21
Il mattino successivo lo mise con le spalle al muro. O almeno ci provò.
Lasciarla sola con gli altri? Uscire da solo con Germund e infischiarsene di tutto? Che modi sleali erano quelli? Cosa significava?
«Ne aveva bisogno» rispose Tomas.
«Ne aveva bisogno?»
«Sì. Mi dispiace, ma devi credermi.»
«Quindi le esigenze di Germund vengono prima di tutto?»
«Ieri sì. Non avevo scelta.»
«E perché? Perché non avevi scelta?»
Tomas si prese la testa tra le mani e la guardò dall’altro lato del tavolo. Erano le dieci meno un quarto del mattino, Gunilla vide il suo viso stanco, ma non per la sbornia né per il senso di colpa, come lei aveva supposto. Invece era combattuto. Si chiedeva se avesse dovuto raccontarglielo o meno. Gunilla versò dell’altro caffè e aspettò. Spalmò la marmellata su una fetta biscottata, cercando di reprimere l’irritazione.
«Pensava di uccidersi.»
«Cosa?»
«Germund pensava di uscire e suicidarsi. Ecco perché l’ho seguito.»
Si pentì di non averglielo chiesto già la sera prima. Invece aveva scelto di tacere e mostrarsi risentita. Si erano messi a letto alle due, quando tutti se n’erano andati, senza dirsi una parola. Si erano coricati dandosi la schiena e si erano addormentati.
E ora Tomas era lì a sostenere di aver salvato la vita di Germund. Cazzo, pensò Gunilla Rysth. Se mentisse su una cosa del genere sarebbe preoccupante. Davvero preoccupante.
Ma perché dovrebbe mentire? Ha avuto tutta la notte per inventarsi una bugia migliore.
«Raccontami» disse, accendendosi una sigaretta.
«Allright» disse Tomas. «Anche se gli ho promesso che non lo avrei detto a nessuno.»
Gunilla fece un tiro e aspettò di nuovo. Lui sospirò e si sistemò meglio sulla sedia. Osservò la pigna di piatti da lavare.
«Solo se non lo dici a Maria.»
«Non lo dirò a nessuno. Era completamente sbronzo, no?»
«Lo so. Ma non erano solo chiacchiere da ubriaco. In ogni caso non mi sono sembrate tali. E poi se l’è presa con quel Lars-Inge.»
«Perché l’hai invitato? Non c’era qualcuno di meglio?»
«Sorry» disse Tomas. «L’avevo incontrato solo da sobrio. Era davvero insopportabile. Mi domando cosa ne sarà di questo paese se lasceremo la finanza in mano a persone simili.»
«Sarai tu a fare da contrappeso. Del resto quel Bengan non era meglio.»
Tomas fece spallucce, lei sospirò. «Forse non si pensa al suicidio solo perché si incontra un economista antipatico, non ti pare?»
Lui scosse la testa. «No, è auspicabile di no. Non capisco. Ma a volte basta una scintilla, non credi? E ieri sera per Germund è stato così. Non è stato facile farmi dire qualcosa su quello che c’era dietro, se non che non era niente di catastrofico.»
«In che senso niente di catastrofico?»
«Be’, non era successo niente di particolare. È qualcosa che è dentro di lui, e che a volte torna a galla. Forse ha a che fare con la morte dei genitori e della sorella. Qualcosa che è sempre lì in agguato, ma non so esattamente quale sia il problema. Non volevo chiederglielo.»
«Cos’ha detto di preciso?»
Tomas scosse la testa. «È uscito dal bagno e mi ha detto: ’Ne ho abbastanza, Tomas, esco e vado a suicidarmi. Di’ a Maria che mi dispiace’.»
«Cosa? Ti ha detto questo?»
«Sì, ha detto proprio così. Testuali parole. E sembrava sobrio, anche se non lo era. Dopodiché ha preso la giacca e la sciarpa ed è uscito. Cosa cazzo avrei dovuto fare?»
Gunilla spense il mozzicone di sigaretta e cercò di mostrarsi spontanea, ma sembrò confusa. E in qualche modo dubbiosa. Inspiegabilmente e ostinatamente. Pensò che in fondo non conosceva per niente Germund Grooth. Non gli aveva mai parlato a quattr’occhi, come invece aveva fatto con Rickard e Maria. E onestamente non capiva neanche molto bene Maria, ma con Germund non aveva nessun tipo di affinità. Se si trovavano da soli in una stanza – non era successo spesso, solo qualche volta – non sapeva mai che cosa dirgli. Con lui non si potevano dire sciocchezze, come invece si poteva fare con Maria. Ad esempio fare battute su Tomas così per dire, tra il serio e il faceto.
