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Rickard Berglund si fermò dal fiorista in Kyrkogårdsgatan per comprare tre rose gialle.
«Un po’ nervoso?» gli chiese il commesso quando lui, nel prendere il resto, fece cadere due monete da una corona.
Rickard le raccolse e arrossì. L’allusione era chiara. Il commesso supponeva che le rose fossero per una ragazza. E perché non avrebbe dovuto? Era sabato pomeriggio, e Rickard era vestito di tutto punto; si era persino messo qualche goccia di dopobarba in viso, e non era sua abitudine.
«Sì, un pochino» rise e cercò di stare al gioco. «Non si sa mai.»
«È il primo appuntamento?»
«In un certo senso.»
Fece un cenno di saluto con la testa e si affrettò a uscire. In un certo senso? pensò. E cosa vorrebbe dire?
Guardò l’orologio e si rese conto che era presto. Così decise di fare un giro all’Engelska parken e al cimitero. Alle cinque, aveva detto Tomas. Vieni alle cinque, pensavamo di stare in giardino un paio d’ore prima di cena.
Erano solo le quattro e mezzo. Rickard era già stato in Sibyllegatan e conosceva la strada; non ci sarebbero voluti più di quindici o venti minuti. Era da stupidi arrivare troppo presto; la prima delle priorità di Rickard Berglund era di non sembrare uno stupido. Né quel giorno, né mai.
Attraversò il parco in direzione della facoltà di filologia. L’erba sotto i vecchi olmi e i larici era alta mezzo metro, evidentemente nessuno si preoccupava di tagliarla durante l’estate. Ormai aveva capito che a Uppsala in estate molte cose si fermavano. Mancavano ancora due settimane prima che gli studenti riprendessero possesso della città; era il 16 agosto, un bel sabato caldo di fine estate, e quando aprì il vecchio cancello di ferro del cimitero, pensò che la vita non poteva essere più bella. Almeno se ci si accontentava di guardarla dall’esterno.
Vent’anni, diretto a una festa con gli amici. Tre rose in mano. Cosa si poteva volere di più?
Ma non erano rosse, il commesso lo aveva notato sicuramente. Se i fiori fossero destinati a una ragazza non sarebbero stati gialli. O no? pensò Rickard Berglund. Le rose gialle non avevano niente di romantico.
Sospirò. Di tanto in tanto si ripresentava il problema delle ragazze. A volte non gliene importava nulla, a volte lo soffocava. A vent’anni non era normale essere ancora vergine; dopo due mesi alla scuola sottufficiali dell’esercito aveva imparato un po’ di tutto, tra cui anche questo. Molto probabilmente non era l’unica recluta in quella situazione. Ma si trattava di una minoranza, una minoranza nascosta e sofferente. La maggior parte dei camerati aveva la fidanzata a casa, altri frequentavano le ragazze di Uppsala – ad esempio, quelle della scuola per infermiere sull’altro lato di Dag Hammarskjölds väg. Alcuni entrambe le cose. E tutti sembravano aspettare con ansia il giorno in cui gli studenti avrebbero di nuovo invaso le strade.
Ragazze? Donne? Diecimila!
Tentazioni?
Sweden, the country of free love. Staffan, uno dei ragazzi della camerata, era stato a Londra per un mese prima di arruolarsi, e aveva scoperto che l’Europa guardava alla vecchia Svezia in quel modo. Il paese dell’amore libero? Oddio, pensò Rickard Berglund, che non aveva visto né il film 491 né Io sono curiosa. Vivo nella realtà? Oppure no?
Allontanò quei pensieri assillanti, si fermò davanti a una tomba, piccola e modesta, e lesse l’iscrizione sulla lapide.
HENRIK AURELIUS
NATO 1851
MORTO 1874
Tutto qui.
Ventitré anni, pensò Rickard. Un ragazzo morto quasi un secolo prima. Aveva solo tre anni più di me.
