Umano, troppo umano

A partire dal XII secolo il gusto subisce il formidabile passaggio dal bello degli antichi, di cui si conservava un ricordo cristallizzato nell’arte di Bisanzio, al “brutto” della modernità, in una caduta dalla grazia che pare inarrestabile. In due secoli il bello si frantuma contro l’umanità del borgo produttivo, contro il dolore dei poveri difesi da san Francesco. È il momento della rivoluzione di Giotto.

A Petrarca, nella prima metà del Trecento, venne da scrivere un pensiero che se fosse stato proposto tre secoli dopo lo avrebbe portato dritto alla corda dell’Inquisizione. Petrarca aveva la fortuna di porsi la domanda giusta nel momento giusto, in quegli anni cioè nei quali l’Europa era ancora ricca anche se meno ricca, il potere papale si era elegantemente disciolto ad Avignone e la peste nera sarebbe arrivata pochi anni dopo, nel 1348. Un fluttuare problematico del pensiero avveniva tra Bologna, Parigi e Oxford, tra francescani, domenicani, erranti, dottori e poeti laureati altrettanto instabili. Sosteneva Petrarca che se il mondo nostro non avesse subito la sfortuna della conversione politica di Costantino al cattolicesimo, avremmo avuto la gioia di vivere ancora negli equilibri perfetti dell’antichità greco-latina, e non saremmo stati costretti a vedere ovunque le brutture del Gotico. L’uomo delle «fresche e dolci acque» già annunciava il pensiero di Leon Battista Alberti e come lui già condannava la bruttezza della sua epoca. Per fortuna nostra, il suo pensiero non poté essere retroattivo e cancellare la formidabile trasformazione che da due secoli stava ponendo le fondamenta di un gusto assolutamente nuovo, quello della modernità d’Occidente, lentamente conquistata dalle nuove lingue romanze del parlare come del vedere.

L’antico era ovviamente dimenticato. Non risiedeva più lì il bello. Il bello s’era ancorato all’evoluzione lenta delle abilità ingegneristiche romane verso quell’architettura che oggi noi chiamiamo romanica. Il bello pittorico traeva invece le sue origini dalle invenzioni iconiche di Costantinopoli, quelle che l’imperatore Leone III iconoclasta aveva inutilmente tentato di cancellare nell’VIII secolo. Bisanzio aveva imposto la sua elegante e ieratica bidimensionalità a tutta la cristianità. Anzi, la lingua cristiana visiva era teologicamente soprannaturale e come tale aveva rinunciato alla pagana terza dimensione dell’ellenismo. E per quanto di là permanesse la stabile dialettica fra patriarca e “basileus”/re, di qua, dalle parti nostre si reputava che il mondo avesse solo due maestri, il papa e l’imperatore. Latini, loro, con un’estetica post-greca orientale nella quale le parole della Chiesa romana e latina, quelle fondative almeno, erano greche e dove l’arte musiva e parietale rappresentava un Dio Padre Pantocratore, una Maria Vergine in maestà e il Cristo in croce talmente a suo agio da essere “triumphans” (figura 1).

La crisi avvenne con il passaggio dal XII al XIII secolo. Il Barbarossa affogato in Oriente (1190) fu come il segno della fine della gloria delle armi intesa come unica gloria possibile. Negli stessi anni il futuro papa Innocenzo III si preparava a una ben più gloriosa carriera, debole nel ferro ma potente nella diplomazia, intraprendendo il viaggio dalla natale Anagni all’università di Parigi. Si scopriva il ruolo dello “studium”, quello che Guglielmo di Ockham un secolo dopo avrebbe rivalutato rivolgendo all’imperatore Ludovico IV il Bavaro la famosa frase: «Tu me defendas gladio, ego te defendam calamo» (Tu mi difenderai con la spada, io ti difenderò con la penna) (figura 2).

Dietro questi cambiamenti si nascondeva la più radicale delle rivoluzioni che l’Europa avesse conosciuto dopo il crollo dell’Impero romano, quella del borgo produttivo. Nei Comuni si stava scoprendo che il lavoro generava danaro ben più della guerra e che il denaro accumulato generava nuovo lavoro, con il sudore della fronte invece che con il rumore delle armi. Stava nascendo il capitalismo e la sua diversa etica. L’individuo operoso si affermava anarchico dinanzi alla piramide del feudalesimo e l’intellettuale iniziò a reagire. Francesco ad Assisi si denuda dalla veste di lusso e corre verso la vocazione pauperista della Porziuncola recitando versi in francese. Il suo seguace Jacopone da Todi vive l’Università di Bologna negli anni fulgidi del padre dell’arte notarile Rolandino, quando Bologna per prima abolisce la servitù della gleba. Poi si fa notaio lui stesso, sposa la figlia del conte di Coldimezzo e la vede morire l’anno seguente allegramente a una festa quando crolla il pavimento della stanza da ballo nel castello. Scopre sul corpo di lei il segreto del cilicio e si converte al pauperismo della scissione francescana più severa. Viene sancito dallo sfortunato Celestino V e poi messo in galera dal terribile Bonifacio VIII, quello che Dante manda all’inferno. Diventa poeta. La critica ottocentesca lo considerava “giullare di Dio”, quella più recente lo scopre mistico. Lui esalta il pathos della sofferenza, di quell’umanità già intuita più di un secolo prima da sant’Anselmo d’Aosta. Il Christus triumphans diventa Christus patiens. L’umanità profonda del Figlio di Dio era già stata l’argomento teologico con il quale i seguaci di san Domenico di Guzmán avevano combattuto l’eresia catara occitana, consentendo alla Francia di espandersi nel meridione. Cimabue, il “cubista” della metà del Duecento, spezzò gli equilibri bizantini. Giotto sul finire del medesimo secolo dipingeva per i domenicani di Santa Maria Novella a Firenze il suo sublime grande Cristo, quello morto nella carne, verde. Stava nascendo la lingua nuova della pittura (figura 3).

Per fortuna nostra Giotto ha vinto su Petrarca. La lacrima e il sentimento sono apparsi sul viso e la pittura barocca, dopo aver abolito le perfezioni rinascimentali, ha potuto esaltare i dolori e i patimenti dei santi, delle genti e della guerra.

(da “Art e Dossier” n. 247, settembre 2008)