La letteratura sui campi di concentramento nazionalsocialisti si può grossolanamente dividere in tre categorie: i diari o memoriali dei deportati, le loro elaborazioni letterarie, le opere sociologiche e storiche. Il libro qui presentato appartiene a queste ultime, ma si distanzia nettamente da tutte le opere finora comparse sull’argomento per il suo estremo sforzo di obiettività. L’essere stato scritto tardi (solo nel 1972) gli ha giovato, consentendogli di raggiungere un distacco e una serenità di giudizio che sarebbero stati impossibili negli anni del dopoguerra immediato, in cui, come è comprensibile, prevalevano la sorpresa, l’indignazione e l’orrore.

Il titolo originale, Menschen in Auschwitz, è pregnante, e compendia in sé l’assunto e la specificità dell’opera, perché Mensch è, in tedesco, l’essere umano. È significativo il particolare che l’autore stesso espone nella sua introduzione: la spinta definitiva alla stesura di questo libro lungamente meditato gli è venuta dal confronto fra l’infermiere Klehr di Auschwitz, sedicente medico, «onnipotente, terrore dell’ospedale», i cui misfatti orribili sono delineati nel testo, e il Klehr invecchiato, detenuto rozzo e sprovveduto, che Hermann Langbein ha incontrato in occasione del grande processo di Auschwitz, conclusosi in Francoforte nel 1965. Allora il disegno nebuloso acquista contorni precisi: Langbein, già combattente politico a Vienna e in Spagna, prigioniero a Dachau, ad Auschwitz e a Neuengamme (ma anche in Lager attivo nel «Gruppo di Combattimento Auschwitz», organizzazione segreta di autodifesa), comunista convinto uscito dal partito dopo i fatti d’Ungheria del 1956, si risolverà ad affrontare un problema che incute spavento: non soltanto descriverà Auschwitz, ma cercherà di chiarire a se stesso, ai suoi contemporanei e alle generazioni future, quali sono state le fonti della barbarie hitleriana, e come i tedeschi abbiano potuto sostenerla e seguirla fino alle sue conseguenze estreme. Poiché Auschwitz è opera dell’uomo e non del demonio, smuoverà l’Acheronte: scandaglierà sino in fondo il comportamento umano ad Auschwitz, quello delle vittime, quello degli oppressori e quello dei loro complici, durante il Lager e dopo.

Tema del libro è dunque Auschwitz, anus mundi, Lager esemplare e completo, frutto dell’esperienza accumulata in quasi dieci anni di terrore hitleriano; e il libro infatti contiene, attinto dall’autore ai ricordi diretti e a numerosissime altre fonti, tutto quanto sul Lager si potrebbe desiderare di sapere: la sua storia e geografia, la sua consistenza numerica, la sua complessa sociologia, gli impianti di morte, le infermerie, le regole, le eccezioni alle regole, i pochi modi di sopravvivere e i molti di morire, i nomi dei comandanti; ma il particolare «osservatorio» di Langbein rende quest’opera sotto molti aspetti unica, e ne accresce la portata e l’universalità.

È un osservatorio triplice. Langbein, uomo coraggioso e abile, è stato a un tempo membro del movimento clandestino di resistenza all’interno di Auschwitz, e segretario del dottor Wirths, medico, uno dei piú potenti tra gli ufficiali delle SS addette al campo; e in seguito, dopo la liberazione, ha avuto accesso agli atti dei piú importanti processi a carico di piccoli e grossi funzionari, che spesso aveva conosciuto prima, nell’esercizio delle loro funzioni. Per queste tre vie ha potuto procurarsi un’immensa mole di dati, e ha dedicato il resto della sua vita allo studio dell’uomo relegato in condizioni estreme. Tali sono i prigionieri entro il filo spinato, ma tali sono anche i componenti della costellazione degli aguzzini, giunti anch’essi, volontariamente o no, agli estremi confini di quanto un uomo può commettere o sentire. Su loro Langbein si curva, con severa curiosità, non solo per condannarli o assolverli, ma in un disperato sforzo di capire come si possa arrivare a tanto. È forse il solo fra gli storici moderni che abbia dedicato tanta attenzione a questo tema. La sua conclusione è inquietante. I grandi responsabili sono Menschen anche loro; la materia prima di cui sono costituiti è la nostra, e per trasformarli in freddi assassini di milioni di altri Menschen non è occorsa molta fatica né autentica costrizione: è bastato qualche anno di scuola perversa e la propaganda del dottor Goebbels. Salvo eccezioni, non sono mostri sadici, sono gente come noi, irretiti dal regime per la loro pochezza, ignoranza o ambizione. Pochi sono anche i nazisti fanatici, poiché il periodo che Langbein trascorre ad Auschwitz, il «piú denso di avvenimenti», dal 1942 al 1944, è anche quello del declino dell’astro di Hitler davanti alle sconfitte militari.