Rimase lì fermo e cercò di interpretare quelle scarne informazioni. Un nome e due date, nient’altro. Chi eri, Henrik Aurelius? Perché non sei diventato vecchio?
E poi, di cosa sei morto? Hai fatto in tempo a fare l’amore con una donna prima che la tua vita avesse termine? Avevi un Dio?
Avevi un Dio?
Se sapessi di dover morire fra tre anni, pensò Rickard Berglund, riuscirei ad avvicinarmi a una ragazza? Anche se non fossi davvero interessato, e la Morte di qui a poco falcerebbe quella colpa?
Probabile, ma non ne era affatto sicuro.
Oppure avrebbe dovuto fare di necessità virtù? Comportarsi come ci si comportava un tempo: prima diventare prete, poi sposarsi, poi darsi da fare? In fondo, era proprio quello che si augurava, che la sua futura moglie fosse vergine. Vergine come lui? Era così all’antica? O forse era solo profonda vigliaccheria. Altro che fare di necessità virtù. Era solo un modo vergognoso per aggirare il problema?
Cosa devo fare in quanto cristiano?
Forse era una domanda legittima, malgrado tutto. Esisteva – in quegli anni rivoluzionari e turbolenti – una condotta morale per i giovani credenti?
Rickard Berglund pensava di no. Aveva letto Camus e Sartre, forse la letteratura meno adatta nelle mani di un futuro prete. Anche se Dostoevskij era considerato un esistenzialista. Esistenzialista e cristiano.
Una parte di lui capiva che la strada verso la donna non passava attraverso i libri e i pensatori. Né Dostoevskij, né Kierkegaard, né altri. Su certi argomenti gli scrittori non servivano, o offrivano solo distrazioni e sotterfugi. Il dolce prurito, aveva letto da qualche parte; era un’espressione che non riusciva a togliersi dalla testa, e quando chiedeva consiglio a Nostro Signore, non gli sembrava di ricevere indicazioni chiare. Quasi come se la cosa non lo riguardasse. E di sicuro era così, pensò Rickard Berglund cupo, di sicuro negli ultimi duecento anni il cristianesimo si era preoccupato solo di caricare di colpe quel «prurito».
E quindi, cosa doveva fare? Ubriacarsi e lasciarsi andare in preda ai fumi dell’alcol? Quando vergogna e timidezza venivano messe a tacere. Forse era un approccio radicale per risolvere il problema...
Com’è successo, Henrik Aurelius?
Dalla ruvida lapide, ricoperta in parte dal muschio, non arrivò nessuna risposta. Domande sterili, pensò. Pensieri a vuoto, sono un codardo moralista. Uscì dal cimitero e si avviò verso Luthagen.
L’ultimo pensiero, però, non lo aveva abbandonato. Ubriacarsi e lasciarsi andare. Anche così non aveva nessuna garanzia. Sperare di riuscire a lasciarsi andare. Ecco, così era più vicino alla realtà. Rickard si era ubriacato due volte in vita sua. L’anno precedente, un paio di settimane prima degli esami a Mariestad, la sera in cui aveva capito che il mondo poteva avere un aspetto diverso, quella forma di cui tanto aveva sentito parlare. Seducente e irresponsabile. Attraente?
Henrietta, una ragazza di una classe parallela alla sua, al liceo, lo aveva baciato, e in qualche modo lui era riuscito a ricambiare. L’aveva anche abbracciata, l’aveva stretta a sé per non più di un minuto, ma ricordava bene come la lingua di lei avesse giocato con quella di lui, i loro corpi uno contro l’altro... be’, era quello. L’estasi. Le vertigini.
La seconda volta era successo quell’estate, durante le manovre settimanali a Marna. Avevano dormito in tenda nel bosco, aveva bevuto cinque o sei birre con i commilitoni, ma non c’era l’ombra di una ragazza nel raggio di chilometri. Né estasi né vertigini, solo spensieratezza e la vescica piena.
