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L’assistente di polizia Claes-Henrik Wennergren-Olofsson aveva la firma più lunga del commissariato di Kymlinge e, poiché gli piaceva apporre anche il suo titolo – prima o dopo il nome –, aveva spesso bisogno di mezzo minuto e di un paio di righe per completarla.
Alexander Tillgren, anche lui assistente, ma con sei mesi di servizio in meno, aveva buone ragioni per ritenere che Wennergren-Olofsson fosse un idiota. Tuttavia il collega era più grosso, più forte e affetto da un’eccezionale autostima, così Tillgren preferiva quasi sempre tenere per sé le sue opinioni.
Il che non era sempre facile. Wennergren-Olofsson non perdeva occasione di fargli la lezioncina su una cosa o l’altra, e due ore di viaggio in auto da Kymlinge a Strömstad erano senza dubbio un’opportunità magnifica.
Mi viene da vomitare, pensò Tillgren molto prima di essere a metà strada. Se non tace subito, gli spacco il muso.
«Allora gli ho detto di fare molta attenzione» stava dicendo Wennergren-Olofsson. «E sai cos’ha fatto quel farabutto?»
«No» lo assecondò Tillgren. «Cos’ha fatto il farabutto?»
«Ha cercato di darmi un cazzotto» proseguì Wennergren-Olofsson.
Bravo, pensò Tillgren. «Dici sul serio?» disse invece.
«Certo. Così si è visto chi abbia offeso.»
«’Ha’» lo corresse Tillgren. «Non ’abbia’.»
«Cosa?» fece Wennergren-Olofsson.
«Hai sbagliato il modo» disse Tillgren. «Lascia stare. Che ne pensi del caso?»
Ma perché glielo sto chiedendo? Che idiota.
Wennergren-Olofsson sembrò riflettere per un istante sul problema grammaticale, per poi lasciar perdere. «Complicato» riprese. «Ma non insolubile. Un’idea me la sono fatta.»
«Sembra emozionante» disse Tillgren. Il collega gli lanciò un’occhiataccia. A volte era difficile capire fin dove ci si poteva spingere senza che Wennergren-Olofsson cogliesse l’ironia, e Tillgren non intendeva certo superare quel limite.
«Proprio così» continuò Wennergren-Olofsson. «E tu che ne pensi? E soprattutto, stai lavorando al caso?»
«Non esattamente» ammise Tillgren. «Però è così strano che due persone perdano la vita nello stesso posto a così tanti anni di distanza.»
«Strano?» sbuffò Wennergren-Olofsson. «Se avessi condotto io gli interrogatori, avrei già risolto il caso. Fin dall’inizio, però. È evidente che è stato uno di loro.»
«A fare cosa?» chiese Tillgren.
«A ucciderli tutti e due, chiaro» rispose Wennergren-Olofsson. «Quel Sandlin, che ha condotto le indagini nel 1975, sapeva che c’era qualcosa che non andava, che quella tipa, la Winckler, era stata uccisa. Ma non è riuscito a trovare le prove.»
«Dici?» chiese Tillgren.
«Sì» ribadì Wennergren-Olofsson. «Ne sono sicuro.»
«Hai letto i rapporti di Sandlin?»
«Li ho sfogliati» disse Wennergren-Olofsson.
«E così pensi che qualcuno del gruppo abbia ucciso sia Maria Winckler che Germund Grooth?»
«Sì» rispose Wennergren-Olofsson. «Prendi nota che l’ho detto.»
«Segnato» disse Tillgren. «E chi, allora? E perché?»
Wennergren-Olofsson si sistemò una dose di tabacco da masticare sotto il labbro e pensò un momento. «Che cazzo ne so» rispose. «Te l’ho detto, non li ho incontrati. Bisogna averli davanti. Si vede, quando mentono. Un agente attento e con un pizzico di psicologia in zucca non si fa sfuggire certe cose.»
