71
«Immagino che lei si ricordi» ripeté Barbarotti.
Rickard Berglund non lo guardò. Rimase invece seduto a osservarsi le mani giunte. Una manciata di secondi silenziosi passò diretta verso l’eternità e Barbarotti pensò che erano quelli i momenti più interessanti. Le pause in cui i pensieri cercavano una direzione, una decisione, o chissà cosa. Notò con stupore di avere le palpitazioni.
«Quella cena» riprese Berglund infine. «Be’, è come dice lei. Me la ricordo, e mi ricordo che era un giorno felice. Forse dovrei dire che io ero felice, mi sembrava di percepire la presenza di Dio, in un certo qual modo. E non so se tutto sarebbe stato diverso, se non avessimo organizzato quell’incontro... be’, ovviamente sì.»
Barbarotti rimase in silenzio. Erano i pensieri di Berglund che cercavano una direzione, non i suoi. Una domanda sbagliata e probabilmente avrebbe finito per bloccarne il flusso. Non che avesse un’idea precisa di quale porta si stesse aprendo, ma qualcosa stava per accadere, era evidente. Riusciva a percepire il fremito nelle tempie del suo ospite.
«Il fatto è» continuò Berglund disgiungendo le mani «che tutto è giunto in porto. L’inquietudine della terra cede di fronte alla pace, per dirla con Wallin. Non ho più nulla da dirle. A dire il vero penso di essere stanco, ho gradito le nostre brevi conversazioni.»
«Anch’io» disse Barbarotti. «Ma non sono sicuro che lei stia per prendere la decisione giusta.»
«Decisione?» domandò Berglund.
«Ho il presentimento che lei si stia tenendo dentro qualcosa. L’ho notato un attimo fa, quando si guardava le mani. Mi sembrava che pregasse.»
Rickard Berglund lo osservò sorpreso. «No, non stavo pregando» si difese. «Ma negli ultimi giorni ho parlato molto con Dio, è vero. Da quando Anna se n’è andata, voglio dire, nell’ultima settimana. Anche lei, credo, vero? O era solo un contegno che ha assunto perché doveva incontrare un uomo di Chiesa?»
«No» rispose Barbarotti scuotendo il capo. «Non era una questione di contegno, non mi sottovaluti.»
«Mi scusi» disse Berglund.
«Lei parla con Dio, o qualche volta permette anche a Lui di mettersi in contatto?»
All’improvviso Rickard Berglund sorrise. «Bella domanda» constatò. «Fra l’altro sono parole insolite per un tutore dell’ordine, presumo. Ma forse non è così che si considera, giusto?»
«Spesso indossiamo maschere diverse» rispose Barbarotti. «Quindi?»
«Quindi cosa?»
«A cosa l’hanno portata le sue conversazioni con Dio? Se si è messo in contatto con lei, s’intende.»
Berglund non rispose.
«Dopo aver fatto il sacerdote per tanti anni, saprà distinguere le voci, presumo» tentò Barbarotti. «Distinguere la sua da quella di Nostro Signore. Non riesco a immaginarmi che Lui le abbia intimato di tacere.»
Ma Rickard Berglund tacque. Passò un’altra manciata di secondi, i loro sguardi si incrociarono fugacemente e alla fine Barbarotti prese una decisione. Il tempo dell’indugio e della pazienza era finito. Aveva sempre preferito la lentezza, ma a tutto c’era un limite.
«Ha due alternative» disse. «O mi racconta tutto qui e ora, dignitosamente, oppure sarò costretto a trascinarla con me in commissariato per interrogarla in modo assai meno dignitoso. Mi dispiace, ma non vedo altre soluzioni. Non c’è una terza via.»
Mi sto giocando tutto, pensò. Meno male che non ho acceso il registratore, così nessuno potrà ascoltare il pasticcio che ho combinato.
Berglund si schiarì la voce. Barbarotti cercò il suo sguardo e l’ex sacerdote gli tenne testa. Da quegli occhi traspariva solo una profonda calma.
«Spero che lei scelga la prima alternativa» aggiunse Barbarotti. «Adesso.»