Mentre superava la Katedralskola, fece un paio di conti. Dieci settimane, avevano resistito per dieci settimane. Ne erano passate tre dalla licenza; pensò che lui, personalmente, poteva benissimo fare a meno dei giorni di libertà. Li aveva trascorsi a casa, a Hova, con sua madre; era rimasto nella sua vecchia cameretta al piano di sopra a leggere Freud e Jung, mentre lei in cucina gli preparava da mangiare. Paradossalmente, la distanza che li separava era sembrata raddoppiare mentre erano sotto lo stesso tetto. Era un dovere, nient’altro. E dentro di sé Rickard temeva che anche per lei fosse la stessa cosa.
Di conseguenza evitava di andare a casa nei fine settimana. Esclusa la settimana di licenza, da quando era in servizio era tornato a Hova una volta sola. Anche altri rimanevano in caserma anziché andare a casa dalla ragazza, dagli amici o da chicchessia. A Rickard piacevano i sabati e le domeniche di libertà. Tre pasti abbondanti, niente orari da rispettare, abiti civili; erano giorni perfetti per imparare a conoscere la città. Insieme a Helge, un ragazzo timido e introverso di Gäddede – un villaggio nel Norrland, così a nord che durante il fine settimana non faceva in tempo a tornare a casa –, gironzolava per Uppsala, cartina alla mano e senza fretta, e familiarizzava con i luoghi più importanti. Stora Torget. La libreria Lundequistska. Il porto e il parco cittadino. Il centro storico, naturalmente; la cattedrale, Sankt Eriks torg, il mercato coperto e il ristorante Domtrappkällaren. Skytteanum, la casa della canonica, e il Gustavianum, l’università e tutte le «nazioni» studentesche, ancora avvolte dal torpore estivo: Norrland, Södermanland-Nerike, V-dala, Göteborg, Småland e la piccola Västgöta. Tutti i ponti sopra il fiume Fyris e un caffè e una fetta di torta da Ofvandahl o Güntherska.
A volte andava in chiesa, mai con Helge, però. Sempre da solo, in chiese diverse: ovviamente il duomo e Helga Trefaldighet, ma anche in quelle minori: Johannes, Missionskyrkan, Baptist e persino nella discreta Frälsis in Sankt Persgatan, vicino ai binari ferroviari. Ma ovunque andasse, qualunque parrocchia scegliesse, ne usciva sempre insoddisfatto. Qualcosa rimaneva sempre irrisolto. Allora pensava alla madre, alla vita che aveva fatto, si chiedeva se davvero lei non aspettasse altro che riunirsi al suo pastore in cielo. Aveva appena cinquantadue anni, negli ultimi dodici aveva lavorato alle poste di Mariestad, e qualche volta, quando pensava di poter arrivare a settanta o ottant’anni, Rickard avvertiva un profondo sconforto.
Che senso aveva la vita di sua madre? Vedova di un pastore della Chiesa nonconformista di Hova?
E la mia? si chiedeva poi, inevitabilmente. Che cosa sembra dare più senso alla mia vita?
Era una domanda triste e difficile, che rivolgeva a Dio mentre pregava. A volte gli sembrava di cogliere una misteriosa risposta consolatoria, ma spesso niente. Per quanto si sforzasse di ascoltare, spesso solo il silenzio. Un silenzio che lo inquietava profondamente.
Perché dopo il servizio militare avrebbe dovuto affrontare proprio quei pesanti interrogativi esistenziali. Fra un anno, grossomodo.
Allora avrebbe iniziato sul serio il grande progetto. Per il momento non c’era fretta.
No, nessuna fretta. Girò a sinistra in Geijersgatan, le cinque erano passate da due minuti. Era ora di scrollarsi di dosso quei pensieri così cupi. Era ora di cogliere l’attimo.
La festa da Tomas e Gunilla. Bando alle preoccupazioni!
«Ecco Rickard, il cervello più fino di tutta la camerata!»
«Sciocchezze.»
