Chi ha scritto che «anche i libri hanno un loro destino» la sapeva lunga sull’argomento: basta chiamare per un attimo la memoria a raccolta, e subito ci si affollano davanti itinerari strani e imprevedibili. Libri nati illustri ed amati per decenni, che ora sono ridotti all’esclusivo interesse di pochi specialisti; libri talmente gravi di profezia, o di satira o di minaccia, che furono rifiutati dai primi lettori, e degradati poi, magari per secoli, a letture infantili; altri sbocciati anzitempo, incomprensibili ai critici contemporanei, oggi popolari e famosi; altri ancora carichi di una non misurabile carica esplosiva, tuttora ermetici, ma di cui si percepisce dal di fuori un sinistro ticchettio, come di bomba a tempo.

Non so (nessuno scrittore può mai sapere) quanto valga il mio Se questo è un uomo, e quale dei destini sopra accennati lo attenda per il futuro prossimo e lontano; ma mi pare di poter affermare che, fino ad oggi, ha avuto una storia curiosa ed istruttiva.

Il libro tratta del campo di Auschwitz, ed è nato ad Auschwitz. Il Lager non era un luogo in cui fosse agevole elaborare le proprie esperienze, e tanto meno fissarle in forma scritta, infatti, qualunque forma di possesso personale vi era proibita, anzi impensabile: a maggior ragione, il possesso di una matita e di un foglio di carta era impossibile, ed avrebbe comunque rappresentato un pericolo estremo, un’audacia assurda oltre che inutile. Eppure, per molti di noi la speranza di sopravvivere si identificava con un’altra speranza piú precisa: speravamo non di vivere e raccontare, ma di vivere per raccontare. È il sogno dei reduci di tutti i tempi, del forte e del vile, del poeta e del semplice, di Ulisse e del Ruzante.

Ma era insieme un bisogno piú profondo e meditato, tanto piú forte quanto piú dura era l’esperienza da trasmettere: lo stesso bisogno che ha spinto i combattenti del ghetto di Varsavia a dedicare una parte delle loro ultime disperate energie a scrivere il dramma che vivevano, e ad affidarlo ad un nascondiglio sicuro affinché diventasse storia; come infatti è diventato storia, e non lo sarebbe diventato senza questa loro sovrumana diligenza. Era chiaro a ognuno di noi che le cose che avevamo viste dovevano essere raccontate, non dovevano essere dimenticate. Se in Lager era impossibile, divenne invece possibile scrivere, anzi, comunicare col mondo, ai pochissimi a cui la fortuna concesse di sopravvivere. Ognuno di noi reduci, appena ritornato a casa, si è trasformato in un narratore infaticabile, imperioso, maniaco. Non raccontavamo tutti le stesse cose, perché ognuno aveva vissuto la prigionia al suo proprio modo: ma nessuno sapeva parlare d’altro o tollerava che si parlasse d’altro. Anch’io ho cominciato a raccontare prima ancora di essermi saziato di cibo, e non ho ancora finito adesso. Ero diventato simile al vecchio marinaio della ballata di Coleridge, che artiglia per il petto, in strada, i convitati che vanno alla festa, per infliggere loro la sua storia sinistra di malefizi e di fantasmi. Ho ripetuto le mie storie decine di volte in pochi giorni, ad amici, nemici ed estranei; poi mi sono accorto che il racconto si andava cristallizzando in una forma definita, costante: per scriverlo non mancavano che la carta, la penna e il tempo. Il tempo, oggi cosí scarso, mi crebbe intorno come per incanto: scrivevo di notte, in treno, alla mensa di fabbrica, nella fabbrica stessa, in mezzo al frastuono dei motori. Scrivevo con fretta, senza esitazioni e senz’ordine; non avevo coscienza di scrivere un libro, non avevo coscienza di un mio intervento, ero a mille miglia da qualsiasi scrupolo letterario, e mi pareva che quelle cose si scrivessero da sé. In pochi mesi il lavoro era finito; sospinto dall’urgenza dei ricordi, avevo scritto i diciassette capitoli quasi esattamente al contrario, voglio dire a partire dall’ultimo. Poi scrissi la prefazione, ed infine aggiunsi ad epigrafe una poesia che mi danzava per il capo già in Auschwitz, e che avevo scritto pochi giorni dopo il ritorno.

Presentai il manoscritto a due editori, che lo rifiutarono con i vaghi pretesti d’uso. È possibile che avessero ragione, almeno sotto l’aspetto commerciale: i tempi non erano maturi, il pubblico non era ancora in condizione di comprendere e misurare la qualità e l’importanza del fenomeno Lager. Infatti, un terzo editore (De Silva di Torino, allora diretto da Antonicelli) accettò e pubblicò il libro, ma questo si incagliò al terzo migliaio di copie, insieme con la casa editrice e con le mie tenui speranze in un avvenire letterario.

