I Fauves del Seicento

Un’imprevedibile tempesta di colore e di violenza espressiva irrompe nel tranquillo scorrere dell’arte lombarda tra Cinque e Seicento. Gli artefici di questa piccola rivoluzione sono gli autori delle sculture dei sacri monti di Varallo e poi di Varese. Artisti che, in un lavoro che si protrae per molti decenni, caricano di sanguigna forza popolaresca volti e atteggiamenti dei personaggi delle loro sacre rappresentazioni. Curiosamente ispirati in parte dalla spiritualità dei Borromeo e in parte dal ritrovamento a Roma di un sarcofago classico.

Se si volesse trovare il termine stabile d’un dipingere lombardo, capace di riassumere cinque secoli di storia, lo si dovrebbe sicuramente riscontrare nei cromatismi che pervadono gran parte delle sue invenzioni. Vi è una inclinazione perenne verso i grigi e i colori ruggine, le atmosfere annebbiate dalle quali traspare la luce, che collega il Foppa degli affreschi milanesi al Bergognone e si trova a essere talmente contagiosa da distogliere Bramante dalla luce del suo conterraneo Piero della Francesca e da far sì che Leonardo andrebbe chiamato più da Milano che da Vinci. La stessa mescola cromatica, arricchita dal talento geniale e anarchico, accompagnerà il Caravaggio nelle sue peregrinazioni mediterranee, tornerà nelle tele del Morazzone, riappare due secoli dopo nel Piccio e un altro secolo dopo ancora nei dipinti di Alciati che la passerà per insegnamento a Sironi. Il Novecento, attento ai fumi della modernità, lo esalta in Tosi e nei primi lavori di Lucio Fontana. Se si reputa che le arti maggiori influenzano le arti minori più sensibili (e ovviamente senza porre differenti valutazioni di merito fra le une e le altre!) si potrebbe ritrovarne il gusto cromatico nelle invenzioni di Giorgio Armani.

Eppure talvolta s’interrompe questa linea costante. Il caso forse più clamoroso ed enigmatico è quello del Sacro Monte di Varese. Storia emblematica, quella del Sacro Monte, che s’inserisce nella generale diffusione di nuovi edifici di culto nell’ambito della Controriforma e d’un radicale rilancio della pietas popolare. Si tratta in sostanza di sacre rappresentazioni costituite da ambienti decorati a fresco che ospitano personaggi scolpiti a grandezza naturale.

Il prototipo è innegabilmente quello di Varallo, ultima propaggine occidentale del ducato di Milano, oggi in Piemonte, voluta da padre Bernardino Caimi alla fine del Quattrocento sotto la protezione di Lodovico il Moro. Ebbe grande impulso artistico agli inizi del XVI secolo per via degli interventi di Gaudenzio Ferrari e vi lavorò un nucleo artistico talmente complesso, fino a Tanzio da Varallo, che risulta talvolta difficile capire chi ha operato nei singoli successivi interventi, continuati sotto l’impulso di Carlo Borromeo che ne era gran devoto. La sua parte statuaria ha destato nella critica pareri contrastanti, e le figure di legno o terracotta, rese più “reali” con l’impianto di capelli e barbe veri, appaiono molto più ingenue delle pitture, a tal punto che la critica antica le reputava una declinazione di personaggi da presepe. Già apparivano le esasperazioni d’un sentimento antisemita che la Spagna allora dominatrice del Milanese rinvigoriva e che stimolava gli artisti a una rappresentazione dei giudei aguzzini in chiave grottesca (figure 12 e 13).

Un Sacro Monte derivato fu costruito a partire dagli anni Novanta del Cinquecento a Orta, sempre in quella medesima area prealpina; vi lavorò in seguito Dionigi Bussola, dal 1658 “protostatuario” del duomo di Milano. Ma anche lì la scultura appare fortemente legata alla contingenza temporale.