Berglund alzò la mano destra in un gesto che sembrò perdersi a metà strada. Rimase seduto con il palmo della mano rivolto verso il soffitto e le dita tese come se aspettasse di ricevere qualcosa dall’alto. Forse fu proprio quello che accadde.
«Allright, dato che insiste» disse infine abbassando la mano. «Ma prima beviamo un caffè, d’accordo?»
«Volentieri» disse Gunnar Barbarotti. «Accendo il registratore.»
La gallina cieca trova un granello, pensò. Era un pensiero ricorrente e irritante, ma forse era un passo nella giusta direzione. Magari non era nemmeno cieca. E in quegli anni aveva trovato ben più di un granello...
«Mi chiedeva di quella cena» iniziò Berglund. «Non sapevo nulla allora. Non avevo idea di cosa fosse successo. Non ne avevo la più pallida idea, lo sapevano solo quelli coinvolti.»
Barbarotti annuì. Si chiese chi fossero «quelli coinvolti», ma si morse la lingua.
«Ci sono voluti trentacinque anni, infatti. Riesce a immaginarselo, quasi trentacinque anni prima che lei parlasse? Si può vivere così a lungo senza sapere nulla? Si può vivere così a lungo nella menzogna? Anche se il suo tormento era più grande del mio, non bisogna dimenticarlo. Se un uomo e una donna stanno insieme per una vita, con il tempo nasce una specie di equilibrio. A prescindere dalle differenze. Gli altri magari non capiscono, ma dall’interno ci si rende conto che è così. Capisce?»
Fece una pausa e cercò lo sguardo di Barbarotti per avere conferma. L’ispettore rifletté sulla teoria dell’equilibro e si chiese se fosse esatta. Non arrivò a darsi una risposta e si accontentò di annuire di nuovo.
«In un certo senso era grata della sua malattia» continuò Berglund. «L’aveva presa come una punizione meritata. Le nostre vite sono state un fallimento, lei ha portato la colpa e il cancro era la punizione... per lei era pressappoco così. Io ovviamente ho un’idea diversa. Ma ha finito per convincere anche me, per così dire. È stato di fronte alla morte che ci siamo avvicinati veramente, certo non è così che dovrebbe andare, ma nel nostro caso è andata in questo modo, ed è pur sempre una consolazione.»
«Penso che lei mi debba spiegare tutto dall’inizio» lo pregò Barbarotti.
«Mi scusi» disse Rickard Berglund. «Anticipo i fatti.»
«Abbiamo tutto il tempo che vogliamo» disse Barbarotti e controllò che il registratore funzionasse.
Rickard Berglund rifletté un istante, mentre si preparava a raccontare. «C’era qualcosa di demoniaco in lui» disse alla fine appoggiandosi alla poltrona. «Sì, proprio così, demoniaco.»
«Lui chi?»
«Germund Grooth» rispose Berglund. «È Germund Grooth il nocciolo della questione, ma forse non ho bisogno di spiegarglielo.»
«Al contrario» disse Barbarotti. «Mi spieghi tutto, sono qui apposta.»
«Naturalmente. Mi scusi.» Berglund tossì un paio di volte coprendosi la bocca con la mano e iniziò con slancio. «Non l’ho mai capito, e negli ultimi anni ho cercato di farlo. So che Ekelöf scrive che il fondo di sé è anche il fondo degli altri, ma nel caso di Grooth non era così. Lui è... era... un essere di natura sconosciuta, ecco.»
Sospirò e rimase in silenzio ancora un istante. Barbarotti attese.
«Non è divertente essere anziani e sapere che la propria vita è andata a puttane» constatò Berglund con una punta di collera nella voce. Barbarotti non poté fare a meno di notare che era la prima imprecazione che gli usciva di bocca.
«Si costruisce e costruisce» continuò, «anno dopo anno si aggiungono rametti al nido della vita e si crede di imparare qualcosa durante il viaggio... che si stia stabilendo un equilibrio. Almeno è quello che vogliamo immaginare. Vero?»
«Il viaggio però deve proseguire» commentò Barbarotti.