Chissà se qualcuno aveva sentito la sua protesta. Tomas lo aveva abbracciato con foga proprio mentre rispondeva.
Un lungo tavolo era stato apparecchiato sul prato tra i condomini, due palazzine a tre piani color marrone degli anni Trenta o Quaranta. C’erano case simili sia a Mariestad che a Töreboda; Rickard pensò che su quei piccoli quartieri residenziali aleggiava un’atmosfera molto svedese. Qualcosa di rispettabile e allo stesso tempo angosciante, come un negozio della cooperativa sotto la pioggia.
Tuttavia non pioveva, e la tavola sembrava quasi sontuosa; naturalmente tovaglia e piatti di carta, e due vassoi stracolmi di gamberi rossi. Lattine di birra e bottiglie di vino in quantità. Tovaglioli colorati, formaggio, baguette e una grande ciotola d’insalata. C’erano già sei o sette persone e la tavola era apparecchiata almeno per altrettante ancora. Anticipiamo noi i soldi, poi divideremo la spesa, aveva detto Tomas. Rickard non immaginava quanto potesse costare la festa, ma non era importante. Aveva messo da parte parecchi soldi lavorando per un anno alla Lapidus. Forse, però, in quel momento non aveva abbastanza contanti nel portafoglio; sarebbe stato imbarazzante, ma pazienza. Decise che se dovevano dividere la spesa allora era meglio bere la propria parte. In quel momento Gunilla gli porse un bicchiere di plastica con qualcosa di frizzante.
«Ciao, Rickard. Salute e benarrivato!»
«Salute» disse Rickard. «Sono contento di rivederti. Sei più bella che mai.»
Era una mossa coraggiosa, e sapeva che era riuscito a dirlo solo perché lei era la ragazza di Tomas. Non c’erano aspettative. Si erano già visti un paio di volte, e Rickard pensava che se mai fosse riuscito a mettersi con una ragazza come Gunilla, be’, allora non avrebbe avuto più niente da desiderare a questo mondo.
Ma non era solo per lei. Tomas Winckler era un ragazzo invidiabile sotto molti aspetti, e Rickard non era certo l’unico a pensarlo. Tuttavia non suscitava mai alcuna invidia, era quella la cosa straordinaria. Fin dal primo incontro da Fågelsången tra loro si era creato un legame; tra Berglund e Winckler – era difficile prescindere dall’abitudine dei militari di chiamarsi per cognome – benché Tomas si comportasse con disinvoltura con chiunque. Persino con gli ufficiali. Più di una volta Rickard aveva ringraziato la sua buona stella per averglielo fatto incontrare; nessuno avrebbe osato mettere in dubbio i comportamenti e il valore di un buon amico di Winckler.
Da qualunque cosa dipendesse. Rickard ci pensava spesso, ma la conclusione era solo una: ottimismo e gentilezza sono alla base delle buone relazioni sociali.
Talento e senso dell’umorismo certo non guastavano, e Tomas li possedeva entrambi. Aveva letto un po’ di Kierkegaard, quello era destino. Almeno quello; forse esisteva un parco giochi dove solo loro, Berglund e Winckler, si incontravano. A Rickard piaceva pensare così, in ogni caso. Un disegno più grande, o qualcosa di simile.
«Potresti insegnare a Tomas qualche complimento» constatò Gunilla. «Sono forse per me questi fiori?»
Lui glieli porse e rise imbarazzato. «Naturalmente. Che scemo che sono.»
«Questa è Maria» disse Gunilla e gli presentò una ragazza esile con i capelli corti e scuri. «È la sorella di Tomas.»
Si strinsero la mano e si salutarono. Tomas gli aveva preannunciato che sarebbe venuta sua sorella, ma non aveva aggiunto molto di più. Intelligente ma complicata, così si era limitato a descriverla.
«Perché Tomas dice che sei quello con il cervello più fino?» gli chiese, facendo un sorrisetto difficile da interpretare. «Di solito sostiene di essere lui ad averlo.»