La critica aveva accolto il libro molto bene, ma dopo un anno Se questo è un uomo era dimenticato. Si continuava a parlarne a Torino, in un ambiente ristretto di lettori particolarmente sensibili o toccati di persona. Passarono dieci anni: il pubblico lesse Le armi della notte di Vercors, Il flagello della svastica di Russell, i due libri di Rousset, Si fa presto a dire fame di Caleffi, La specie umana di Antelme, La selva dei morti di Wiechert. Si ricominciò a parlare di campi di concentramento, con maggior distacco e sotto un angolo piú ampio, come oggetto di storia, non piú di cronaca concitata. Nel 1957 Einaudi accettò di ristampare il libro, il quale, da allora, ha cominciato a vivere per cosí dire di vita propria: comparvero nel 1959 l’edizione inglese e quella nordamericana, nel 1961 la francese e la tedesca, nel 1962 la traduzione in finnico, nel 1963 quella in olandese. Frattanto, nel 1962 avevo incominciato a scrivere La tregua, séguito di Se questo è un uomo, e diario del mio complicato viaggio di rimpatrio. La tregua era appena nata quando ricevetti una lettera. La Radio Canadese mi annunciava di aver tratto da Se questo è un uomo una riduzione radiofonica, e mi chiedeva consigli su alcuni particolari: poco dopo, mi giunse il copione e la registrazione su nastro. Forse non avevo mai ricevuto un dono altrettanto gradito: non solo si trattava di un ottimo lavoro, ma, per me, di un’autentica rivelazione. Gli autori del copione, lontani nel tempo e nello spazio, ed estranei alla mia esperienza, avevano tratto dal libro tutto quello che io vi avevo rinchiuso, ed anche qualcosa in piú: una «meditazione» parlata, di alto livello tecnico e drammatico ed insieme puntigliosamente fedele alla realtà quale era stata. Avevano compreso assai bene quale importanza avesse avuto, nel campo, la mancanza di una comunicazione, esaltata dalla mancanza di una lingua comune, e su questo tema, il tema della Torre di Babele, della confusione dei linguaggi, avevano coraggiosamente impostato il loro lavoro:

«… Confidiamo che, anche per l’ascoltatore che conosce solo l’inglese, questo uso di altre lingue non costituirà un ostacolo alla comprensione: … ma anche quando (il senso) non è subito evidente, quando per un attimo brancoliamo sconcertati davanti a una battuta straniera e incomprensibile, proprio allora penetriamo a fondo nell’esperienza dell’autore, perché questo isolamento è parte fondamentale della sua sofferenza, e la sofferenza, sua e di tutti i prigionieri, scaturiva dal proposito deliberato di espellerli dalla comunità umana, di cancellare la loro identità, di ridurli da uomini a cose».

L’assunto, il suo risultato, e lo stesso mezzo radiofonico, nuovo per me, mi entusiasmarono: pochi mesi dopo proposi alla Rai una riduzione italiana dal libro, che avevo scritta non già ritraducendo la riduzione canadese, ma sviluppando gli episodi che piú mi sembravano adatti, e conservando, entro i limiti del ragionevole, quella tecnica del dialogo multilingue che mi appariva fondamentale.

È dell’amico Pieralberto Marché l’idea che dal libro avrebbe potuto nascere una riduzione teatrale. All’inizio mi opposi alla sua proposta: mi sembrava che Se questo è un uomo avesse già cambiato troppe pelli, di averlo già cucinato in troppe salse, avevo paura di stancare il pubblico. Avevo anche paura del teatro stesso: conoscevo troppo poco il teatro, sia da spettatore, sia da lettore, per accingermi all’impresa. Il pubblico che legge, anche quello che ascolta la radio, è lontano, nascosto, anonimo: il pubblico teatrale è lí, ti guarda, ti aspetta al varco, ti giudica.

Ma, d’altro canto, si trattava ancora una volta di raccontare: questa volta, anzi, di raccontare nel modo piú immediato, di fare rivivere, di infliggere la nostra esperienza, la nostra e quella dei compagni scomparsi, ad un pubblico diverso e piú vasto. Di vederne, di misurarne la reazione: di collaudarlo. Perciò, a dispetto dei miei dubbi, degli evidenti pericoli, e di un certo senso di ritegno violato, ho accettato di portare il Lager sulla scena, ed insieme con Marché ho ricominciato a lavorare.

Abbiamo cercato di dire tutto, ed insieme di non strafare. La materia di cui disponevamo era già fin troppo scottante: si trattava di decantarla, di incanalarla, di trarne un significato civile ed universale, di guidare lo spettatore ad una conclusione, ad una sentenza, senza gridargliela negli orecchi, senza presentargliela già fabbricata. Per questo, ad esempio, le SS del campo non compaiono mai sulla scena; per questo abbiamo cercato gli episodi e gli aspetti marginali della vita del campo, i momenti di sollievo, di ripensamento, di sogno, di vacanza, ed abbiamo cercato di conservare, per ogni singolo personaggio, la sua carica umana originaria, anche se logorata dal conflitto permanente con l’ambiente selvaggio e disumano del campo.

Nota alla versione drammatica di Se questo è un uomo, Einaudi, Torino 1966, pp. 5-8.