«Assolutamente vero. Ma non è stato il mio caso. Sono venuto meno alla mia vocazione di predicatore, non ho avuto figli e durante il nostro matrimonio mia moglie ha amato un altro uomo. Viene da chiedersi che scopo ci sia in tutto questo.»
«Amava Germund Grooth?»
«Germund Grooth» rispose Berglund, passandosi la mano sulla bocca e sul mento. «Hanno avuto una relazione per venticinque anni. Anzi, più di venticinque anni. Da quel giorno...»
La sua voce si spezzò. Scosse la testa e fece un respiro profondo e agitato. Barbarotti si chiese se Berglund stesse per sentirsi male, ma non sembrava. L’ex sacerdote fu costretto a fare una pausa di fronte a ciò che lo attendeva, ma andò avanti. Era concentrato, e si era già preparato quello che stava per dire.
«Dal giorno in cui ci eravamo trasferiti... riesce a immaginarsi il dramma? Germund ci aveva dato una mano col trasloco e avevano fatto in tempo a fare l’amore mentre io ero via per qualche ora. Ero andato a trovare un vecchio amico che aveva avuto un incidente... era ricoverato all’Akademiska di Uppsala. Intanto lei mi tradiva nella nostra prima casa. Era l’ottobre del 1971.»
Si interruppe, si osservò le mani e lasciò cadere le spalle.
«È andata avanti fino agli anni Novanta. Fino a quando il cancro comparve per la prima volta, penso. Sì, proprio così. Era posseduta da lui. Non lo voleva, ma non riuscì mai a dire di no, lui era... è una parola forte, ma credo fosse un uomo cattivo. Demoniaco, come le ho detto. Ho cercato di capirlo, di capire le sue ragioni e tutto il resto, ma non ci riesco. Ha avuto altre donne oltre a lei nel frattempo.»
«Come ha fatto a scoprirlo?» chiese Barbarotti reprimendo l’impulso di toccare l’uomo di fronte a lui. Da dove vengono simili impulsi? pensò. Si rese conto che dovevano esserci dieci anni di differenza tra Anna Berglund e Marianne, una consapevolezza che l’avrebbe condotto in zone pericolose – demoniaco? –, ma il racconto di Berglund dissolse le sue nebbie interiori.
«Me l’ha raccontato lei» spiegò. «Quando il cancro si ripresentò mi raccontò tutto. Voleva uccidersi, ma sono riuscito a impedirglielo. Mi fu riconoscente, non incontrò mai più Grooth, neppure una volta. Ha trascorso questi ultimi anni in attesa di morire. Il fatto strano è che...»
«Sì?» disse Barbarotti. «Cosa c’è di strano?»
Berglund fece una risata, breve e incerta. «Il fatto strano è» aggiunse «che lei è arrivata a odiarlo... o forse non è così strano. Il pendolo ha cambiato direzione, si può dire. A volte ho quasi preso le sue difese. Le facevo osservare che bisogna essere in due a volerlo, ma lei faceva fatica a capirlo. Lui era la droga, lei la vittima, usava sempre queste parole. A ogni modo Germund Grooth ha distrutto la nostra vita. Lui è il mio capro espiatorio, ma lo era ancor di più per Anna. Riesce a capirmi?»
«Forse non ha molta importanza» disse Barbarotti. «La ragione e il sentimento non vanno sempre d’accordo. Dunque cosa accadde a Gåsaklinten nel 1975?»
Rickard Berglund aggrottò la fronte per un istante, sembrò riflettere sul commento dell’ispettore. Bevve un sorso di caffè e raddrizzò la schiena.
«Mia moglie ha spinto Maria nel precipizio» disse.
Barbarotti lasciò che la confessione sedimentasse. Controllò che il registratore funzionasse.
«Perché?»
«Perché capì che Germund avrebbe sempre preferito Maria a lei» spiegò Berglund. «Maria e Germund avevano quasi un legame di sangue. Lo avevano chiarito la sera prima in canonica, lui lo aveva detto chiaro e tondo ad Anna, e fu allora che lei decise. Uccise Maria perché così avrebbe avuto Germund, semplice.»
