno sacro in India, e non a caso era stato scelto da Hitler e dai nazionalsocialisti come nuovo simbolo della Germania erede di questa antica civiltà. Civiltà che era pura per definizione, non si doveva discutere perché proprio quella fosse la civiltà per eccellenza; era quella e basta. La svastica era emigrata dall’India a Berlino.
A questo punto siamo arrivati a parlare della piú grossa, della piú terribile tra le mistificazioni ideologiche legate al mito della razza. Ed è paradossale che il razzismo piú micidiale fra tutti i razzismi storici non avesse in sostanza nessuna base concreta, meno basi concrete di quante non ne avesse la distruzione degli Indios brasiliani da parte dei Portoghesi; perché si parlava, non genericamente di una o piú razze non indoeuropee, si parlava di una razza in specie, ed era la razza ebraica.
Occorreva veramente questa specie di fascinazione che a quanto pare Hitler esercitava sul suo pubblico, per poter contrabbandare una sciocchezza tanto grossa – perché se c’è una razza «non-razza» quella è proprio la razza ebraica.
Se si legge quello che resta di documentazione, la Bibbia cioè, l’Antico Testamento, si vede che già allora questo popolo che veniva chiamato degli Ebrei nel testo biblico, era un popolo sfumato, che non faceva altro che assimilare altri popoli, che suddividersi, che occupare altre terre, che mescolarsi con altre popolazioni, che mandare propaggini da tutte le parti; c’era stata in tempi storici una collettività in Egitto, un’altra collettività in Babilonia; è difficile pensare che questa razza si fosse mantenuta pura già allora.
Certamente era già una non-razza a quei tempi; ma da allora sono passati tre millenni e mezzo, e questa razza non-razza si è andata contaminando sempre di piú.
C’è stato quell’episodio, stranamente poco conosciuto, dell’Impero dei Kazari in Ucraina. È successo intorno al VI secolo d. C. che un grosso regno entro i confini dell’attuale Ucraina, si è convertito all’ebraismo. Si è convertito il Re, e siccome allora valeva il principio che «cuius regio, eius religio», di colui a cui appartiene il regno, di questo è la religione, si è convertito, è stato convertito all’ebraismo l’intero popolo Kazaro. È difficile dire quanti fossero, ma parecchi milioni erano sicuramente; ed è quasi certo che il piú grosso nucleo d’Ebrei d’Europa, gli Ebrei polacchi e russi, in buona parte siano proprio discendenti di questi Kazari, cioè non hanno nulla a che fare, neppure ricorrendo al mito del sangue, con gli Ebrei di Palestina. Con tutto questo, proprio contro questa razza non-razza si è scatenata la piú furiosa delle campagne razziali.
Le ragioni sono, anche in questo caso, abbastanza difficili da ripescare; certamente il terreno era predisposto, perché esisteva in Germania prima di Hitler un nazionalismo intenso, legato a vicende risorgimentali, alle difficoltà dell’unificazione tedesca, dovuta alle frontiere malsicure verso est e verso ovest, insomma esisteva un nazionalismo contro tutti, erga omnes, e in specie contro gli Ebrei, questo per molti motivi, ancora una volta, apparenti e meno apparenti. Certamente c’entrava il destino del popolo ebreo, gli Ebrei di Palestina erano stati occupati dai Romani, avevano resistito con vigore, con tenacia all’occupazione romana perché i Romani intendevano assimilarli culturalmente, religiosamente soprattutto, e agli Ebrei questo non piaceva. Gli Ebrei possedevano, e posseggono ancora in parte, un codice religioso e tradizionale estremamente rigido, che non concede di adorare gli idoli; è molto rigida per loro questa prescrizione, questo tabú, questo divieto, di non inchinarsi davanti agli idoli. Per cui si sono ribellati diverse volte contro i Romani, sono stati sterminati in buona parte e in buona parte costretti all’esilio. Si sono stabiliti in tutto il bacino del Mediterraneo, conservando però un legame profondo, che in origine era religioso, fra di loro, fra comunità e comunità e all’interno di ogni comunità. Questo li ha resi prettamente stranieri. Questi nuclei, coerenti fra di loro e all’interno del nucleo, erano legati da una religione diventata poi un codice rituale molto minuto, molto preciso, e una tradizione, che li rendeva completamente diversi; per cui continuamente col passare dei secoli venivano espulsi da un paese, scaraventati in un altro paese, in cui erano ancora una volta stranieri, ancora piú stranieri; quello che avevano assimilato di una certa cultura diventava inutile e occorreva riacquistare una nuova cultura.
