Arte e denaro
Non aveva del tutto ragione Max Weber quando scrisse nel 1905 L’etica protestante e la nascita del capitalismo. Era geniale l’intuito di collegare l’etica “puritana” all’idea di un accumulo monetario non a scopo di dissipazione e di godimento ma volto alla formazione di ricchezza ulteriore. Era miope però pensare che la cosa potesse essere avvenuta solo in base alle indicazioni riformatrici di Lutero, Zwingli e Calvino, in quanto lo stesso meccanismo era stato posto in essere nella penisola degli italiani fra XII e XIII secolo. Portò, allora, alla folgorante fioritura imprenditoriale, commerciale e finanziaria della classe urbana dal Dugento al Rinascimento. E anche in questo caso specifico tutto era nato da una rivoluzione etica. La radice dell’etica del borgo affonda nella riforma benedettina che nel giro di poco tempo elaborò l’etica dei vizi capitali come parametro della convivenza. Non essere troppo avidi, né superbi, né golosi, evitare il disinteresse per la vita collettiva chiamando questa perversione accidia (non si tratta di pigrizia), limitare la fornicazione alla necessaria riproduzione demografica, arrabbiarsi poco col vicino o nella trattativa: furono questi i comportamenti necessari alla crescita della bottega e del gruzzolo. La Regola fu dettata a Norcia nel 534, ed era l’unica alternativa politica possibile al codice di Giustiniano del 529, quello “vetus”, arricchito dalle Repetitae Praelectionis nello stesso 534. La regola viene recepita immediatamente da Gregorio Magno, il quale la integra con i dettami che san Cassiano ha trovato in Aristotele e che andranno a formare quella definizione dei peccati (e peccati in senso stretto non lo sono, in quanto non corrispondono ad atti ma a uno stato d’animo suscettibile di portare ad atti) o vizi capitali che san Tommaso sette secoli dopo porterà alla sanzione definitiva. Un cavaliere tedesco o franco allora aveva una visione ben diversa della questione: per lui il vizio maggiore era la codardia, mentre la superbia e l’ira erano strumenti necessari allo svolgimento della sua occupazione primaria. La permeazione dell’etica dal monastero alla città forma la moralità di riferimento per il primo capitalismo d’Europa, seguito a ruota, questo capitalismo guelfo, dall’altro capitalismo extranobiliare, quello fiammingo. E guarda caso è esattamente in queste due aree che si sviluppa la pittura su supporto mobile, quella dei quadri per essere più precisi, non più quella esclusivamente riservata alle comunità negli affreschi o ai principi nei codici miniati. E in questi quadri/patrimonio, trasportabili e incorniciabili, appare anche il dibattito in corso fra ricchezza, ostentazione e critica, compreso il ritratto del riformatore Savonarola. È la borghesia moralista che promuove i quadri, a Firenze come a Bruges, più tardi ad Amsterdam nel Seicento e più tardi ancora nella Francia postrivoluzionaria. Sarà la mancanza di quadri appetibili la causa del decadimento della borghesia attuale, o più semplicemente la mancanza di morale? La seconda ipotesi salverebbe l’assunto di Max Weber, anche nell’epoca del web, dei subprimes e della Biennale di Venezia.
(da “Art e Dossier” n. 281, ottobre 2011)