«Semplice?»
«Sì. Possono esserci altri dettagli, ma penso che nella sostanza non cambi nulla. È andata semplicemente così.»
«Capisco» disse Barbarotti. «E nessuno ha sospettato nulla?»
«Nessuno ha sospettato nulla» confermò Berglund. «In particolare Germund. Fino a due settimane fa ha sempre creduto che Maria fosse caduta a Gåsaklinten durante quell’escursione, che fosse morta per un incidente. Ma i calcoli di Anna non funzionarono. Non fu mai come aveva previsto. Germund non l’ha voluta neanche dopo la morte di Maria. Non sul serio, almeno, solo come una relazione indecorosa per vent’anni. E lei si è accontentata... ne era posseduta, non ci sono altre parole.»
«E quando» chiese Barbarotti, «quando l’ha saputo lei?»
«Cinque anni fa» disse Berglund. «Sì, cinque anni e mezzo fa, per l’esattezza. Quando si è ammalata seriamente. Ho lasciato la Chiesa qualche mese dopo. Per me era impossibile continuare, deve accontentarsi di questa spiegazione. Capisce cosa intendo quando dico che la mia vita è stata un fallimento?»
«Credo di sì» rispose Barbarotti. «Ma voglio che per una questione di chiarezza mi racconti anche della morte di Grooth.»
«Molto volentieri» disse Berglund, e Barbarotti capì che intendeva farlo veramente. Che gli procurava un’amara soddisfazione poter rendere conto di come avesse finito i suoi giorni l’amante di sua moglie.
E chi poteva invidiarlo per questo? pensò Gunnar Barbarotti e allontanò l’immagine di Marianne e Germund Grooth, che di nuovo gli affiorava alla mente. La ricacciò nell’oblio prima che diventasse nitida.
«In un certo senso mi ci ha condotto lei» disse Rickard Berglund. «Ma non è del tutto vero.»
Barbarotti annuì.
«Se non mi avesse costretto lei, lo avrei fatto io. Lo spero, in ogni caso. Comunque Anna non voleva morire prima di sapere che mi ero sbarazzato di lui. L’ho punito, solo questo l’ha tenuta in vita nelle ultime settimane. Mi segue?»
«La seguo» disse Barbarotti.
«È importante» disse Berglund. «Se ora le racconto com’è andata, non voglio essere frainteso. Voglio che sia chiaro.»
«La ascolto» insistette Barbarotti. «E non sono un idiota.»
«Bene» disse Berglund. «Lo so che non è un idiota. Lo abbiamo pianificato insieme. Ci univa un forte senso di solidarietà. Lei era debole, stava male, ma lo abbiamo fatto, dovevamo... in un certo senso avrebbe compensato il fallimento del nostro matrimonio e della nostra vita. E io ho eseguito il piano. Ho preso l’auto e sono andato fino a Lund nel cuore della notte. L’ho chiamato da un cellulare – senza abbonamento – proprio come un vero delinquente. Era mattina presto, ero appostato davanti a casa sua. Gli domandai se potevo salire da lui, ne fu sorpreso, ovviamente, ma gli dissi che era importante, Anna era in fin di vita. Mi chiese di aspettare qualche minuto, poi mi fece entrare, e naturalmente avrei potuto...»
«Sì?»
Rickard Berglund si alzò. Si avvicinò alla libreria e aprì un cassetto. Prese qualche foglio e un paio di cartellette, dando le spalle a Barbarotti, e quando si voltò aveva tra le mani una pesante pistola. La teneva con il palmo di entrambe le mani come se si trattasse di qualcosa di molto delicato – l’immagine di un calice affiorò per un attimo nella mente di Barbarotti – e tornò con un’andatura quasi cerimoniale alla poltrona. Si sedette e si appoggiò l’arma sulle ginocchia. Da quello che Barbarotti riuscì a vedere si trattava di una Berenger, o di una Baluga spagnola. Sulle ginocchia di Berglund sembrava fuori luogo, come una Bibbia in un acquario.
«La metta via» intimò Barbarotti.
Berglund scosse la testa.