Di questi ministri di morte, Langbein studia la vita, prima del loro «servizio», durante e dopo, e ne risulta un quadro ben diverso sia da quello costruito dalla propaganda di regime sia da quello della storiografia folkloristica del dopoguerra e dei film del filone sado-nazista. Le SS del Lager non sono superuomini ligi al loro giuramento di fedeltà e neppure belve in uniforme, ma squallidi individui insensibili e corrotti che preferivano di gran lunga la sorveglianza nei Lager alla «gloria» della battaglia, che badavano ad arricchirsi rubacchiando dai magazzini, e svolgevano il loro abominevole mestiere piú con ottusa indifferenza che con convinzione o compiacimento. Il nazionalsocialismo aveva operato in profondità, spegnendo in loro fin dalla giovinezza i normali impulsi morali, e concedendo loro in cambio un potere di vita e di morte per cui non erano preparati e che li ubriacava. Avevano infilato, consapevolmente o no, una strada rischiosa, la strada dell’ossequio e del consenso, che è senza ritorno. Il totalitarismo, ogni totalitarismo, è una via larga che conduce all’in giú; quello tedesco, ci dice Langbein, era «una strada da cui, passo dopo passo, diventava sempre piú difficile tornare indietro, e che infine aveva condotto ad Auschwitz». E poco oltre: «L’insegnamento di Auschwitz è che già il primo passo, l’adeguarsi ad un tipo di società che vuole dominare gli uomini in modo totale, è il piú pericoloso. Quando un simile regime ha abbracciato l’idea di annientare “esseri inferiori” – non è necessario che siano ebrei o zingari – e uno porta la sua uniforme (che può avere come decorazioni anche simboli diversi dalle rune e dai teschi delle SS), allora ne è diventato strumento».

Un altro insegnamento, potremmo aggiungere noi, è che giudicare è necessario, ma difficile. L’enormità dei fatti che questo libro racconta ci spinge imperiosamente a prender posizione, nei riguardi sia dei grandi criminali nazisti, sia dei loro collaboratori, fino alla fascia grigia dei Kapos e dei prigionieri insigniti di un grado. Ora, è proprio dei regimi dispotici coartare la libertà di scelta dei singoli, rendendo ambiguo il loro operato e paralizzando la nostra facoltà di giudizio. A chi va la colpa del male commesso (o lasciato commettere)? Al singolo che si è lasciato convincere o al regime che lo ha convinto? A entrambi, certo: ma in quale rispettiva misura va giudicato con estrema cautela e caso per caso; e questo, proprio perché totalitari non siamo, e le etichettature globali, care ai regimi totalitari, a noi ripugnano. Questo libro è una vasta antologia di casi umani complessi, ed è fitto di inviti (uno, giustificato, è rivolto anche a me) a rifiutare le facili generalizzazioni: ad Auschwitz, non tutti i «criminali» contrassegnati col triangolo verde si sono comportati da criminali; non tutti i «politici» si sono comportati da prigionieri politici e non tutti i tedeschi hanno sperato nella vittoria tedesca. Non per niente il libro inizia con la citazione: «Solo coloro che vi furono internati possono sapere che cosa è stato Auschwitz. Nessun altro». Ma Langbein, attento e comprensivo indagatore dei molti casi di coscienza, si tramuta qui in un rigoroso e tenace accusatore davanti alle colpe accertate, ed è severo critico dei pretesti e delle menzogne che i colpevoli hanno addotto a loro discarico.

Da H. Langbein, Uomini ad Auschwitz, Mursia, Milano 1984, pp. 5-7.