Arte a spasso

Nel 1476 Carlo il Temerario di Borgogna perde in battaglia il proprio tesoro in seguito al saccheggio dell’accampamento: come un capotribù nomade, portava infatti sempre con sé tutti i suoi beni. Piccoli, trasportabili, preziosissimi. Negli stessi anni, gli autocrati italiani commissionano affreschi per i propri palazzi, mentre il monumentale Polittico di Gand era già da qualche decennio testimonianza della stabilità borghese. A confronto, due diverse concezioni della funzione dell’arte.

Mai avrebbe pensato, Carlo detto il Temerario (1433-1477), del ramo cadetto della dinastia capetingia allora regnante in Francia dei Valois, conte e poi quarto e ultimo duca di Borgogna, conte del Charolais, dell’Artois e delle Fiandre, duca di Limburgo, Brabante e Lorena, conte di Hainaut, Olanda e Zelanda, duca di Lussemburgo e marchese di Namur, duca di Gheldria e conte di Zutphen, che quella mattina del secondo giorno di marzo, leggermente più calda e annunciatrice della prossima primavera, sarebbe stata l’alba del tramonto dei suoi sogni e della feudalità perfetta ed elegante che egli si trovava a impersonificare come suo maggiore rappresentante in Europa. Correva l’anno 1476 e da poco era iniziato uno scontro bellico con i confederati elvetici che si opponevano al suo desiderio di formare in modo stabile uno Stato cuscinetto potente fra il devastato regno di Francia e l’ambizioso Sacro romano impero. Gli intollerabili montanari, che un secolo prima avevano sancito con Guglielmo Tell la loro autonomia dall’Impero, si erano alleati ora con le città d’Alsazia sotto l’occhio benevolo della Francia (il cui re Luigi XI era avversario di Carlo) e avevano portato via ai Savoia (alleati del duca di Borgogna) alcune piazzeforti del paese di Vaud. La repressione di Carlo fu immediata, con un esercito di mercenari che si diceva essere il più efficace e moderno dell’epoca (figura 7). Il 21 febbraio i borgognoni prendono d’assedio la città fortificata di Grandson, il 28 la penetrano dopo avere promesso il salvacondotto ai suoi 412 difensori, che annegano o impiccano. Prima reazione storica d’un esercito organizzato contro la resistenza. La voce si sparge fra le montagne e i confederati raccolgono, in perfetto disordine, ventimila uomini. Il 2 marzo Carlo decide di inseguirli su un terreno che purtroppo non conosce, in mezzo a neve e ghiaccio che iniziano a sciogliersi. Si scioglie pure la sua macchina bellica (figura 8). I rozzi elvetici hanno messo a punto un’invenzione tattica impensabile: decidono di allungare nel più rudimentale dei modi le loro picche da quattro a sei metri, si mettono in quadrato come la falange greca e in mezzo al terreno scivoloso diventano impenetrabili a un esercito che aveva dovuto rinunciare alla cavalleria e a ogni macchina tecnica. Un ordine mal impartito fra i borgognoni porta al panico. Tutti scappano. Gli svizzeri si impadroniscono del campo, di centinaia di cannoni abbandonati, di tonnellate di polvere da sparo e di un bottino che mai fino a quel giorno si pensava di potere portare a casa. Carlo viaggiava accompagnato da tutti i suoi beni: i sigilli d’oro del governo, le corone, le vesti e le stoffe, i tendaggi e gli arazzi, le tavole dipinte dai maestri delle Fiandre e i codici miniati. Il bottino venne esposto, poi divenne motivo di appetiti e di litigi, smembrato e venduto ai rigattieri. Le pietre preziose, staccate dalle corone, furono impegnate presso i Fugger. Il suo esercito ricostituito sarà poi sconfitto a Murten (o Morat, in francese) all’inizio dell’estate. Lui stesso verrà ucciso all’inizio dell’anno successivo nella battaglia di Nancy. Gut, Mut, Blut: perse i beni (Gut) a Grandson, il coraggio (Mut) a Murten, il sangue (Blut) a Nancy. Tutto iniziò – come è d’obbligo in terra svizzera – con la perdita dei beni, che erano assolutamente mobili.

Percorso mentale, quello di Carlo, che merita un’attenta riflessione. Il signore di Borgogna girava allora con la “roba” appresso esattamente come avrebbe fatto un capo delle tribù che avevano invaso l’Europa romana fra il IV e il VI secolo. Portava con sé la sua identità, in guisa del Toson d’oro che aveva appeso al collo: le sue sofisticate proprietà artistiche, il suo immaginario visivo, i suoi segni di riconoscimento, le armature dorate, le raffinate vesti del suo seguito, quelle costate per l’incontro a Treviri nel 1473 con l’imperatore Federico III un terzo della cifra per la quale era stata ceduta l’Alsazia. Negli stessi anni gli autocrati d’Italia facevano decorare le pareti delle loro dimore da affreschi inamovibili: Schifanoia a Ferrara col Cossa e colleghi, Mantova con Mantegna, Rimini con Piero. I piccoli tiranni di Foligno, di Camerino o di Città di Castello li imitavano alla meglio. Privi di genealogie gloriose, credevano alla stabilità dei muri. Non che disdegnassero i libri, ma questi per loro non erano compagni di viaggio bensì elementi di biblioteche che dovevano rivaleggiare con quella papale, con quelle delle università e dei monasteri. Carlo seguiva le orme del prozio Giovanni I duca di Berry, terzogenito dell’avo re di Francia, Giovanni il Buono. Giovanni duca era mecenate ai limiti della bulimia, collezionava medaglie antiche e gioielli, pietre e cammei che si rivelarono poi in gran parte falsi. Girava da un castello all’altro facendolo di volta in volta allestire. Cuore dei suoi tesori erano i libri di preghiere, le Très riches heures, le Petites heures, le Belles heures, realizzate dai fratelli Limbourg e dai migliori miniaturisti dell’epoca. Morì nel 1416 lasciando un’eredità mirabile conservata in parte nel castello di Chantilly. Pochi anni dopo, all’opposto, nasceva in ambito borgognone fiammingo il primo capolavoro dell’arte “stabile”, dipinto a olio su una tavola polittica dai fratelli Van Eyck e ordinato dal “borghese comune” Joost Vijd per la cattedrale di San Bavone a Gand (figura 9). Il borghese era stabile quanto il dipinto. Eppure rimane un certa nostalgia per un mondo artistico che era totalmente personale, che veniva comunicato solo all’interno della stretta cerchia degli eletti. Era quello un immaginario con fughe iconografiche ignote alla tradizione parietale e alla successiva pittura di grande formato. Era quello un cosmo mentale poi estinto, con fantasie senza freno, con applicazioni verso sogni senza frontiere, con attenzioni verso qualità senza limiti. Ben povere, al loro cospetto, le pareti affrescate nel pellegrinaio di Santa Maria della Scala di Siena, quelle del Vecchietta, del di Bartolo e di Priamo della Quercia? Ben più reali, vicine a un popolo vasto che nell’arte da secoli si riconosce perché vi trova il riscatto della vita terrena e il pensiero di quella futura.

(da “Art e Dossier” n. 260, novembre 2009)