«Non posso continuare questa conversazione sotto la minaccia di un’arma.»
«Non credo abbia altra scelta» disse Berglund.
Gunnar Barbarotti rifletté per alcuni secondi. Poi annuì. Malgrado tutto provò un senso di riconoscenza per essere disarmato. La situazione sarebbe stata diversa se avesse avuto a disposizione la sua pistola di ordinanza. L’avrebbe costretto, in un modo o nell’altro. Ma non aveva voglia di agire, solo di ascoltare.
«Naturalmente avrei potuto ucciderlo subito» riprese Berglund. «Con questa. Ma non era il nostro piano.»
«E qual era il piano?»
«Come lei sa bene» disse Berglund, «tornare indietro con lui e riunirlo a Maria. Per chiudere il cerchio. Ad Anna piaceva dire così negli ultimi giorni. ’Dobbiamo chiudere il cerchio, Rickard’ diceva di solito. ’Rinchiudere il male.’»
Poi tacque. Accarezzò pensieroso il revolver con la punta delle dita.
«Continui» lo pregò Barbarotti. «Devo dirle di essere un po’ stupito... di quell’oggetto.»
«Anch’io» ammise Berglund. «Ai preti non si addicono le armi, vero? Neanche agli ex sacerdoti. Me la sono procurata un paio d’anni fa. Fu uno strano impulso, ed è stata usata...»
«Se l’è procurata?» disse Barbarotti.
«A un inventario patrimoniale» disse Berglund. «Seguivo una successione, mi sono occupato di cose simili negli ultimi anni, e questa era in una cassetta in cantina. Con le pallottole e tutto il resto. Me la sono semplicemente infilata nella ventiquattrore, senza dire niente a Linderholm, lui stava rovistando di sopra nell’appartamento... Quando dico che è stata usata non intendo certo dire che l’ho utilizzata per sparare.»
«Ah, sì?» disse Barbarotti.
Berglund si schiarì la voce e si affrettò a spiegare: «L’avevo nella tasca del soprabito quando Germund mi aprì la porta quella mattina, ma mi ha seguito spontaneamente. Ebbi l’impressione che intuisse cosa lo aspettava, ma forse era solo una mia supposizione. Lo pregai di guidare, non scambiammo molte parole, gli dissi che Anna voleva incontrarlo prima di morire, fu sufficiente. Avrebbe potuto negare tutto e dire che non capiva perché, ma non lo fece. Alzò le spalle e mi seguì. Si sedette al volante e mise in moto. Io mi sistemai sul sedile posteriore, gli avevo detto che avevo bisogno di dormire un po’ e che dietro sarei stato più comodo. Lui non aveva voglia di parlare, era il Germund di sempre. Stava in silenzio con se stesso, in un certo senso. Un po’ sulla difensiva, mi chiese una sola volta come stava Anna e gli risposi che stava male, che ormai era questione di giorni. Questa la tirai fuori solo pochi chilometri prima di Kymlinge».
Accennò con il capo al revolver e stirò le labbra in un ghigno fugace. «Vide la pistola dallo specchietto retrovisore e si limitò a scuotere leggermente la testa. Non so neanche se ne fu sorpreso. Gli spiegai che saremmo andati a Gåsaklinten, lui annuì e mi disse di non ricordare la strada. Gli indicai il percorso, una volta arrivati parcheggiammo nello stesso posto di trentacinque anni fa. Scendemmo dall’auto, io per primo, lui subito dopo. Tenevo l’arma puntata su di lui e procedevo pochi metri alle sue spalle. Venti o venticinque minuti dopo eravamo in fondo alla strada. ’Cosa accadde allora?’ mi chiese. ’Forse puoi dirmi come è morta Maria, prima di uccidermi.’ Gli chiesi se Anna non glielo avesse spiegato in uno dei loro tanti incontri amorosi... sapevo ovviamente che lei non lo aveva fatto, e lui scosse la testa, perciò glielo raccontai. Gli dissi che l’aveva uccisa Anna.»
Rickard Berglund fece una pausa e alzò l’arma. La osservò come se cercasse di ottenere qualche tipo di risposta. Protese il labbro inferiore e annuì a se stesso.
