Prefazione a Moments of Reprieve
L’aver scritto e pubblicato Se questo è un uomo e La tregua ha segnato un traguardo nella mia vita: non solo nella mia vita di scrittore. Dopo, e per parecchi anni, ho avuto l’impressione di aver adempiuto ad un compito, anzi, all’unico compito che sentissi chiaramente definito; ad Auschwitz, e nella lunga strada del ritorno, avevo sofferto e visto cose che mi sembravano importanti non solo per me, cose che chiedevano imperiosamente di essere raccontate; le avevo raccontate, avevo testimoniato; ero un chimico, avevo una professione che mi dava di che vivere e m’impegnava a fondo, non provavo il bisogno di scrivere altro.
Le cose non sono andate cosí. Col passare degli anni, il mestiere di scrivere si è fatto spazio accanto alla mia attività professionale, ed ha finito col sostituirla; parallelamente, mi sono accorto che la mia esperienza di Auschwitz era ben lontana dall’essere esaurita. I suoi lineamenti fondamentali, che sono oggi di pertinenza della storia, li avevo descritti nei miei primi due libri, ma continuava ad affiorarmi alla memoria una folla di particolari che mi dispiaceva lasciar estinguere. In specie, un gran numero di figure umane stagliate su quello sfondo tragico: di amici, di compagni di strada, anche di avversari, che a loro volta mi chiedevano di sopravvivere, di fruire dell’ambigua perennità dei personaggi letterari. Non era piú la massa anonima dei naufraghi senza voce e senza volto, ma i pochi, i diversi, quelli in cui (anche se solo per un momento) avevo ravvisato la volontà e capacità di reagire, e cioè un rudimento di virtú.
In questi racconti, scritti in epoche ed occasioni diverse, e non certo su piano, mi pare che affiori appunto questo tratto comune: ognuno di essi si accentra su uno ed un solo personaggio, e questo non è mai il perseguitato, la vittima predestinata, l’uomo prostrato, quello a cui avevo dedicato il mio primo libro, e di cui mi domandavo ossessivamente se «fosse ancora un uomo». I protagonisti di queste storie sono «uomini» al di là di ogni dubbio, anche se la loro virtú, quella che concede loro di sopravvivere e li rende singolari, non è sempre una di quelle che la morale comune approva. Bandi, il mio «discepolo», trae forza dalla santa gaiezza dei credenti, Wolf dalla musica, Grigo dall’amore e dalla superstizione, il Tischler dal patrimonio leggendario; ma Cesare dall’astuzia spregiudicata, Rumkowski dalla fame di potere, Rappoport da una vitalità ferina.
Rileggendoli, mi accorgo di un’altra peculiarità: anche gli scenari che mi è venuto naturale di scegliere non sono quasi mai tragici. Sono bizzarri, marginali: momenti di tregua, in cui l’identità compressa può riacquistare per un momento i suoi lineamenti.
Il lettore potrà stupirsi di questa vena ritrovata, a trenta-quarant’anni dai fatti che qui si narrano. Ebbene, è stato osservato dagli psicologi che i sopravvissuti ad eventi traumatici si dividono in due schiere ben delimitate: coloro che rimuovono in blocco il loro passato, e coloro in cui la memoria dell’offesa resiste, come scolpita nella pietra, prevalendo su tutte le altre esperienze precedenti o seguenti. Ora, non per scelta ma per natura, io appartengo alla seconda schiera. Dei miei due anni di vita fuori legge non ho dimenticato nulla. Senza alcuno sforzo deliberato, la memoria continua a restituirmi fatti, volti, parole, sensazioni: come se a quel tempo la mia mente avesse attraversato un’epoca di ricettività esaltata, in cui nessun dettaglio andava perduto. Ricordo ad esempio, come le ricorderebbe un nastro di magnetofono o un pappagallo, intere frasi di lingue che non conoscevo allora, né oggi conosco. Pochi anni fa ho incontrato, dopo trentacinque anni, un mio compagno di prigionia con cui non avevo avuto alcun speciale rapporto di amicizia, e l’ho riconosciuto immediatamente in mezzo a un gran numero di visi sconosciuti, benché la sua fisionomia fosse molto cambiata. Odori di «laggiú» mi fanno trasalire ancora adesso. Mi appare oggi evidente che questa mia attenzione di allora, rivolta al mondo ed agli esseri umani intorno a me, è stata non soltanto un sintomo, ma anche un importante fattore di salvazione spirituale e fisica.
È possibile che la distanza nel tempo abbia accentuato la tendenza ad arrotondare i fatti, a caricare i colori: questa tendenza, o tentazione, fa parte integrante dello scrivere, senza di essa non si scrivono racconti ma cronache. Tuttavia, gli episodi su cui ho costruito ognuna di queste storie sono realmente avvenuti, e ne sono esistiti i personaggi, anche se, per evidenti motivi, spesso ne ho alterato il nome.
In Moments of Reprieve, Summit Books, New York 1986.