L’arte totale e i suoi antenati
La ricerca dell’opera d’arte “totale” – sintesi di tutte le arti – è rappresentativa di una tendenza alla rivolta contro l’ordine costituito in funzione di un’ideale autonomia. Una tensione ricorrente che possiamo seguire qui in un percorso a ritroso che parte dal Bauhaus, tocca la rivoluzione musicale di Wagner, le mutazioni del gusto barocche, fino alle invenzioni gotiche dell’abate Suger.
L’icona per eccellenza del design festeggia i suoi ottant’anni. Non li dimostra affatto, è tuttora prodotta regolarmente e viene venduta in migliaia di copie ogni anno. Se si dovesse calcolare quanti diritti d’autore ha generato sarebbe forse la miniera più ricca nella storia delle royalties. E si dovrebbero aggiungere, a esaltazione del suo successo, anche le centinaia di migliaia di copie e di falsi che vengono regolarmente posti sul mercato. Si tratta della poltrona Barcelona disegnata nel 1929 da Ludwig Mies van der Rohe (figura 48).
Per niente nobile ma figlio di uno scalpellino di Aquisgrana, Mies era entrato nel 1907 nello studio di Peter Behrens, il padre del Deutscher Werkbund, l’associazione di progettisti che pose sullo stesso livello il disegno di una fabbrica e quello di un ventilatore. Finirà direttore del Bauhaus. Padre dell’architettura moderna, rimane in verità un artigiano diplomato alla Scuola delle arti decorative di Berlino, influenzato dai percorsi profondi che incrociano il neoclassicismo protorazionalista ottocentesco di Schinkel con le ultime tendenze del costruttivismo russo e del movimento olandese De Stijl. Riassume con geniale capacità di sintesi la tematica di Adolf Loos, che pretende che la decorazione sia un crimine, e quella di Gerrit Rietveld (figura 47) che la ritrova nella composizione stessa. Mies van der Rohe si fa propagandista e protagonista della nuova concezione dell’architettura moderna che troverà il suo momento di verifica nella partecipazione all’Expo di Barcellona del 1929, dove progetta il padiglione tedesco e tutti i suoi arredi. Il padiglione è l’estrema realizzazione di una Germania ancora democratica che opta con determinazione per una celebrazione incontrastata della propria modernità, e mette in forse le affermazioni di un Bauhaus iniziale che lo svizzero Johannes Itten aveva voluto ben più ancorato a tradizioni gotiche. L’edificio è una sublimazione interpretativa della luce mediterranea di Barcellona, con grandi vetrate, spazi aperti e teatrali, colonne sottili e tecniche, nonché un’attenzione particolare agli esterni che erano una curiosa e anticipatrice visione del rapporto fra aria, luce, acqua e terra che sarà cifra dell’architettura moderna. I pochi mobili previsti all’interno erano la conseguenza naturale dell’impostazione ideologica dell’intero progetto. Una poltrona e una panchetta dall’aspetto super razionale che potevano sembrare previste per una produzione industriale ma che esigevano in realtà una sofisticata capacità artigianale per saldare l’incrocio delle lamiere di metallo e per trapuntare la seduta di cuoio. Tutto l’opposto di ciò che la dottrina del design indicava come progetto perfetto. Poi la Germania, purtroppo, cambiò indirizzo e si andò a suicidare nell’avventura del nazionalsocialismo. Il padiglione venne dimenticato e lasciato decadere. Una fortunata, recente ricostruzione lo ha restituito alla storia.
Mies abbandonò il Reich hitleriano nel 1937, l’anno della celebrazione a rovescio dell’arte “degenerata” alla quale egli apparteneva. Scadeva un sogno complessivo, del quale rimase solo la poltrona, che si trovò a diventare un simbolo. Per questo motivo forse continua a vivere nelle coscienze e quindi nell’estetica della nostra contemporaneità. Non era oggetto in sé, ma ectoplasma di un sogno infranto, di un mondo previsto e mai portato a compimento. Eppure era prodotto puramente germanico, nel senso che era punto terminale e teorico di una concezione delle arti che lì era nata.
