È stato pubblicato, ed è in vendita nelle principali librerie un libro singolare per molti versi: Luciano Gibelli, Prima che scenda il buio - Dnans ch’a fàssa neuit (Edi-Valle-A). Perché è bilingue, cioè steso in due versioni parallele, italiano e piemontese; perché, nonostante la veste editoriale elegante, l’autore lo ha pubblicato a sue spese; ma soprattutto perché singolare ne è l’argomento. Esso è precisamente nel sottotitolo: «Attrezzi, oggetti e cose del passato raccolte per non dimenticare».

Il libro si inserisce quindi nel quadro dottrinario della Cultura Materiale, anello di congiunzione fra l’antropologia e la storia, ma è lontano da ogni pretesa di dottrina, da ogni astrazione e da ogni scuola.

L’autore, il cinquantacinquenne Luciano Gibelli di Canelli, è un mite entusiasta senza titoli accademici. È un dilettante curioso e preciso, spinto dal desiderio di fare sopravvivere, almeno nella memoria, una civiltà che sta per morire. È la civiltà racchiusa negli oggetti che solo i piú anziani fra noi hanno ancora avuto occasione di vedere, o hanno sentito descrivere dai loro padri e nonni; ma Gibelli, ricorrendo assai poco alle ricerche di biblioteca, e molto invece alle bonarie interviste ai vecchi dei paesi, ci dà di ognuno un ritratto filologicamente compiuto, con nomi, origine, uso, e disegni che lui stesso ha tracciati, accuratamente quotati in millimetri.

Molti li ha ritrovati nei solai di campagna che erano cari a Gozzano, «dove il rifiuto secolare dorme»; altri, non piú reperibili, ma di cui è rimasta memoria, li ha ricostruiti lui, con i legni e i metalli di una volta, per vederli, sentirseli in mano e verificarne il funzionamento. È stata un’opera quasi religiosa, di pazienza devota e di raffinata abilità manuale: ma vi si riconosce anche lo sforzo pio del pittore che dipinge a memoria il ritratto di una persona amata e scomparsa.

Tuttavia, questo rigore si accoppia con una divertente libertà nel disegno del libro. Sarebbe piú corretto dire che il libro non ha disegno: da argomento nasce argomento, discorsivamente, come in una chiacchierata fra amici intorno a un caminetto. Dalla Casa si passa ai Mattoni, ai Tegoli, e per analogia agli Scaldini, al Fuoco, e ai vari modi arcaici (ma non tanto!) di accenderlo. Dai Pesi e Misure si passa a certe lontane usanze burocratiche, agli attrezzi per scrivere, agli inchiostri, ai sigilli e cosí via. L’autore non ha paura delle digressioni, anzi, vi trova il suo estro migliore, nella descrizione affettuosa di riti famigliari, feste, usanze estinte. Si vedano ad esempio le pagine in cui, dalla descrizione tecnologica delle campane, si viene a parlare con nostalgia trepida dei vari modi in cui si suonavano, la Gaudietta, il Concento, la Melodia: voci spente, o in sopravvivenza artificiale.

Chi saprebbe oggi preparare una penna d’oca? Un disegno ne illustra le sette fasi, ed un altro ci mostra il Temperatoio, attrezzo multiplo che serviva unicamente a tagliare le penne ed affilarle; apprendiamo inoltre che, a causa della diversa curvatura, le penne piú pregiate erano quelle tratte dall’ala sinistra. Quelle dell’ala destra intralciavano la scrittura, perché la loro estremità veniva a trovarsi vicina agli occhi dello scrivente. Subito dopo vengono elencati non meno di dieci accessori indispensabili allo scrivano, dal calamaio portatile al «polverino», precursore della carta asciugante: essa pure resa ormai superflua dall’invasione delle penne a sfera.

Attraverso le seicento voci del libro, si impara che in tempo non remoto si usavano, in casi di emergenza, occhiali di rame. Erano calotte di rame con un minuscolo foro, il quale, riducendo il lume della pupilla, riduceva in ugual misura tutti i difetti della vista: se l’illuminazione era buona, permetteva almeno di infilare l’ago. Si ritrovano attrezzi e regole di giochi scomparsi, come la trottola, la lippa («cirimela») e lo scoppietto.

Si apprende che il maniscalco disponeva di almeno tre tipi di chiodatura per i ferri da cavallo: normale, da salita e da ghiaccio. Spesso, prima di affrontare una lunga salita, il carrettiere stesso doveva sostituire l’una all’altra, come si fa oggi con le catene da neve. Si leggono con nostalgia e curiosità centinaia di ricette di cucina povera, e fra queste non meno di una dozzina riguardano le cialde («Canëstrej»), in cui l’ingrediente fondamentale, da aggiungersi alla farina, spazia dal cioccolato all’aglio; viene descritto ed illustrato anche il ferro da cialde, attrezzo indispensabile per produrle.

Le ricette, gli attrezzi di cucina e le erbe commestibili occupano cento pagine, e le erbe descritte sono piú di cento: è significativo vedere fra queste anche molte «erbacce» come le piantaggini, e si ripensa alla fanciulla scarna a cui accenna il Manzoni, che ruba alla vaccherella le erbe selvagge «di cui la fame aveva insegnato che anche gli uomini potevano vivere». Quello era tempo di carestia, ma carestia era quasi sempre. Meglio che da una descrizione diretta, da queste voci esce ritratto un tempo in cui la cucina era il cuore della casa e i pasti erano un rito; e un ritmo di vita piú povero del nostro, piú precario, ma anche piú conviviale ed umano.

Prima, appunto, che scenda il buio dell’oblio (della «dësmèntia»), è bene che siano state registrate le forme dei lumi a petrolio, dei coreggiati per trebbiare, delle meridiane, delle brente da vino, dei ventilabri, e di centinaia di altri oggetti modellati dall’esperienza di molti secoli, e che ora sono scomparsi o stanno scomparendo. I nostri Mani non risiedono soltanto nelle opere illustri della creatività individuale, ma anche in questi umili attrezzi, che furono compagni ai nostri avi nel cammino della vita.

In «La Stampa», 22 marzo 1981.