Ben diverso il caso di Varese. Il Sacro Monte locale nasce sulle tracce già esistenti d’un luogo di pellegrinaggio d’epoca probabilmente ambrosiana, il quale si arricchisce nel Quattrocento di un convento di clausura per monache ambrosiane. Nel 1604 suor Maria Tecla Cid e il padre cappuccino Aggugiari lanciano il progetto d’un grande impianto di pellegrinaggio con le cappelle da costruire secondo le tematiche del rosario. Il cardinale Federico Borromeo ne sposa la causa che reputa in linea con la sua politica pastorale e con quella del cugino Carlo in procinto di canonizzazione nel 1610. Due delle cappelle erano già previste, all’inizio del percorso, e l’ultima all’interno della chiesa sul monte; le altre tredici furono ultimate entro il 1623. Iniziava il lavoro della loro decorazione come Biblia Pauperum. Furono completate entro il secolo XVII. Il risultato è di estremo interesse: la parte pittorica riprende lo spunto delle evoluzioni attardate del manierismo, la parte scultorea è invece estremamente più innovativa e appare come un’innovazione inspiegabile del linguaggio e dello stile (figure 14 e 15 - figura 16).

La critica finora ben poco s’è preoccupata di capire i motivi che hanno portato un nucleo di ignoti scultori, guidati dall’architetto scenografo Giuseppe Bernascone, morto nel 1627, a inventare una lingua espressiva fino ad allora sconosciuta. Fra loro si ritrova il Bussola, assieme a Cristoforo Prestinari e altri. Sono usciti dalla tradizione popolare e si sono fatti espressionisti, hanno saltato d’un passo inatteso la realtà che Caravaggio ha appena diffuso come nuova visione figurativa e si pongono in una dimensione che raramente trova parallelismi possibili se non nelle rappresentazioni emiliane che si sono susseguite da Niccolò dell’Arca di Bologna sul finire del XV secolo al Mazzoni e al Begarelli di Modena nel XVI. L’unico responsabile plausibile della contaminazione è proprio Federico Borromeo che a Bologna s’è laureato in filosofia e matematica dopo le lauree in teologia e diritto a Pavia. Se ne va poi a Roma dove fra i suoi mentori ci sarà il cardinale Marx Sittich von Hohenhems, come suo cugino Carlo legato presso il concilio di Trento. Questi italianizzerà il suo cognome in Altemps e farà costruire nella capitale il palazzo omonimo, da poco restaurato. E proprio in questo palazzo, curiosa ironia della storia, è oggi conservato un oggetto che per la storia del Sacro Monte varesino appare essere centrale. Si tratta del Sarcofago Ludovisi (arte romana, III secolo d.C.) (figure 17 e 18), rinvenuto negli scavi di Roma nel 1621 e acquistato allora dal cardinale bolognese Ludovico Ludovisi, nipote di Alessandro Ludovisi appena salito sul soglio di Pietro con il nome di Gregorio XV. Federico Borromeo è a Roma per il conclave del 1621, e vi torna per il conclave del 1623 quando verrà eletto il successore Barberini Urbano VIII. La collezione Ludovisi è allora visitatissima e il sacofago avrà grande influenza sul gusto. Ogni ritrovamento a Roma, dagli anni epici della scoperta del Laooconte, genera un mutamento di gusto. E Borromeo, che a Roma aveva completato la sua formazione prima dell’imposizione della berretta, è appassionato d’arte sia moderna che antica. Circola regolarmente con i suoi pittori e molto probabilmente riporta in Lombardia i disegni di un’opera che sembra alterare la grammatica visiva allora in voga, vi inserisce delle valenze del tutto inattese, quelle che provengono dall’impero del III secolo che stava allora mescolando gli stilemi ellenistici con la naturale inclinazione latina all’espressività forte. La calca dei personaggi, la violenza del movimento, la rappresentazione figurativa talvolta caricaturale, la vitalità, sono tutte caratteristiche che a partire dal 1623 si svilupperanno proprio nelle sculture di Varese.

(da “Art e Dossier” n. 263, febbraio 2010)