Cosí è successo agli Ebrei di Spagna espulsi nel 1500, agli Ebrei dell’Inghilterra espulsi intorno al 1300 e cosí via; per cui veramente era diventato, malgrado la dispersione geografica, un popolo sempre coerente ma nomade, e quindi ad ogni espulsione nuovamente dichiarato straniero.
È certamente questo uno dei motivi per cui la Germania nazionalista, e sciovinista, li sentiva come stranieri; si prestavano bene a servire da capro espiatorio per portare le colpe che i tedeschi non volevano prendersi in proprio.
Su questo quadro si presenta la figura dell’agitatore politico Adolf Hitler, antisemita in proprio, furiosamente antisemita.
Sulle ragioni per cui Hitler era antisemita ed era «cosí» antisemita si sono scritte decine di volumi; ed è la prova che è difficile spiegare anche questo. Certamente era una sua ossessione personale; perché avesse questa ossessione non si sa bene, si è detto di tutto…
Si è detto che temeva di avere sangue ebraico nelle vene, perché una delle sue nonne era rimasta incinta essendo a servizio in una casa di ebrei; e lui si è portato addosso questo timore finché è vissuto, perché ossessionato com’era dalla purezza, temeva di non essere puro lui stesso.
Oppure, altre spiegazioni vengono dagli psicanalisti, che sono appunto quelle che spiegano tutto; dicono, hanno detto, che possedeva dei tratti paranoici, dei tratti perversi, in sé medesimo, e li aveva proiettati sugli Ebrei per espellerli fuori di sé. È una spiegazione che vi dò come l’ho letta, e come l’ho capita, cioè non bene; non conosco il linguaggio degli psicanalisti, forse qualcuno lo racconterebbe meglio di me, comunque è un abbozzo di spiegazione anche questo. E poi, anche spiegazioni economiche. È vero, non si può negare, gli Ebrei appartenevano, al principio di questo secolo, alla borghesia tedesca, avevano posizioni abbastanza forti nella finanza, nella stampa, nella cultura, nelle arti, nel cinematografo e cosí via; quindi certamente delle gelosie c’erano.
Ma si ricade in quello che dicevo prima, cioè in questa confusione inestricabile fra una motivazione razziale, o presunta tale, e altre motivazioni.
Comunque è stato detto che la guerra razziale è stata l’unica guerra che Hitler ha vinto, ed è cosí, l’ha vinta; scatenata contro l’ebraismo tedesco prima, e poi mano a mano contro quello di tutti i paesi occupati dalla Germania, è stata senza pietà, è stata condotta con quel talento dell’approfondimento, del far le cose complete, che caratterizza nel bene e nel male i Tedeschi, e ha portato alla strage, alla morte di sei milioni di Ebrei su una popolazione mondiale di diciassette milioni, quindi qualcosa come vicino a un terzo, e praticamente all’estinzione della cultura e della civiltà ebraiche in paesi come la Lituania, come la Polonia, come l’Ucraina. E se questo non è avvenuto altrove è soltanto perché i Tedeschi non ci sono arrivati, l’intenzione c’era. Merita di ricordare che il testamento che Hitler ha dettato quando aveva i Russi a 80 metri, un’ora prima del suicidio, conclude con una frase in cui si dice: «Soprattutto delego a voi, miei successori, il compito di portare a termine la campagna razziale, di sterminare il popolo ebreo che è il portatore di tutti i mali dell’umanità». Questo mi pare che sarebbe sufficiente a dimostrare che era fuori del razionale, era fuori del ragionevole insomma, questo bisogno, da parte dell’uomo Hitler, di addossare tutte le colpe possibili su un capro espiatorio; e questo capro espiatorio erano tutti gli Ebrei d’Europa.
Non si trattava soltanto di uccidere – e anche questo mi pare che contribuisca a definire il carattere ferino, il carattere animalesco, di questo tipo di odio razziale.
Si può anche uccidere in modo pietoso; un condannato a morte per lo piú si uccide in modo pietoso, avendo pietà di lui, gli si concede di esprimere le ultime volontà; invece, la strage degli Ebrei d’Europa, dell’Europa orientale soprattutto, è avvenuta nel modo piú insensatamente crudele, è avvenuta uccidendo i figli davanti agli occhi delle madri, è avvenuta provocandone la morte solo dopo una serie di dolore superfluo, di umiliazioni superflue, di demoralizzazione, deportando – e qui è una testimonianza personale che vi faccio.