Ma Germund Grooth era un tipo difficile. Altezzoso, forse inconsapevolmente. A lei non dispiaceva, certo che no, ma lui restava un estraneo. Siamo due specie che non comunicano, pensò. Semplice. Come un pesce e una mucca.
Gunilla scoppiò a ridere. Tomas aggrottò la fronte, perplesso.
«Cos’hai da ridere?»
«Sorry. Niente. Allora cos’avete fatto?»
Tomas allargò le braccia. «Siamo usciti. Nel quartiere di Stabby, verso il bosco, abbiamo fatto un giro e siamo tornati indietro. Abbiamo preso una birra da Rackis, c’era un gruppo jazz che suonava, ma avevano appena fatto una pausa. Prima mi ha detto che avrei dovuto lasciarlo perdere, così poteva fare quello che voleva in santa pace. Ho ribattuto che non ci pensavo nemmeno a lasciarlo solo, che naturalmente non gli avrei permesso di ammazzarsi... ho pensato che era meglio prenderlo sul serio. Bisogna avere rispetto, io sarei furioso se non mi credessero nel momento in cui decidessi di suicidarmi. Che ne pensi?»
Gunilla annuì. «Certo. Era ubriaco, e quando si è ubriachi e tristi si vuole essere presi sul serio, anche se si dicono solo sciocchezze. Non vorrai dirmi che si sarebbe suicidato davvero se tu non lo avessi seguito?»
Tomas accese una sigaretta. «Come faccio a saperlo?»
«Me lo stai chiedendo?»
«Sì. In questo momento le cose stanno così, quando ci guardiamo indietro, vediamo solo quello che è effettivamente successo. Non quello che non è successo. Forse ho salvato la vita a Germund, ma non lo sapremo mai con certezza. L’importante è che ho deciso di seguirlo. Ho pensato che fosse importante non lasciarlo andare via da solo, non mi aspetto certo una medaglia.»
Gunilla rimase a guardarlo per mezzo minuto. Sembrava davvero provato, e forse aveva motivo di esserlo. «Scusa» gli disse. «Magari hai fatto davvero la cosa giusta. Se mi sono arrabbiata non è la fine del mondo. Lasciami perdere e basta. Ma di cosa avete parlato? Ti ha spiegato perché voleva farla finita?»
«Non esattamente» rispose Tomas. «Ha detto che si sentiva schiacciato da un peso infernale.»
«Un peso infernale?»
«Sì, ha usato queste parole. E ha detto che la vita è solo uno stupido scherzo, una pantomima, e che non aveva più voglia di recitare... sì, si è espresso così. Se tutto è falso e privo di significato, allora c’è soltanto una cosa da fare.»
«Uccidersi?»
«Sì. Ovviamente gli ho detto che erano stupidaggini e gli ho chiesto che senso aveva morire. Lui è scoppiato a ridere e ha risposto che niente aveva senso, e che era proprio quello il punto. Poi, non so come, ha smesso di parlare della cosa e abbiamo camminato sotto la pioggia e chiacchierato, semplicemente... poi, da Rackis, faceva discorsi... ampollosi. Capisci, vero?»
«Giovani intellettuali alle prese con i loro dilemmi esistenziali?»
«All’incirca. Anche se non è un tipo semplice, Germund. Non so cosa fosse quel peso infernale. Ma è ovvio che nasconde un trauma. Perdere tutta la famiglia ad appena dieci anni. Non c’è da stupirsi che sia un po’ strano.»
«Che tipo di aiuto ricevette, lo sai? Quando è successo, intendo.»
«Non ne ho idea. Non credo che ne parli neanche con Maria, ma forse tu a lei potresti chiederlo. Io non posso farlo di certo. Anche se dieci anni fa c’erano già dei bravi psicologi...»
«Chi si prese cura di lui?»
«Non lo so. Si trasferì a Uppsala quando aveva sedici anni. Iniziò a studiare alla Fjellstedtska, un seminario minore, dove stava a pensione.»
Gunilla annuì e rifletté un attimo.
«Strane, quelle parole. Peso infernale?»
«Sì. Ha detto anche un’altra stranezza. Che è stato a letto con ventidue donne. Cosa ne pensi?»
«Cosa ne penso? Che è disgustoso, ecco cosa penso. Maria lo sa? Credevo dovessero andare a vivere insieme.»
«È così, infatti. Lei probabilmente lo sa, e infatti lui non mi ha detto di non dire niente sulla questione. Ma soltanto sui suoi pensieri suicidi.»
«Anche lei comunque non è proprio di primo pelo...»