«E poi?» chiese Barbarotti.
Berglund fece spallucce. «Sì, che dire? Ho avuto l’impressione che in qualche modo lo sapesse, ma forse mi sono immaginato anche questo. Mi sembrò che impallidisse e che... be’, che tutta l’aria uscisse da lui, come se si rimpicciolisse. Anche se all’improvviso, quando finalmente eravamo lassù, e quando ormai tutto stava per finire, non parve più così importante. Mi sentivo come sopraffatto dalla desolazione e dalla vacuità del mondo. La vita e la morte non erano che due schegge di eternità senza valore. Ebbi la sensazione che anche Dio ci stesse voltando le spalle, e non avevo mai pensato che potesse farlo. Chiesi a Germund se voleva gettarsi spontaneamente o se preferiva che gli sparassi. Sa cosa fece?»
«No» rispose Barbarotti.
Un brivido attraversò Berglund. «Lui... lui mi guardò... dritto negli occhi e non riuscii a leggere nulla nel suo sguardo. Né la paura. Né l’angoscia. Né il dolore... niente di niente. Mi guardò per un paio di secondi, poi si voltò e rimase un istante sul bordo prima di fare un passo nel vuoto. Si udì solo un tonfo leggero e sordo nel momento in cui planò a terra. Sentii all’improvviso che qualcosa si spezzava dentro di me. Mi veniva da vomitare, ma riuscii a trattenermi. Tornai alla macchina e andai direttamente in ospedale. Anna dormiva, dovetti aspettare un’ora prima che si svegliasse, e allora le raccontai ogni cosa. Ecco... è tutto.»
«Tutto?»
«Sì.»
Barbarotti rimase in silenzio un istante e guardò fuori dalla finestra. Aveva iniziato a piovere e il ramo di un albero sbatteva sul vetro, il vento soffiava a raffiche. Spostò lo sguardo sul registratore, dove il nastro continuava a girare e dove la triste testimonianza di Rickard Berglund era al sicuro. Sembrava del tutto irrilevante.
«Non l’ha spinto?» chiese alla fine.
Berglund scosse il capo. Barbarotti indicò il registratore.
«No» disse Berglund. «Non l’ho spinto.»
«Lo ha minacciato con la pistola?»
«No. Non è stato necessario.»
«E se non si fosse gettato di sua spontanea volontà, cosa avrebbe fatto?»
Berglund esitò non più di un secondo. «Gli avrei sparato. Preferivo evitarlo, ovviamente, ma vorrei che non ci fossero fraintendimenti su questo punto. Mi assumo la totale responsabilità per la morte di Grooth. È il gesto più morale che abbia compiuto in tutta la mia vita, non cerco di sottrarmene. Capisce?»
«Capisco» disse Barbarotti. «È solo che, pensando alle conseguenze...»
«Non ha nessuna importanza» lo interruppe Rickard Berglund. «C’è un’ultima cosa. Non abbiamo avuto figli, io e Anna.»
«Lo so» disse Barbarotti. «Avrebbe voluto...?»
«Lei abortì» lo interruppe di nuovo Berglund. «Nella primavera del 1975. Ma l’ho saputo solo trent’anni dopo. Da allora non riuscì più a rimanere incinta.»
Tacque e osservò Barbarotti dall’altra parte del tavolo. Il suo sguardo vagò inquieto. Una gamba aveva cominciato a tremargli. Sto perdendo il controllo della situazione, pensò Barbarotti. E anche lui.
«Intende dire...» riprese l’ispettore «... che lei aspettava un bambino da Grooth, e che lui non lo voleva?»
Barbarotti si interruppe. Berglund aveva sollevato l’arma, questa volta con una mano sola. Sembrava tutto così naturale. Barbarotti cominciò a udire una voce nella sua testa.
«Al contrario» rispose Berglund. Le sue parole tradivano una profonda stanchezza. «Era mio figlio, ecco perché Anna non lo voleva. Oggi è martedì.»
E con un movimento rapido e inaspettato si puntò la canna della pistola nell’orecchio destro e premette il grilletto.