Mein Gott, pensò Tillgren, che un tempo aveva avuto una ragazza di Wuppertal. Che pagliaccio del cazzo. Se mai dovessi commettere un crimine, mi farei interrogare da lui.
«Proprio» aggiunse. «Ma adesso possiamo parlare con Elisabeth Martinsson. Meglio di niente. Anche lei c’era nel 1975.»
Wennergren-Olofsson annuì con entusiasmo e si rigirò il tabacco in bocca. «Procediamo così» spiegò. «Tu ti occupi delle domande, così io potrò osservarla. Cercherò con lo sguardo ogni minima incertezza. La più piccola incoerenza.»
«Fantastico» disse Tillgren. «Abbiamo la lista delle domande di Barbarotti e della Backman da seguire, perciò non ci sono problemi. E anche il registratore.»
«Il registratore è uno strumento maledettamente utile» dichiarò Wennergren-Olofsson. «Per riascoltare e analizzare. Facciamo una doppia registrazione, per sicurezza.»
«Doppia?» domandò Tillgren.
«Con il tuo e con il mio. La Backman e Barbarotti vogliono sia i nastri che le trascrizioni, ma io posso tenermi una registrazione e farmi un’idea più chiara.»
«Splendido» esultò Tillgren. «Hai niente in contrario se dormo una mezz’oretta? Ho fatto un po’ tardi ieri sera.»
«Maledetto lazzarone» disse Wennergren-Olofsson. «Va bene, è importante essere vispi come due aquile quando la attaccheremo.»
Due ore di macchina anche al ritorno, pensò Tillgren chiudendo gli occhi.
Elisabeth Martinsson viveva in un angusto bilocale vicino al porto di Strömstad. Lo spazio ridotto non era dovuto solo alla ridotta metratura dell’appartamento, ma soprattutto all’enorme quantità di mobili. Come se si fosse trasferita lì da una villa e si fosse dimenticata di sbarazzarsi di un po’ di cose, pensò Tillgren mentre uno dei due bassotti, Malte, gli faceva le feste. Brynhilde, invece, la mamma di Malte, ignorò del tutto i poliziotti. Secondo la padrona aveva sedici anni, quasi diciassette, e se ne stava beatamente sdraiata su un cuscino di seta infiocchettato sistemato su un pianoforte giallo.
Come faceva la bassotta ad arrampicarsi sul pianoforte? Forse vi veniva adagiata ogni mattina dalla padrona. Tillgren decise di non indagare. Pensò invece che non aveva mai visto un pianoforte giallo. Perlomeno non con sopra un bassotto.
«Mettetevi comodi» disse Elisabeth Martinsson. «Scusate il disordine. Ma non ci posso fare niente, è normale.»
Tillgren si guardò intorno. In mezzo alla stanza era sistemato un cavalletto con un grande dipinto a olio non ancora finito. Lo osservò per qualche secondo e capì che rappresentava un mulino a vento in rovina e un gregge di capre, ma decise di non indagare neppure su questo. Le pareti erano letteralmente rivestite di quadri. Molti erano nudi in posizioni contorte, ma c’era anche qualche paesaggio più tradizionale. Colori decisi; Tillgren immaginò qualcuna di quelle opere d’arte nel suo bilocale a Kymlinge, ma c’era troppa confusione e non riuscì a decidere quali.
«Un tempo avevo una galleria d’arte» dichiarò Elisabeth Martinsson, come se gli avesse letto nel pensiero. «Ma a lungo andare era diventata troppo onerosa. Questo comune di merda non destina neppure una corona ai suoi artisti in difficoltà, non dimenticatelo.»
«Lo faremo» rispose Wennergren-Olofsson. «Non lo dimenticheremo.»
«Bravi» disse Elisabeth Martinsson.
Si sedettero su due poltroncine d’acciaio e plastica accanto a un tavolo ingombro di tubetti di colore, pennelli, giornali, libri e barattoli di vetro. Elisabeth Martinsson prese lo sgabello del pianoforte e si sistemò in mezzo a loro.
Speriamo che non ci offra niente, pensò Tillgren. Speriamo di fare in fretta.
