54

Avevano stabilito di incontrarsi alle dieci. Barbarotti arrivò direttamente dall’ospedale. Aveva passato due ore nel reparto di riabilitazione, parlato con una schiera di medici, infermieri e specialisti, ma soprattutto con Marianne.

Ci erano riusciti, quel giorno. Lei si sentiva ancora immensamente stanca, ma c’era un chiaro miglioramento. Era come se stesse rinascendo a nuova vita. Un processo lento ma inarrestabile. Non sapeva da dove avesse preso quell’immagine. Non aveva nessun ricordo di quello che era successo, di essere andata avanti e indietro dal Sahlgrenska e di essere stata operata, e forse non avrebbe mai ricordato niente.

Ma Marianne aveva capito cosa le era successo; malgrado tutto, l’ospedale era il suo abituale luogo di lavoro, anche se c’era una bella differenza tra un parto e un’emorragia cerebrale. Ma in qualche modo era la sua quotidianità. Non era agitata – e non c’erano motivi per esserlo, secondo il dottor Berngren e altri colleghi. Quello che la preoccupava era come se la cavavano a casa. Soprattutto com’erano riusciti Jenny e Johan a superare la situazione.

Ma dopo aver parlato con loro – quel giorno erano passati per qualche minuto prima di andare a scuola – e dopo che Barbarotti l’ebbe rassicurata sul fatto che se la cavavano benissimo, anche grazie all’aiuto di Sara, si era calmata. Le avevano tenuto la mano fino a quando non si era riaddormentata; era stato un momento, aveva pensato Barbarotti, da conservare dentro di sé per tutto il giorno.

Non solo per un giorno.

Ora invece era davanti alla porta di una casa in Rosengatan per parlare con un uomo che aveva perso la moglie tre giorni prima. Decise di non cedere alla tentazione di fare paragoni e suonò il campanello.



Rickard Berglund sembrava più sollevato rispetto all’incontro precedente. Indossava dei normali jeans e un dolcevita nero. Ai piedi aveva un paio di pantofole di feltro. Diede la mano a Barbarotti e lo invitò a entrare in salotto. Si scusò del fatto che la casa non fosse in ordine e gli chiese se voleva tè o caffè.

«Lei cosa prende?» domandò Barbarotti.

«Caffè.»

«Allora anch’io.»

Si accomodò nella stessa poltrona dell’ultima volta. La scacchiera era ancora là. A Barbarotti parve che nessuno avesse spostato le pedine. Ma ovviamente non poteva giurarlo. Rickard Berglund scomparve in cucina e ritornò mezzo minuto dopo con il bricco del caffè e un piattino di biscottini alle mandorle.

«Si direbbe che ha letto parecchio» disse Barbarotti indicando gli scaffali della libreria che ricoprivano due intere pareti. Saranno quasi duemila volumi, calcolò.

«Ce ne sono il doppio in cantina» aggiunse Berglund sedendosi nell’altra poltrona. «Be’, si sono accumulati negli anni.»

«Mi spiace doverla disturbare in una simile circostanza» iniziò Barbarotti. «Le faccio le condoglianze per la morte di sua moglie.»

«Nell’ultimo periodo ha solo sofferto» disse Berglund. «Non dobbiamo dispiacerci che sia finita.»

«Comunque è una situazione difficile» disse Barbarotti.

«Ho sentito che sua moglie ha avuto un incidente» rispose Berglund evasivo. «Me lo ha accennato la sua collega. Come sta?»

Gunnar Barbarotti si rese conto di non volerne parlare, ma era difficile eludere la domanda. Soprattutto pensando alle circostanze in cui si trovava Rickard Berglund e alla conversazione della volta precedente.

«Pensano si ristabilirà completamente» spiegò. «Abbiamo avuto fortuna.»

Berglund annuì. «Allora la Provvidenza esiste» dichiarò.

Non era previsto che parlassero di questioni esistenziali, ma Barbarotti non poteva lasciarsi sfuggire l’occasione.

«Davvero?» chiese. «Voglio dire, anch’io penso che esista qualcosa di simile, ma... non so proprio di che natura sia.»

«Forse non ci è dato saperlo» rispose Rickard Berglund togliendosi gli occhiali. «Se riusciamo a comprenderla, la Provvidenza forse diventa qualcos’altro. Qualcosa su cui contare e fare affidamento. Il punto è riuscire ad affidare la propria sofferenza nelle mani degli altri, non è vero?»

Barbarotti si rese conto che gli era stata rivolta una domanda e rifletté sulla risposta. Era andato lì per sapere dov’era Rickard Berglund un sabato pomeriggio di due settimane prima – e probabilmente scoprire cos’era accaduto durante una cena di trentacinque anni prima –, ma all’improvviso gli sembrava che ci fosse qualcosa di altrettanto importante, qualcosa che non poteva essere trascurato. Se n’era reso conto appena aveva varcato la porta.

«Sono solo un dilettante su questi argomenti» abbozzò. «Ma riconosco che mi interessano. Voglio dire, sembra stupido vivere facendo finta che non sia importante.»