«Non ne ho idea» si schermì Rickard. «Dev’essere un equivoco.»
Un ragazzo capellone con un marcato accento dello Småland e gli occhialini alla John Lennon fece una battuta.
Una ragazza con un cappello di paglia strimpellava la chitarra e disse di non aver capito.
Tutti gli altri, invece, scoppiarono a ridere, tranne Maria, che si limitò a fare una smorfia. Lei aveva capito subito la battuta, pensò Rickard. È intelligente.
Tomas fece un giro e presentò gli altri. John Lennon si chiamava Bertil, la ragazza con la chitarra e il cappello Susanna, e il suo ragazzo, uno spilungone di due metri con la barba, era Boffe.
«E quindi?» insistette Maria quando Rickard si sedette su una sedia pieghevole vicino a lei. «Come mai sei così intelligente?»
Tomas giunse in suo soccorso prima che potesse rispondere. «È possibile che mi sbagli» disse. «Ma il ragazzo detiene una netta supremazia nel torneo di scacchi della scuola di stato maggiore. E lì idioti non ce ne sono, te lo assicuro, sorellina.»
In effetti era vero. Rickard rise e bevve un sorso di quella cosa con le bolle. «Passerà presto» disse. «Tuo fratello ha il broncio perché l’altro giorno gli ho dato scacco matto, tutto qui.»
«Quelli che riescono a dargli una lezione si meriterebbero una medaglia» rispose Maria. «È proprio quello che gli servirebbe.»
Maria si accese una sigaretta e sorrise a entrambi, e in quel sorriso Rickard riconobbe quello di Tomas. L’idea di un torneo di scacchi era saltata fuori il lunedì dopo la settimana di licenza. In men che non si dica avevano trovato sedici partecipanti ed era stato deciso il regolamento. Tutti avrebbero sfidato tutti, e il torneo sarebbe finito prima di Natale. La puntata era di cinque corone, il primo premio una bottiglia di whisky.
Nelle ultime settimane Rickard aveva giocato quattro partite, e con sua grande sorpresa aveva ottenuto tre vittorie e una partita nulla. Perciò aveva totalizzato tre punti e mezzo, e per ora era in testa alla classifica. Non si era mai considerato un campione di scacchi. In realtà aveva un’unica tattica; l’aveva imparata da suo padre, che lo aveva introdotto al nobile gioco: sii prudente! Aspetta che sia l’avversario a commettere un errore, non tu! A ogni modo non sarebbe riuscito a conservare la testa della classifica per tutto il torneo, ne era convinto, e la cosa non gli interessava affatto.
Altri si unirono a loro, mentre lui continuò a chiacchierare con Maria, che era appena arrivata in città per studiare francese, e con Boffe, una vecchia conoscenza di Tomas. Verso le cinque e mezzo la tavola era al completo, la coppia ospite distribuì il testo ciclostilato di Här är gudagott att vara, e dopo la canzone finalmente arrivò il momento di gustare quelle prelibatezze rosse.
Va tutto bene, pensò Rickard Berglund.
Sei ore dopo erano ancora lì. Era quasi mezzanotte, ma le riserve di birra e vino sembravano inesauribili. Rickard non sapeva quanto avesse bevuto, però era quasi sicuro di aver raggiunto il proprio record personale. Non aveva una percezione molto chiara della realtà, e non era semplice capire cosa dicevano gli altri, forse anche per il volume piuttosto alto della musica. Riconobbe i Doors, i Rolling Stones e i Creedence Clearwater Revival. Il resto gli era più o meno sconosciuto. La musica pop non era mai stata la sua passione, era come... era come se Rickard Berglund non si trovasse a proprio agio in quell’epoca. Ci aveva pensato altre volte, avrebbe dovuto nascere cent’anni prima. O forse cent’anni dopo, chissà. Ma ora non poteva certo lamentarsi. Se ne stava sprofondato sul divano con Susanna e un ragazzo, un certo Germund. Susanna probabilmente era più ubriaca di lui, un po’ ridacchiava scompostamente, un po’ si appisolava. Nessuno gli aveva presentato Germund; se aveva capito bene, viveva a Uppsala da qualche anno e studiava – o doveva iniziare? – fisica teorica o qualcosa di simile. Per lo più dava un’impressione piuttosto triste. Abito nero e capelli corti, neppure lui sembrava del tutto a suo agio negli anni Sessanta. Da un po’ era impegnato in una fitta conversazione con Maria, la sorella di Tomas. Erano seduti vicini, le teste che quasi si sfioravano, a pochi centimetri di distanza, l’espressione grave.