«Dovrei offrirvi qualcosa» disse Elisabeth Martinsson. «Ma non ho niente in casa.»
«Abbiamo preso un caffè lungo la strada» mentì Wennergren-Olofsson. «Non siamo venuti qui per bere qualcosa.»
«Già, pensi che l’avevo capito» disse Elisabeth Martinsson e si infilò un paio di occhiali dalla pesante montatura nera. Tillgren pensò che aveva un bell’aspetto per essere un’artista ultrasessantenne in difficoltà. Aveva un non so che di francese, capelli neri corti, un fisico scattante, anche se non era certo una patita dell’attività fisica. Sul tavolo, in mezzo alla confusione, c’era un pacchetto di Gauloises blu, ma nell’appartamento non si sentiva odore di fumo. Forse faceva parte dell’attrezzatura artistica in senso lato.
«Stiamo indagando su due morti» esordì Wennergren-Olofsson con voce autoritaria. «Io e il collega Tillgren siamo qui per farle alcune domande, alle quali vogliamo che risponda sinceramente e con precisione.»
«Ho parlato con un altro agente un paio di giorni fa» disse Elisabeth Martinsson. «Una donna... Backlund, o qualcosa del genere.»
«La collega Backman» rettificò Wennergren-Olofsson. «Esatto, ma ora dobbiamo procedere in modo un po’ più formale.»
Credevo dovesse starsene zitto e osservare, pensò Tillgren. O forse l’interrogatorio non era ancora iniziato?
«Abbiamo una serie di domande che vorremmo sottoporle secondo un ordine preciso» continuò Wennergren-Olofsson, facendo cenno a Tillgren. «Si limiti a rispondere, senza riflettere sui motivi del colloquio. Lei è un’artista?»
«Questa domanda fa parte dell’interrogatorio?» chiese Elisabeth Martinsson, osservandolo con scetticismo da sopra gli occhiali.
«In realtà no» rispose Wennergren-Olofsson.
«Ah, sì?» ribatté Elisabeth Martinsson. «Allora voglio rispondere alla successiva. Si guardi intorno. Che cazzo pensa?»
«Eh... sì, giusto» abbozzò Wennergren-Olofsson.
«Mettiamola così. Per vivere faccio l’illustratrice. E vivo per dipingere. Mi segue?»
«Eh?» rispose Wennergren-Olofsson, aggrottando la fronte. Tillgren estrasse le domande preparate dalla Backman. Meglio cominciare prima che vada tutto in malora. Sistemò il suo piccolo registratore accanto al pacchetto di Gauloises e lo fece partire. Wennergren-Olofsson fece lo stesso con il suo, ancora più piccolo e lucido.
«Due registratori?» chiese Elisabeth Martinsson.
«Per ogni evenienza» chiarì Wennergren-Olofsson gentilmente.
«Il tuo dispositivo fa uno strano ronzio» fece notare Tillgren.
«Deve farlo» spiegò il collega. «Significa che è acceso.»
Tillgren si schiarì la gola. «Allora» cominciò. «Interrogatorio di Elisabeth Martinsson nel suo appartamento a Strömstad. Sono le ore 13.22 di venerdì 1º ottobre 2010. Sono presenti l’assistente Tillgren e l’assistente Wennergren-Olofsson.»
«Iniziamo» disse Elisabeth Martinsson prendendo sulle ginocchia Malte. «Non ho tutto il giorno a disposizione.»
Un’ora dopo erano in macchina sulla strada del ritorno.
«Siamo stati bravi» constatò Wennergren-Olofsson. «Hai capito il perché delle mie domande?»
«No» ammise Tillgren. «Non del tutto.»
«Talvolta bisogna confonderli» spiegò Wennergren-Olofsson. «Fare in modo che abbassino la guardia. Fargli perdere la concentrazione e cogliere il minimo lapsus.»
«Tipo sanguisughe? Non mi sembra di aver incontrato sanguisughe in questo caso.»
