Arte mobile
Se si dovesse spiegare in pochi termini la bizzarria delle nostre arti a un antropologo atterrato sul pianeta Terra e proveniente da Marte o da Venere, tornerebbe difficile usare le categorie con le quali solitamente si considera la storia dell’arte. Ben più facile usare parametri didattici semplificati, come per esempio il distinguere i quadri fra quelli piccoli e quelli grandi, intesi quelli piccoli come trasportabili, “mobili”, e quindi bisognosi di cornici solide e quelli grandi come “immobili” ed eredi della tradizione parietale a fresco. Ben più utile catalogare allora le pratiche delle nostre diverse tribù in comportamenti nomadi e stanziali, stimoli alla realizzazione di manufatti trasportabili o stabili. Diventerebbe così più naturale far capire l’attualità come conseguenza di tracce sedimentate nella storia delle diverse parti del piccolo pianeta al quale siamo legati. Si potrebbe percepire come evidente la connessione fra i meccanismi degli orologi pubblici di Praga e di Strasburgo con le sculture mobili di Calder, come naturale l’evoluzione dalle leggerezze del Gotico fiammeggiante alle linee fitomorfe dell’architettura di Guimard agli albori del XX secolo. Si potrebbe trovare legittima la schizofrenia delle lingue d’oggi che tentano di liberarsi dalla norma d’un globalismo uniformante. E verrebbe naturale accettare che all’architettura di vetro si possa tuttora affiancare quella di pietra, all’arte aulica e giustamente retorica che richiede il grande museo quella intima e discreta che desidera la parete domestica. Sarebbe tollerabile che al pubblico vasto che frequenta i palazzi delle esposizioni facesse da contrappunto un nugolo di piccole confraternite che godessero a frequentare solo se stesse senza pertanto sentirsi escluse dalla corrente della storia. E il marziano ripartirebbe verso casa confortato dalla certezza che dalle parti nostre non è il caso di semplificare troppo perché è l’essere umano, nella sua essenza ontologica, a essere irrimediabilmente complicato e proprio per questo motivo così curiosamente creativo e degno di nota.
(da “Art e Dossier” n. 260, novembre 2009)