Bisogna pensare che cosa voleva dire essere caricati su un treno, allora nei vagoni merci; voleva dire 50-60 persone, uomini, donne e bambini, costrette a stare cinque giorni, dieci giorni, quindici giorni anche, quando i treni venivano da Salonicco e andavano fino ad Auschwitz, senza mangiare, senza bere, con la promiscuità che immaginate, senza dormire, con un freddo intenso d’inverno e un calore atroce d’estate, con vagoni mai aperti, in modo che prima della morte, che avveniva poi nei campi di concentramento, o nel vagone medesimo nella maggior parte dei casi, avvenisse un processo di brutalizzazione; cioè c’era la volontà precisa di demolire l’umano nell’uomo prima ancora di ucciderlo. E questa credo che sia veramente una cosa unica nella storia, in questa pur sanguinosa storia dell’umanità.
Ancora una testimonianza personale. Io sono stato in un campo di concentramento, ad Auschwitz, e ho lavorato in una fabbrica che veniva bombardata, periodicamente; e a noi facevano sgomberare le macerie.
Era da parecchi mesi, era quasi un anno che eravamo prigionieri, io perlomeno (altri erano due anni che erano prigionieri) e non eravamo belli da vedere, avevamo la barba lunga, avevamo gli abiti stracciati, avevamo i capelli rasati a zero, eravamo sporchi, molti non parlavano il tedesco. Accanto a questa fabbrica bombardata c’era un accampamento di giovani hitleriani; erano ragazzi di quattordici anni, corrispondevano agli avanguardisti che c’erano allora in Italia; appartenevano a tutte le classi sociali, e facevano il campeggio premilitare per cosí dire, campeggio sportivo in tende, lí vicino.
Li portavano in visita guidata, a vedere noi che spalavamo le macerie; e il discorso che i loro istruttori facevano, e che non si curavano di tenere segreto, di dire a bassa voce, era questo: «vedete, è chiaro che li teniamo in campo di concentramento e li facciamo lavorare, perché non sono mica uomini, si vede benissimo; hanno la barba lunga, non si lavano, sono sporchi, non sanno neppure parlare, sono solo buoni a menar la pala e il piccone, quindi è chiaro che dobbiamo trattarli per forza in questo modo, come si tratta un animale domestico».
Questo capovolgimento della causa con l’effetto è molto tipico, perché è evidente, quelli erano gli effetti della prigionia, non la causa della prigionia; e si manifesta in tutti gli angoli del mondo dove c’è un pregiudizio razziale. Si perseguita il popolo «altro», e poi si dice: «Si capisce che lo perseguitiamo, non vedete com’è? è abbruttito, vale meno di noi, non ha la nostra cultura, naturale che gli facciamo fare i lavori pesanti, i lavori piú sgradevoli…»
Chiaro, non voglio fare equiparazioni perché la persecuzione degli Ebrei d’Europa è stata una cosa molto piú approfondita e molto terribile, molto estesa, piú sanguinosa di tutte le altre persecuzioni razziali; ma per questo serve in qualche modo come esempio.
A questo punto, che dire dell’oggi?
Questo è il ieri, sono trenta, trentacinque anni fa; ci sono ancora discriminazioni razziali? evidentemente sí.
L’Italia è un paese in qualche misura privilegiato, proprio perché forse è un paese di sangue misto, è un sangue molto misto ancora in tempo recente.
Siamo talmente consapevoli, in Italia, di non essere una razza italiana, che siamo poco sensibili alle frizioni con altre razze; credo che in questo veramente l’Italia sia un’isola privilegiata in Europa; del resto anche proprio per questo, per molti motivi, gli Ebrei in Italia hanno subito delle moderate persecuzioni, delle umiliazioni in tutti i tempi, ma non si è arrivati mai, o quasi mai, al sangue versato, salvo che sotto l’occupazione tedesca.
Direi che l’intolleranza razziale in Italia è anche cosí tenue perché l’Italia è un paese scettico, in Italia è difficile che ci siano fanatismi, è difficile che crediamo al «profeta»; se anche venisse un altro profeta del tipo di Mussolini in Italia oggi, vaccinati come siamo, io non credo che troverebbe molta rispondenza.
Ma l’Italia non è l’unico paese del mondo; chi ha visto in televisione cosa succede in Iran di recente si rende conto di come è una persecuzione, razziale e non razziale (l’ho detto prima, questa confusione è permanente). Là nominalmente è religiosa, però i Curdi sono della stessa religione degli Iraniani; eppure vengono perseguitati. Ci sono molti Ebrei iraniani che sono di razza ebraica, di origine ebraica ma di fede musulmana, e vengono ugualmente perseguitati.
Detto questo, avendo visto proprio negli ultimi giorni cosa succede in un paese che non è poi cosí lontano, perché nessun paese è lontano oggi, devo dire che essere del tutto ottimisti sarebbe perlomeno imprudente.
Testo della lezione pronunciata in occasione degli incontri organizzati dal Comune di Torino col titolo di «Torino Enciclopedia», novembre 1979.