«Possiamo metterla così» commentò Berglund. Si passò pensieroso la mano sul viso e il mento. «Ha letto Kierkegaard?»

«No» ammise Barbarotti.

«Per me è stato una guida, per molti anni. Si occupa degli stadi della vita, tra l’altro. Dalla passione attraverso l’etica fino alla fede e alla realizzazione... ma non voglio rubarle tempo con questi argomenti ora. Comunque c’è una domanda rimasta in sospeso.»

«Una domanda rimasta in sospeso?» gli fece eco Barbarotti.

«È in tutti gli esseri umani, ma quasi tutti ne hanno paura. Come dobbiamo comportarci nella vita? Nelle nostre azioni e responsabilità. Il cristianesimo ha commesso tanti errori irreparabili. Dovremmo riportare indietro le lancette di quasi duemila anni e ritrovare la via. È triste, enormemente triste.»

Barbarotti si ricordò di un’espressione simile nella loro precedente conversazione. Rickard Berglund si rimise gli occhiali e bevve un sorso di caffè.

«Vedo che non sta registrando quello che diciamo» osservò. «E non prende neanche appunti. Perché voleva parlare con me?»

«Riguarda Germund Grooth» disse Barbarotti cercando di scacciare l’esitazione. «Vorremmo capire cos’è successo. Perché è morto... magari scoprire anche cos’è accaduto a Maria Winckler trentacinque anni fa.»

Rickard Berglund rimase in silenzio e sembrò riflettere. Si osservò le mani giunte. Barbarotti prese un biscotto alle mandorle e attese. Pensò di non essere abbastanza in forma per una conversazione simile. Qualcosa nella sua testa non funzionava come al solito. La domanda di Berglund era legittima, senza dubbio. Perché era lì seduto a parlare con un ex sacerdote che aveva appena perso la moglie? Cosa ci faceva lì davvero?

Davvero, che parola infame. Ci aveva pensato spesso. Come se nascondessimo qualcosa, qualcosa di molto importante.

Ma non era sempre così.

«Ci sono molte domande senza risposta» disse Rickard Berglund. «Molti collegamenti che non possiamo scoprire. La scorsa volta lei mi ha raccontato di avere fede, o mi sbaglio?»

Per una frazione di secondo Barbarotti vide che Nostro Signore lo guardava con una ruga interrogativa sulla fronte.

«Esatto» rispose. «Ho fede. Penso ci sia un Dio. E ho una relazione con Lui. Ma non credo di essere religioso in senso stretto.»

«Sono felice di sentirlo» disse Rickard Berglund accennando un sorriso. «Sì, come lei sa, ho abbandonato la mia vocazione qualche anno fa. Ma non ho perso la fede, ne abbiamo parlato, vero? Mi deve scusare, sono così stanco. La mia mente mi tradisce. Non dormivo bene da parecchi mesi... non fino a quando lei non ha trovato pace, finalmente. Sì, le cose sono cambiate da pochi giorni. Anch’io ho trovato un po’ di pace.»

Barbarotti rifletté. «Lunedì scorso non sapevo se mia moglie sarebbe sopravvissuta o no» disse.

Berglund annuì. «Solo di fronte alla morte riusciamo a comprendere la vita» constatò. «È solo in quei momenti che possiamo apprezzare la vita e separare il grano dalla pula. Spero di non sembrarle presuntuoso. Non voglio, lo sono stato ed è bastato, è qualcosa che ho lasciato in chiesa, sul pulpito a predicare.»

Rise, una risata rapida e secca, e Barbarotti notò che neanche lui riusciva a ridere.

«C’è molto di presuntuoso» disse. «E c’è molto che non scopriremo mai. Per il momento ci occupiamo di questi strani casi di morte, ma so che forse non troveremo mai la risposta. Come e perché sono morti. Lei cosa pensa?»

Rickard Berglund si lasciò andare sullo schienale della poltrona e appoggiò le mani sulle gambe.

«Bisogna cercare la felicità o il senso?» chiese. «È una domanda che mi tormenta da anni. Dobbiamo davvero sforzarci di capire ogni cosa? A che serve? Forse la conoscenza che abbiamo cercato finirà per farci del male quando l’avremo trovata. Com’è il suo Dio?»

Barbarotti si chiese all’improvviso se l’uomo di fronte a lui fosse davvero lucido. Era sicuramente più presente rispetto all’ultimo incontro, ma quelle parole sembravano piuttosto strane. O era solo perché anche lui era sulla difensiva?

«Com’è il mio Dio?» ripeté dopo aver preso un altro biscotto e averlo mandato giù con un sorso di caffè. «È un gentiluomo, ha il senso dell’umorismo ed è onnipotente.»

Rickard Berglund rise di nuovo brevemente. «Ci è arrivato da solo?» gli chiese. «Intendo dire, attraverso le sue esperienze personali?»

«E come altrimenti?» ribatté Barbarotti.

«Bene» disse Rickard Berglund. «Molto bene. Non c’è altro modo. Ma lei ha dimenticato la caratteristica più importante. Il Suo immenso amore.»

