Tutti coinvolti

Milano-Parigi: 1898 – primi anni Dieci. L’Italia giolittiana e le proteste di piazza, la repressione poliziesca e i fermenti anarchici. Un’Italia antica che cerca di farsi moderna tra un’industria che nasce e una guerra in arrivo.

«Abbiamo vegliato tutta la notte, i miei amici e io, sotto lampade da moschea con cupole di rame, traforate come la nostra anima, che avevano invece cuori elettrici. E mentre calpestavamo la nostra pigrizia nativa su opulenti tappeti persiani, avevamo portato la discussione agli estremi confini della logica e segnato la carta con scritture dementi».

È così, in realtà, con un tono decadentista che avrebbe potuto apprezzare il suo nemico letterario e mondano Gabriele d’Annunzio, che inizia il prologo del manifesto pubblicato da Marinetti sul “Figaro”, samedi 20 février 1909 a Parigi. La formidabile pagina che poi cantava la voglia di pericolo, d’energia e di temerità, l’entusiasmo per la guerra che nessuno ancora poteva immaginare così vicina e terribile, la passione per tutto ciò che noi oggi consideriamo ferraglia da archiviare, l’eccitazione per i rumori che nel mondo attuale consideriamo intollerabili, iniziava con un sapore di serate fra adolescenti poeti che sarebbe sicuramente piaciuto a Mallarmé se non fosse che era già morto da dieci anni. Filippo Tommaso Marinetti aveva l’età travolgente di trentatre anni (figura 39).

Il testo francese pubblicato suona innegabilmente più poetico e ben meno retorico della sua traduzione italiana. Ed è altrettanto vero, a proposito di retoriche, che anche lo scrivere poetico di D’Annunzio, nello stesso periodo, è ben più stringato in francese di quanto non lo sia nella Figlia di Jorio. Il supervate a Parigi è già noto e tradotto ma vi giunge stabilmente, spinto alla fuga dai creditori, solo l’anno dopo. Gino Severini è già lì da quattro anni (figura 38).

Cosa li portava tutti a Parigi? Cosa avrebbe portato lì, due anni dopo, anche il giovane Ungaretti per studiare alla Sorbona da Bergson? Cosa rendeva questi italiani d’allora ben meno provinciali di quelli che ci troviamo a frequentare ora, ben più propensi all’avventura, compresa quella bellica nella quale tutti e tre gli scrittori si troveranno volontari? De Chirico ci sarebbe finito anche lui, a Parigi, ma non tornerà per la guerra, anzi forse addirittura tenterà d’imboscarsi e si troverà necessariamente coinvolto nell’evento solo sul finire della mattanza, tranquillamente a Ferrara dove, sulle sedie dell’infermeria, convertirà Carrà dal futurismo alla metafisica. La metafisica è apolide e apolitica. Il futurismo no.

L’energia che tutti si portavano appresso era quella della terza generazione successiva a quella che aveva partecipato all’unità nazionale. Ed è emblematico in questo senso lo scritto di Marinetti Les Dieux s’en vont, D’Annunzio reste dove si guarda con nostalgia la scomparsa dei nonni, Verdi e Carducci, e ci si preoccupa invece della generazione immediatamente precedente, quella scapigliata dei padri che aveva iniziato la rivolta contro una società che pareva non avere mantenuto le promesse. L’Italietta giolittiana tentava di spianare le tensioni in un’ipotesi timida di riforme, ma la memoria dei funerali dell’anarchico Galli, ucciso dal custode d’una fabbrica nel 1904, l’anno del primo sciopero generale, rimaneva ben forte se Carrà nel 1911 gli dedica la stesura del suo capolavoro. Rimaneva purulenta la ferita dell’inutile avventura coloniale sfociata nella catastrofe di Adua; rimaneva nella memoria dell’aria di Milano l’odore acre delle stupide cannonate di Bava Beccaris in quel 1898 nel quale la città appariva risorgere con tutto che si innovava, Bitter Campari compreso.

Punto di svolta, quel 1898. Punto di svolta Milano dove, in via Senato, Marinetti redigerà dieci anni dopo il manifesto che sarebbe stato pubblicato a Parigi. 1898, salta il governo Rudinì e si dice che D’Annunzio passi dai banchi della destra a quelli della sinistra con la storica frase «vado verso la vita». Si dice. Arturo Toscanini trentunenne assume la direzione musicale della Scala, la quale passa dai palchettisti a una moderna società per azioni presieduta dal futuro senatore liberale Uberto Visconti di Modrone. La Pirelli festeggia malgrado le cannonate il suo venticinquesimo compleanno. Si dice che la protesta operaia per il caro vita avrebbe potuto essere tenuta sotto controllo politico dopo l’incontro fra Giovan Battista Pirelli, cofondatore del Politecnico, e Filippo Turati, cofondatore del partito socialista, ma la polizia arresta un agitatore e poi spara sui manifestanti, e passa come un demone la notizia che il figlio del vicepresidente della camera, il radicale Giuseppe Mussi che verrà l’anno successivo votato sindaco, è stato ucciso dalle fucilate governative durante la manifestazione di Pavia. A Pavia Marinetti, che il Baccalauréat lo aveva passato a Parigi, si sta laureando in legge. Non si può evitare di sentirsi coinvolti. D’altronde Ungaretti, nato come lui in Egitto, ha già aderito a una consorteria locale, egizia, di anarco-socialisti, nella casetta rossa d’Alessandria. Nati tutti e due in un Egitto che ha allora una produzione siderurgica che supera di tre volte quella italiana, e dove si studia nei collegi di lingua francese; un Egitto dal quale si parte per l’avventura, come ricorda il prologo del Manifesto, «soli coi meccanici nelle infernali caldaie delle grandi navi, soli con i fantasmi neri che foraggiano il ventre rosso delle locomotive impazzite». Il nero e rosso, vessillo dell’anarchia. Partono tutti dalla penisola, all’avventura. Era partito nel 1894 il garzone panettiere Sante Caserio per andare ad assassinare il presidente francese Carnot: fu ghigliottinato. Era partita dal parmense, per farlo nascere in un orfanotrofio a Parigi, la mamma di quel Luigi Luccheni che uccise a Ginevra l’imperatrice Sissi nel 1898 e morì suicida in carcere. Era partito da Prato per il New Jersey e poi per Monza Gaetano Bresci che vendicò gli ottanta morti di Milano uccidendo Umberto I (figura 40). Condannato a morte, la condanna fu commutata in lavori forzati a vita. Fu in seguito, si dice, “suicidato”. Si dice pure che Benito Mussolini, visitando qualche anno dopo la cappella espiatoria di Monza abbia scritto col sasso sulla parete «monumento a Bresci». Verrà preso per anarchico l’imbianchino Vincenzo Peruggia, già da tempo residente in Francia, che ruba la Gioconda nel 1911. Andrà, dopo una mite condanna, volontario in guerra. Verranno, negli anni Venti, condannati e giustiziati negli Stati Uniti gli anarchici Sacco e Vanzetti.

L’Italia. L’Italia agricola si stava ammodernando, produceva internazionalismo e furore. Generava la prima avanguardia, forse folle, sicuramente autocosciente, d’Europa. E si sarebbe tuffata l’indomani, ardita quanto incosciente, futurista o dannunziana, nelle trincee della prima guerra mondiale. Era convinta che il futuro era da venire.

(da “Art e Dossier” n. 252, febbraio 2009)