«È proprio questo il punto. Bisogna fargli perdere la concentrazione.»
«Ne prendo nota» disse Tillgren. «E cosa ne hai dedotto, quindi?»
«È troppo presto per dirlo» rispose Wennergren-Olofsson. «Prima voglio riascoltare il nastro in santa pace. Ma possiamo verificarlo anche subito.»
Tirò fuori il suo registratore. Lo avviò e disse a Tillgren di tacere.
Per i primi dieci secondi non si sentì nulla. Wennergren-Olofsson lo spense e riprovò. Alzò il volume e raccomandò ancora una volta a Tillgren di: a) tenere il becco chiuso, b) tenere gli occhi sulla strada. Quando avevano lasciato Strömstad Tillgren si era messo alla guida, e Wennergren-Olofsson aveva occupato il posto del passeggero.
Il registratore rimase muto per altri trenta secondi.
«Maledizione» esplose Wennergren-Olofsson. «Accidenti, qualcosa è andato storto.»
«Già, sembra proprio così» confermò Tillgren.
Wennergren-Olofsson mandò avanti il nastro e provò una terza volta. Nulla. Lo spense.
«Ecco perché bisogna fare una doppia registrazione» spiegò. «Possiamo ascoltare la tua.»
Tillgren estrasse dalla tasca il suo registratore e premette PLAY. Si udì immediatamente un forte ronzio. Poi una voce, molto debole, che Tillgren pensò fosse la sua. Dopodiché un’altra, probabilmente quella di Elisabeth Martinsson.
Non si distingueva neppure una parola. Le voci erano coperte da quell’irritante ronzio di sottofondo.
«Penso» azzardò Tillgren, spingendo sull’acceleratore, «che si senta il ronzio del tuo registratore.»
«Piantala» lo aggredì Wennergren-Olofsson. «Che cazzo di registratore ti sei portato?»
«Infatti volevo aggiungere» disse Tillgren alzando la voce «che se non ci fosse stato il fruscio del tuo maledetto aggeggio, la mia registrazione sarebbe stata perfetta.»
«Che fandonie racconti?» disse Wennergren-Olofsson. «Be’, che cazzo...»
All’improvviso Tillgren sentì che qualcosa stava accadendo dentro di lui. Come un argine che si rompeva, che cedeva lasciando tracimare qualcosa di potente e indomabile, senza trovare ostacoli, sì, un fiume di lava, e di colpo, in pochi secondi, il suo atteggiamento nei confronti del collega Wennergren-Olofsson cambiò in modo radicale. Fu dannatamente strano e bello.
«Riesci a chiudere il becco per un momento, brutto idiota?» disse.
«Cosa?» ribatté Wennergren-Olofsson.
Tillgren si schiarì la gola. «Non hai controllato le batterie del tuo registratore, tutto qui» gli spiegò. «E cosa ci abbiamo guadagnato? Che ha disturbato la registrazione dell’interrogatorio. Sarebbe stato meglio se me ne fossi occupato da solo. Non cercare di giustificarti, ne ho abbastanza dei tuoi modi arroganti.»
«No, adesso...» provò a replicare Wennergren-Olofsson, ma il collega mollò un pugno sul cruscotto e lo fece tacere.
«Adesso basta» aggiunse. «Non voglio sentire una parola di più. Puoi iniziare a trascrivere l’interrogatorio dalla tua mente, subito. Sei stato ad ascoltare per tutto il tempo, perciò non ti sarà sfuggito nulla. Ma voglio controllarlo prima che lo consegni, puoi starne certo. Maledetto imbecille!»
La laringe dell’assistente di polizia giudiziaria Wennergren-Olofsson andò su e giù come un vecchio tachigrafo surriscaldato e la sua faccia si fece rosso carminio, ma dalla sua bocca non uscì neppure una parola.
Bene, pensò Tillgren e accese la radio. Non tutto il male viene per nuocere.
«Mettiti all’opera» disse. «Hai meno di due ore. Vuoi carta e penna?»