L’estetica dell’ansia

Gli imperi non muoiono, e certamente non evaporano. Gli imperi implodono. Troppa è la forza di tenuta richiesta per farli vivere nella loro forma poliedrica per ipotizzare un banale crollo. Quando questa forza viene a mancare, gli imperi non crollano su loro stessi, collassano verso il loro centro facendo di questo centro un luogo di eterne nostalgie. Questa è la memoria che permane di Babilonia. Questo è il motivo che rende così affascinante ancora oggi Roma addirittura per un visitatore inavvertito. Questa forse pure la causa del fascino che Vienna esercita su ogni spirito letterario. Questo probabilmente il segreto dell’attrazione oggi di New York. Perché l’impero in realtà è il risultato della coabitazione di elementi eterogenei che si riconoscono sotto un medesimo afflato d’appartenenza all’avventura della storia il quale rimane tale solo fintanto che la storia vi insuffla una quotidiana energia. Ecco la ragione per la quale gli imperi vivono decadimenti che assomigliano al calar del vento prima dello scoppio del temporale e assumono quindi l’eleganza crepuscolare breve della decadenza. L’Italia in questo senso tutto è fuorché impero: il suo decadimento è privo di valore estetico. Ma l’Austria imperial regia ben più gloriosa fine ebbe da vivere prima della sua implosione nella prima guerra mondiale. La sensazione d’un mondo dal destino fatale fu allora densa di tensioni estetiche che vennero a sostituire le leggerezze politiche e musicali dei tempi precedenti, che vennero a colmare il vuoto d’una letteratura insipida, d’una pittura arretrata. L’imperial regio canto del cigno s’innalzò in Mahler e in Bruckner e in Alban Berg ben oltre le inutili letizie di Richard Strauss. Ebrei e cattolici, boemi e austriaci si ritrovavano a testimoniare la fine d’un percorso che i capricci della Storia aveva delineato, da Hofmannstahl a Zweig, da Kafka a Musil. Le arti visive, l’architettura e il suo decoro ne erano testimoni e al contempo promotori. E i loro fantasmi divennero matrice della cultura mondiale, così come i fantasmi di Roma occupano oggi il Campidoglio di Washington.

La ricognizione dei buchi neri nel cosmo della coscienza collettiva forma in tal senso un percorso di ricerca formidabile. L’impero europeo di Carlomagno seguì un processo analogo, lasciando l’eredità del sogno al nipote più sfortunato, quel Lotario al quale in teoria toccò la corona e la striscia centrale che lungo la riva sinistra del Reno toccava la capitale ad Acquisgrana e poi scendendo le Alpi penetrava il cuore dell’Italia. Non esiste più, è implosa, ma lascia tuttora sognare l’Europa d’una civiltà comune. Ed è tuttora la speranza d’Europa questa civiltà comune dove convivono ceppi diversi di genti e di lingue, come nella Vienna di Klimt e nella Roma d’Orazio. È speranza se è capace di risorgere una forza che tenga unito il tutto, che non è lontana questa forza dall’indignazione che predica il novantenne Stéphane Hessel. L’indignazione contro la banalità del conformismo edonista, l’indignazione intesa come presa di coscienza delle lingue e dei passati diversi, dei coraggi dimenticati e delle virtù sepolte è oggi il nuovo vento che muove gli animi, sia nella politica che nelle arti.

(da “Art e Dossier” n. 282, novembre 2011)

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