Per il resto l’atmosfera non era così seria; tutti bevevano e fumavano e discutevano. Il Vietnam e l’apartheid, Martin Luther King e la casa reale. Alcuni erano tornati a casa, molti erano rimasti; Gunilla e Tomas ballavano, o meglio stavano in piedi e si dondolavano abbracciati. Un gruppetto era sul balcone; li sentiva ridere e parlare, la porta era aperta per far uscire il fumo delle sigarette. Fumavano tutti, più o meno ininterrottamente; persino Rickard aveva in mano una sigaretta e si chiedeva quante ne avesse fumate. Forse più di quante ne avesse mai fumate in tutta la sua vita, ma non aveva aspirato, quindi che cazzo importava? Ogni tanto nella stanza avvertiva un altro odore, dolciastro, ed era curioso di sapere se si trattasse davvero di hashish o marijuana.
Bevve un sorso di vino e sentì che gli girava la testa. Santo cielo, pensò, non avrei dovuto... mi sarei dovuto... mia madre morirebbe se mi vedesse ora.
La sensazione di dover vomitare arrivò all’improvviso, e fu solo per puro caso che evitò una figuraccia. Si alzò e raggiunse l’anticamera. Fortunatamente il bagno non era occupato. Entrò barcollando, riuscì a chiudere la porta e all’ultimo momento alzò il coperchio del water.
Rimase dentro per un bel po’. Vomitò due o tre volte, alla fine soprattutto bile. Bevve un po’ d’acqua fredda, si sciacquò il viso e le mani e si sedette sul coperchio abbassato del water mentre cercava di riprendersi. Quando tornò nel caos della festa decise saggiamente di tornare a casa.
Ossia in caserma, l’unica casa dove potesse tornare. Ma andava bene comunque. Trovò Gunilla in cucina, la abbracciò frettolosamente e le disse che era sazio, felice e contento e che pensava di andarsene.
«Come stai, Rickard?» chiese lei, e a lui sembrò di intuire un pizzico di preoccupazione materna nella sua voce. «Vai a piedi?»
«Nessciuno è mai morto per un po’ di aria freshca» rispose Rickard Berglund notando con spavento che biascicava le parole. «Grascie miiille, scialutami Tomash!»
Dopodiché se la svignò. Scese rapido le scale e si ritrovò fuori nella mite notte di agosto. Buon Dio, fammi stare almeno in piedi, pregò quando si rese conto che il cervello e il corpo non parlavano la stessa lingua. Sono sbronzo, ma non era nelle mie intenzioni.
Si avviò in quella che credeva fosse la direzione giusta. Nessuna fretta, pensò, ho tutta la notte davanti. Una lunga e dolce notte. Magari strada facendo incontrerò una donna nuda.
Un’infinità di tempo dopo, un’ora, o forse solo mezz’ora, si ritrovò di nuovo all’Engelska parken, e siccome l’erba era ancora alta e invitante, decise di concedersi un pisolino. Una grande luna piena era sorta sopra i tetti, e Rickard pensò che la vita aveva mille meravigliose sfumature.
Si addormentò nel giro di cinque minuti e si svegliò dieci ore dopo. Il sole gli scaldava il viso e il cervello sembrava volesse uscirgli dal cranio.