Barbarotti annuì ma, prima che riuscisse a portare la conversazione nella direzione giusta, Berglund proseguì.

«È successo lo stesso giorno, dunque?»

«Cosa?» chiese Barbarotti.

«Io ho perso mia moglie lo stesso giorno in cui la sua ha avuto un’emorragia cerebrale. È abbastanza strano. In ogni caso dovremmo essere nella condizione di capirci reciprocamente, non trova?»

Barbarotti bevve un sorso di caffè e cercò di concentrarsi. «In realtà non sono venuto da lei per parlare di questo» chiarì. «Ci stiamo occupando di Germund Grooth. E della morte di Maria Winckler.»

«Mi scusi se divago» disse Rickard Berglund. «Non sono molto presente in questi giorni.»

«Non è così strano» disse Barbarotti. «Ma, se posso tornare indietro a quel fatale giorno di trentacinque anni fa, cosa aveva spinto lei e sua moglie a organizzare quella cena in canonica? Da quello che abbiamo capito non vi frequentavate più da molto tempo.»

«Come fate a saperlo?»

«Abbiamo parlato con i Winckler. Dicono che non vi eravate visti durante l’ultimo anno a Uppsala. Tomas Winckler sostiene che i vostri rapporti si erano interrotti dopo un viaggio nell’Europa dell’Est, fin dall’autunno del 1972... la mia collega ha parlato con lui l’altro giorno. Presumo che lei possa confermarlo.»

Rickard Berglund si passò le mani sul viso. «Già, era successo qualcosa» disse lentamente e pensieroso. «Ma forse ci saremmo allontanati comunque. Proprio così. Un mese trascorso su un pullman rovente ha solo accelerato le cose.»

«Però li avete invitati in canonica quel sabato di settembre» constatò Barbarotti. «Anche se non vi vedevate da molto. Perché?»

Berglund fece spallucce. «Temo sia stata una mia idea» disse. «Incontrai per caso Germund in città e mi raccontò che si erano trasferiti qui. Ne parlai a mia moglie e, siccome Tomas e Gunilla vivevano a Göteborg da un anno, allora pensammo che... sì, perché non organizzare qualcosa?»

Fece un sorriso, ma tornò subito serio. «Naturalmente fu terribile quello che accadde. Però non ho mai, neanche in tutti questi anni, pensato che qualcuno l’avesse spinta. Era Sandlin che voleva arrivare a quella conclusione. Si chiamava così, vero?»

«Sì, esatto, l’ispettore Sandlin» confermò Barbarotti. «Ma la morte di Germund Grooth non le ha fatto cambiare idea?»

Rickard Berglund rifletté per diversi secondi. Barbarotti lo lasciò pensare, si ricordò della vecchia regola secondo cui non si doveva temere il silenzio. Berglund sapeva che sulla morte di Grooth gravava il sospetto di un omicidio. Doveva trovare un modo per verificare il suo alibi, se necessario chiedendoglielo apertamente. Anche se poteva sembrare brutale.

Sono troppo sensibile, pensò. Mi fa pena. Non so perché, forse perché sabato seppellirà sua moglie.

«Non ho avuto modo di rifletterci» riprese Rickard Berglund. «È chiaro che è molto strano. Ma non ho pensato a Germund. Non l’ho mai fatto, neanche durante gli anni di Uppsala, in realtà. Lui e Maria erano una coppia originale, molto originale.»

«Sono stati originali anche quella sera in canonica?»

Berglund fece spallucce. «Come al solito, direi... no, non è stata una serata ben riuscita. Ma è finita presto. Gunilla era stanca per la gravidanza. Se non avessimo organizzato quella gita nel bosco... non sarebbe successo nulla.»

«No?»

«No, non penso proprio. Ma era già deciso.»

«Capisco. E non è successo nessun incidente durante quella sera?»

«Incidente? Assolutamente no.»

«Neanche durante il viaggio nell’Europa dell’Est... quando è stato? Nel 1972?»

«Esatto, 1972» confermò Berglund. «No, non è successo nulla di speciale neppure allora. Ci siamo solo stancati gli uni degli altri, tutto qui. Ci siamo allontanati. E io evito ancora di prendere il pullman per i lunghi percorsi.»

Barbarotti decise di andare dritto al punto.

«Cos’ha fatto il sabato in cui è morto Germund Grooth?» gli chiese.

Rickard Berglund rifletté qualche istante.

«Non ne ho la più pallida idea» rispose. «Ero in ospedale da Anna, direi. Ho trascorso quasi tutto il mio tempo là, negli ultimi mesi.»

«È possibile controllare in qualche modo?»

Rickard Berglund si piegò verso Barbarotti.

«Può sentire il personale della clinica» disse. «Diamine, perché vuole saperlo?»

Barbarotti avrebbe potuto rispondere «Routine», ma gli sembrava così banale, perciò scelse di non rispondere.

Abbandoniamo il caso, pensò. Non ha più senso continuare.

L'uomo che odiava i martedì
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