«E cosa c’entra?»
«Non ne ho idea. È tua sorella, non la mia.»
«E cosa significa questo?»
«Cosa?»
«Che è mia sorella e non la tua?»
Gunilla sospirò. «Scusa. Non possiamo smetterla, adesso, Tomas? Ci stiamo solo inacidendo. Ieri è stata una serata di merda, a volte succede.»
Tomas si alzò. «Va bene. Laviamo i piatti, piuttosto? Non abbiamo più neanche una tazza pulita in casa.»
In seguito Gunilla ci aveva riflettuto. Per tutto l’inverno quei pensieri di tanto in tanto le erano riaffiorati alla mente.
Sia quello che Tomas le aveva raccontato di Germund – il suicidio e le molte ragazze che aveva avuto – sia quella spiacevole conversazione che avevano avuto in cucina. Quando avevano iniziato a parlare lei era arrabbiata, ma molte volte poi era sembrato che si capissero. Però non aveva funzionato. Non erano arrivati a nulla. Avevano lavato i piatti e rimesso in ordine per due ore senza quasi rivolgersi la parola. Forse per quello che lei aveva detto di Maria. Che era una responsabilità di Tomas, non sua. Lui l’aveva presa come un’accusa, come se in qualche modo Gunilla gli addossasse la responsabilità di quello che avevano scoperto, sia a proposito di Germund che di Maria. Non lo aveva detto apertamente, ma il silenzio era stato persino più eloquente. Non serviva parlarne, non aveva senso provare a spiegare certe cose. E forse quella era proprio la cosa più difficile da accettare.
Il fatto che la tenesse fuori. Lei non sapeva cos’aveva davanti, come ragionava lui in proposito, ma questo dipendeva dal fatto che lui non aveva mai lasciato aperto uno spiraglio da cui lei potesse dare un’occhiata. Nel suo mondo privato.
Uomini, aveva pensato. Le parole sono d’argento, ma il silenzio è d’oro. Stronzate.
Ma lei lo aveva accusato, lui aveva perfettamente ragione. Non poteva negarlo.
Alla fine di gennaio andarono in Spagna nella casa dei genitori di Tomas, come avevano stabilito. Il giorno prima della partenza, Gunilla aveva parlato al telefono con Rickard Berglund. Era stata una conversazione breve, ma lui aveva fatto in tempo a dire che la Spagna in effetti era una dittatura fascista, ma chiaramente bisognava cogliere al volo l’opportunità di starsene al sole gratis per una settimana. Ibiza però era più stuzzicante in agosto, no?
Non era stato facile dimenticare quel commento – anche se Rickard se l’era lasciato scappare per fare lo spiritoso –, e oltretutto il tempo non era stato un granché, brutto, piovoso e freddo per tutta la settimana. In due occasioni andarono in treno fino a Málaga per passare la serata, era l’unica cosa accettabile. Un giorno noleggiarono un’auto e andarono a visitare le grotte di Nerja, ma a Gunilla misero paura. A Tomas piacquero, ma lei trovava che assomigliassero a un enorme sepolcro, una cattedrale sotto terra. E una cattedrale sotto terra poteva essere stata costruita per un uomo potente. Un principe delle tenebre. Lo disse a Tomas quando si rimisero in macchina, e lui si limitò a sbuffare.
Principe delle tenebre? Ma cosa stai farneticando, Gunilla?
Il giorno prima del rientro rimase tutto il pomeriggio a letto a piangere al ritmo della pioggia. Disse a Tomas di avere mal di testa e di voler rimanere a casa a riposare; probabilmente lui non le credette, ma pensò che fosse una soluzione comoda. La verità è un compromesso tra due persone che non vogliono litigare. La lasciò sola a singhiozzare e se ne andò in città per conto suo. Quando tornò a casa verso le nove di sera aveva sicuramente bevuto parecchi bicchieri di vino.
Naturalmente volle fare l’amore, lei non si tirò indietro, e quando fu tutto finito e Tomas si fu addormentato pensò che la loro relazione era arrivata a un bivio. Così non si poteva andare avanti. Quella non era vita.
Ma dopo tre settimane che erano tornati a Uppsala e il trimestre di primavera era iniziato, Gunilla si rese conto di essere di nuovo incinta. Era successo quell’ultima sera a Fuengirola. Non riusciva a chiarire nemmeno a se stessa se aveva lasciato di proposito le pillole a casa nell’armadietto del bagno o se le aveva semplicemente dimenticate.
Ma non cambiava nulla. Aspettava un bambino. Non era passato neppure un anno da quando aveva perso Lussan.