Luoghi d’arte, identità molteplici

Come nasce un museo? Per volontà di chi? In alcuni eccellenti casi, come quello del Kunstmuseum di Basilea o del Metropolitan di New York, si forma dall’acquisizione nel tempo di collezioni private grazie alla stretta complicità tra comunità e istituzioni locali.

Si sale la scala di marmo fra due colonne corinzie, si raggiunge un vasto pianerottolo dove la scala si diparte in due rampe successive, si giunge al secondo pianerottolo sul quale danno due porte laterali in rovere, chiuse, e una particolarmente larga e invitante. Si entra e si sente scricchiolare il parquet mentre si cammina. Sui bordi del pavimento esce lenta l’aria calda dalle grate di ghisa nera con un decoro in bronzo assiduamente lucidato. In mezzo al salone un vasto divano di velluto cremisi con al centro, talvolta, una fioriera; sulle pareti i dipinti resi gravi dalla luce uniforme e dalle cornici sontuose. Siamo nel museo. La medesima sensazione si ripete a San Pietroburgo e a Praga, a Parigi e a Londra o a New York. Il museo è un tempio con ritmi cifrati stabili. In Italia non è così.

Certo quello è il museo delle cose d’una volta, replicato il museo, diverse le cose ma non il loro ritmo espositivo, storico. Quelli d’arte contemporanea sono ben diversi, l’architettura è contemporanea, le opere esposte sono rigorosamente le medesime in ogni museo. Templi questi d’un rito unico, che si distinguono solo per l’odore delle caffetterie, in Francia regna l’olezzo acre del croque monsieur, sordido toast a base di formaggi fusi, in America quello dolciastro dell’hamburger, in Germania quello proletario del Frankfurter. In Italia non è così.

Il prototipo del museo d’arte è senz’altro quello di Basilea, città piccola, calvinista, diventata velocemente bonaria, brodo di coltura della borghesia di Max Weber. Nella seconda metà del Seicento viene posta in vendita la collezione privata della famiglia di umanisti e stampatori Amerbach. Acquirente naturale d’una raccolta che contiene il lascito di Erasmo, una biblioteca succulenta con novemila volumi, alcune centinaia di disegni degli Holbein e pitture di somma importanza tedesche e svizzere, sarebbe l’Olanda calvinista e opulenta appena uscita vittoriosa dal trattato di Westfalia. Il concilio cittadino svizzero si preoccupa, l’università pure. La città destina la cifra enorme di seimila talleri imperiali per due terzi della raccolta, l’università ci mette l’altro terzo con altri tremila. Nasce così nel 1671, sul Münsterplatz, la prima raccolta pubblica d’Europa. Esattamente due secoli dopo, nel 1870, lo Stato di New York emette una Act of Incorporation per fondare il Metropolitan Museum of Art allo scopo di «stabilire e mantenere nella suddetta città un Museo e Libreria d’Arte per incoraggiare e sviluppare lo studio delle arti con l’intenzione di applicare le arti alla manifattura e alla vita quotidiana, far crescere la conoscenza generale di soggetti ameni e a questo fine fornire istruzione popolare e ricreazione». Il primo nucleo di raccolte si articola attorno alla collezione di un alto dirigente delle ferrovie, John Taylor Johnston. Consiste di centosettantaquattro dipinti principalmente europei e di un sarcofago romano di pietra. Il primo direttore fu un torinese diventato generale dell’esercito durante la guerra civile e poi console a Cipro, Luigi Palma di Cesnola. Lo sviluppo ulteriore delle due istituzioni avvenne per donazioni da parte di cittadini filantropi e talvolta per acquisti diretti.

A Basilea nel 1967, la fondazione nata dall’eredità di un piccolo quanto acuto imprenditore dell’inizio del XX secolo, Rudolph Staechelin, e che aveva depositato in prestito nel museo il nucleo centrale della sua raccolta di pittori cubisti, decide, per superare una crisi di liquidità, di vendere sul mercato internazionale due dipinti di Picasso. Viene lanciata con successo una sottoscrizione presso i cittadini per l’acquisto. A New York il Met oggi occupa uno spazio di 190mila metri quadri, venti volte quello d’origine. L’edificio è di proprietà della città che garantisce la manutenzione e la custodia, la sua amministrazione è retta da un consiglio misto. All’inizio del XX secolo il contributo pubblico era del 93%, quello privato del 7%. Alla fine del XX secolo le percentuali erano invertite. All’opposto di queste genesi esemplari stanno gli Uffizi di Firenze, l’Ambrosiana di Milano, l’Archeologico di Napoli. Nascono tutti dalle volontà del principe, di Stato o di Chiesa, di trasferire le sue collezioni dall’ambito del godimento personale a quello della fruizione pubblica. Non sono generati dalla volontà della comunità che trasferisce oggetti ma da quella principesca che offre raccolte già costituite. Fra questo modello aristocratico italiano e quello cittadino si sviluppano gli esperimenti francesi del Louvre dove la collezione della monarchia si integra con le confische e viene ordinato da Vivant Denon durante la Rivoluzione e l’impero. Analogo è l’esperimento russo dell’Ermitage dove le collezioni di Caterina II nel suo palazzo d’Inverno vengono aperte al pubblico da Nicola I nel 1852 e si integrano ulteriormente con le confische bolsceviche.

L’Italia rimane particolare. Solo il museo di Brera, voluto dall’Impero napoleonico, rientra nella categoria dei musei sorti per dislocamento di opere già collocate altrove. Sorge da contributi forzati di raccolte ecclesiali e museali precedenti. Per il resto il fedecommesso, quell’istituto giuridico testamentario che obbligava l’erede a mantenere integra l’eredità e trasmetterla in toto al proprio successore, aveva garantito, fino alla sua abolizione nel 1865, il mantenimento delle più eminenti fra le raccolte private della penisola. Alcune di queste furono acquistate dallo Stato postunitario e mantenute in loco: così l’origine di musei integri come quello di villa Borghese, raccolta quasi intatta. Così per la collezione Doria Pamphilj, tuttora privata e collocata nella sua sede storica. Così per la raccolta della galleria Corsini nel palazzo omonimo in via della Lungara a Roma. Raccolta questa voluta dal cardinale Neri Corsini, nipote di papa Clemente XII nel Settecento. Il pregio di questa tipologia museale consiste nel proporre al visitatore tagli di storia intatti, storia del gusto e dei costumi, in ambienti magicamente conservati. Il difetto, secondo i parametri didattici ottocenteschi, è la mancanza d’una disposizione educativa alla storia dell’arte secondo parametri di catalogazione accademica. La didattica oggi è affidata a una vasta editoria che l’Ottocento ignorava e alle mostre che spesso ne sono lo stimolo. L’orientamento recente del gusto e del sapere ricerca quindi con attenzione luoghi storici intatti, per via della complessità e “autenticità” che trasmettono. Purtroppo le sovrintendenze non hanno ancora recepito il mutamento del rapporto fra materiali conservati e apprendimento, sicché la galleria Corsini corre oggi il rischio d’essere spogliata per andare a costituire parte del nucleo d’un museo centrale romano, per visitatori, si presume, ancora in redingotta che sono stati iniziati ai misteri delle arti con antichi dagherrotipi.

(da “Art e Dossier” n. 266, maggio 2010)

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