Secondo la dottrina, se così si può dire, il concetto di “opera totale” dalla quale discendeva ogni dettaglio singolo era nato negli anni del fulgore militante di Richard Wagner. Nel 1849 egli ha trentasei anni, ha già superato la miseria parigina con il primo successo del Rienzi che lo porta alla direzione dell’opera di Dresda, ha già conosciuto Feuerbach e Proudhon, è stato ateo e socialista, ha composto – talvolta con poco successo – l’Olandese volante, il Tannhäuser e il Lohengrin. Si getta sulle barricate rivoluzionarie assieme a Bakunin, viene licenziato, gli viene spiccato mandato d’arresto come sovversivo, scappa da Franz Liszt. Si mette a scrivere e a riflettere. Elabora, uno dopo l’altro, una serie di testi: Die Revolution (Dresda, 1848), Die Kunst und die Revolution (Zurigo, 1849) dove inserisce la parte essenziale sull’«Arte del futuro». Il rinnovamento non può che essere assoluto e totale, abolendo ogni traccia del passato ma riferendosi all’insegnamento degli archetipi: la tragedia greca era già stata somma opera totale. E l’avvenire la prevede ancora una volta, l’opera totale, il Gesamtkunstwerk nel quale si mescolano musica, coreografia, scena, pantomima e pubblico.
Colpisce l’autocoscienza romantica di Wagner. In fondo non fa che portare alle ultime conseguenze la lezione storica dell’opera italiana nel momento della sua genesi. Il suo romanticismo è intimamente barocco, se il Barocco potesse esistere oltre la definizione dispregiativa che ne diedero gli illuministi del XVIII secolo (figura 49). Certamente fu il Barocco musicale, sin dai primi anni del Seicento, il momento massimo di applicazione della mutazione di gusto plasmata negli anni del concilio di Trento. Quegli anni di rifondazione delle radici sociali in un patto di convivenza fra ceti laici e nuclei ecclesiali ebbero conseguenze formidabili. La cultura aulica del Rinascimento neoplatonico andò a infrangersi nelle maniacalità del manierismo. Si ripartiva dalla centralità del dogma cristiano e dalla sua accettata irrazionalità, si ripartiva dalle pratiche popolari che andavano incanalate in percorsi dottrinali precisi. Si abbandonavano le fantasie della letteratura e della filosofia mentre si tollerava il viaggio ben meno pericoloso della poesia, della musica, delle arti plastiche nelle quali il decoro assumeva spesso significato superiore al contenuto. La cornice era anarchica rispetto al dipinto, che si trovava costretto a seguire il dogma. Il lavoro creativo scopriva le proprie libertà nei contorni più che nelle sostanze, reperiva le sue fonti di ispirazione nella forma che proponeva la sofisticata abilità dell’artigianato. Il ricciolo del violino mutava le linee dell’architettura. Il crogiolo complessivo generò l’opera totale. Anzi l’Opus stesso venne declinato al plurale e divenne Opera. Ogni liturgia assumeva centralità nella vita.
In questo clima si combinano nella vita laica teatro, poesia, scene e musica, come in quella religiosa si intrecciano vesti, incensi, canti, testi, stucchi, marmi, cornici e dipinti. Trattavasi di rivoluzione culturale integrata. Era stimolata dall’oggettiva necessità dei latini di dare risposta alla fuga nordica della Riforma. Era un percorso radicalmente politico. E nasceva così già allora la metodologia ideologica del futuro Bauhaus. Ma non era forse già apparsa nello stesso modo quando, negli anni Venti del XII secolo, a Saint-Denis (figura 50), l’abate Suger aveva posto le fondamenta di una rivoluzione culturale contro le pretese e quindi gli stilemi palatini dell’impero, quelli che celebravano la romanità antica come sanzione dell’unità politica del mondo? Mutamento concepito mentre lo stesso Suger si trovava a sostituire nella gestione degli interessi della futura Francia indipendente Luigi VII partito per la II crociata. A lui capitò, e non affatto per caso, di combinare la nuova calligrafia “a punta”, nata dall’innovazione dell’uso della penna d’oca – quella calligrafia che avrebbe generato il modus parisiensis da cui l’etimologia della parola “moderno” –, con l’applicazione della tecnica ogivale araba, ugualmente appuntita, e con le citazioni degli oggetti compositi sorti dal ridisegno delle immagini di provenienza bizantina. Anche i primi passi del Gotico furono dunque opera d’arte totale volta a compiere la rottura verso l’indipendenza.
(da “Art e Dossier” n. 256, giugno 2009)
